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Eppure uomo e donna si ritroveranno, resi migliori dalle lunghe incomprensioni

di Francesco Lamendola - 23/08/2011




Mai, come in quest’epoca, uomo e donna sono stati lontani l’uno dall’altra; mai avevano vissuto una tale disarmonia, una tale incomunicabilità, perfino una tale indifferenza reciproca.
Questi nostri anni della tarda modernità passeranno alla storia come quelli del grande gelo, della grande distanza, della voragine che si è aperta fra l’uomo e la donna, così come, nella storia di una singola coppia, vi è, quasi sempre, un periodo di profonda incomprensione, addirittura di reciproca insofferenza, che né l’uno né l’altra ricordano mai volentieri, consapevoli di aver dato fondo, nel corso di esso, alla loro parte peggiore, quella più egoista e meschina.
Non c’è da andare fieri di ciò che sono divenuti, ultimamente, l’uomo e la donna, l’uno per l’altra: è una fase storica che verrà ricordata con imbarazzo, con vergogna, anche se probabilmente era necessaria, affinché entrambi potessero riscoprire la bellezza di ciò che ciascuno di essi costituisce per l’altro.
La donna, pervasa da indefinibili inquietudini, bruciata da desideri ardenti ma confusi e velleitari, ha voluto imporre alla società una sorta di nuovo matriarcato, imitando dall’uomo, e peggiorandoli, i suoi peggiori difetti: il carrierismo, la boria, il pragmatismo esasperato; e l’uomo, confuso e spiazzato, ha smarrito la sua identità e si è ridotto a scimmiottare la donna nei suoi aspetti meno esaltanti: la fatuità, il narcisismo, la civetteria sfrontata e banale.
Hanno rinunciato alla loro parte più vera e si sono abbassati da se stessi a recitare una parte mediocre, come in un pessimo film con attori di terz’ordine; fuori ruolo l’uno e l’altra, lei grottescamente mascolinizzata, lui penosamente effeminato.
Invece di mettere insieme le loro forze per costruire un progetto di vita, per fare figli e crescerli con amore e buoni esempi, si son messi a litigare continuamente, a farsi i dispetti, a denigrarsi, a sminuirsi l’uno con l’altra, spesso proprio davanti ai figli.
Si sono messi a correre dietro a tutte le mode più corrive, a inseguire sempre nuovi bisogni artificiali; a tradire, con sempre più ottusa convinzione, la loro autentica vocazione, la loro naturale spinta a crescere, a realizzarsi, a collaborare lealmente l’uno con l’altra; hanno inseguito sempre e solo il loro piacere e i loro presunti diritti, senza rivolgersi mai ad una istanza superiore, capace di dare scopi e significato al cammino che hanno deciso di percorrere insieme.
Si sono rimpallati a lungo le responsabilità, le menzogne travestite da mezze verità, le infedeltà verso se stessi spacciate per chissà quali percorsi alternativi, per chissà mai quali nuove e mai viste forme di libertà e di realizzazione personale.
Hanno disimparato a dire «noi» e «nostro», sanno ormai soltanto dire «io» e «mio»: «il mio orgasmo»; «il mio conto in banca»; «le mie ferie».
Si sono fatti tutto il male possibile: affettivo, psicologico, morale; si sono spinti l’un l’altro lungo strade che non portano da nessuna parte, hanno fatto a gara nel darsi cattivi esempi e nel darli anche ai loro figli.
Non hanno lasciato nulla d’intentato per infliggersi reciprocamente il massimo danno possibile: il ricatto, le querele, la lingua che taglia e ferisce più della lama di un coltello; come nemici irriducibili, si sono mandati citazioni per mezzo di avvocati, hanno cercato di sfruttarsi finanziariamente dopo la separazione o il divorzio, hanno provato in ogni modo a rendersi amara l’esistenza, con minacce, con violenze, con calunnie incessanti.
La donna, in particolare, ha vissuto la dissoluzione del legame stabile di coppia come una specie di vittoria matriarcale sul bieco e reazionario predominio maschilista: tanto è vero che, in certi ambienti borghesi medio-alti e soprattutto in certi ambienti intellettuali radical-chic, lo status della donna separata o divorziata è percepito come di molto superiore a quello della donna sposata e madre di famiglia.
Cioè: prima si è single di vent’anni; poi, trentenni conviventi; infine quarantenni o cinquantenni libere e liberate, senza più figli e mariti rompiscatole tra i piedi: finalmente in condizione di dare la scalata al successo sociale, a trionfare nei salotti della buona società, a viaggiare per diffondere ovunque la Buona Novella del neofemminismo spicciolo e rampante.
In tali ambienti, la donna con marito e figli è compatita, guardata con un misto di pietà e disapprovazione, come dire: che aspetta costei a liberarsi; così come si sarebbe potuto dire,  trenta o quarant’anni fa: che aspetta costei a fare la patente?; oppure, quindici o venti anni fa: che aspetta costei ad imparare l’uso del computer? Non lo sa che viviamo nell’era delle magnifiche sorti e progressive e che, se qualcuna brancola ancora nelle tenebre della sudditanza al maschio padrone, deve solo ringraziare se stessa, la propria ignoranza ed ignavia, la propria deplorevole mancanza di autostima?
L’uomo, da parte sua, non sta certo facendo una figura brillante: più preoccupato della propria messa in piega che della propria compagna di vita; più sollecito dei propri addominali che dei propri figli, somiglia sempre più a un bambolotto di plastica, palestrato e tirato a lucido, ma terribilmente vuoto e irrimediabilmente fasullo.
L’uomo e la donna, dunque, si sono cacciati veramente in un vicolo cieco, dal quale non sanno più come fare ad uscire.
Hanno toccato il fondo; non si può proseguire oltre in questa direzione: adesso è arrivato il tempo di ricominciare, di ricostruire, di ripartire.
Dopo tanto distruggere, è venuta l’ora di rimboccarsi le maniche e ristabilire un minimo di chiarezza, di dialogo, di collaborazione, premessa alla riscoperta di un legame reciproco ben più profondo, senza il quale l’uno e  l’altra non sono che due esseri mutili e frustrati - un legame che tanto, tanto tempo fa, certi poeti - inguaribilmente malati di romanticismo - solevano chiamare: amore.
Basta con il vantarsi di essere degli impareggiabili picconatori, dei demolitori a trecentosessanta gradi; è giunto il tempo di rientrare in se stessi, di ritrovare la propria identità, di tornare a prendersi cura dei propri figli: che non significa, ovviamente esaudire ogni loro capriccio e magari addirittura prevenirlo, ma offrire ad essi dei solidi punti di riferimento, degli esempi fattivi e, prima di tutto, una volontà ed una possibilità di autentico dialogo.
Forse le giovani mamme dovranno rinunciare ad andare tutti i sabati dalla parrucchiera e, forse, i giovani e meno giovani padri dovranno rinunciare a scendere al bar ogni sera che Dio manda, per la partita a carte o al biliardo con gli amici.
Forse le une e gli altri dovranno capire che fare shopping o allenarsi a tennis e fare le vasche in piscina è meno importante che trovare il tempo per seguire i propri figli più da vicino, parlare con loro, ascoltarli, incoraggiarli, sostenerli.
In ogni caso, l’uomo e la donna devono ritrovare il proprio ruolo naturale: la bellezza e la complementarità del virile e del femminile; la poesia e la commovente ricerca l’uno dell’altra, perché, da soli, sono entrambi ben poca cosa.
Questo non significa che essi devono giocare alla commedia di Tarzan e Jane: la virilità non coincide con il machismo, anzi, in un certo senso ne è l’esatto contrario, la profonda negazione: l’uomo scimmia, brutale e senza un briciolo di tenerezza, non è la quintessenza del vero maschio, ma solo la sua grottesca, pietosa caricatura.
Allo stesso modo, la vera femminilità non ha molto a che fare con le labbra siliconate e cariche di rossetto, con la sesta misura di reggiseno ottenuta artificialmente, con le gambe accavallate al di sopra di  minigonne vertiginosamente corte, tanto da lasciar vedere le mutandine o, magari, l’assenza delle mutandine.
Una donna del genere non rappresenta affatto la quintessenza della femminilità: ella non è altro che una zoccola, puramente e semplicemente.
Non bisogna scambiare l’emancipazione con la volgarità, la libertà con la sfrontatezza: sono concetti profondamente diversi, che solo una propaganda subdola, interessata e metodica è riuscita a confondere nel nostro universo mentale.
Non stiamo dicendo, sia ben chiaro, che la donna perfetta è quella che vive come una reclusa, pensando solo e unicamente al marito, ai figli ed alla casa: stiamo affermando che, per una donna, occuparsi di queste cose non ha proprio nulla di disdicevole, nulla di mortificante, nulla di retrogrado.
E nemmeno stiamo dicendo che l’uomo perfetto è quello che vive solo per il lavoro e la famiglia; bensì che un uomo vero, che abbia rispetto di se stesso, non disdegna affatto di essere un serio lavoratore o di sforzarsi di essere un buon padre e un buon marito.
È chiaro che entrambi hanno diritto anche a una vita loro, indipendente dalla casa e dai figli e, in una certa misura, indipendente anche l’uno dall’altra: non è detto che l’uomo e la donna debbano fare ogni cosa insieme, dalla spesa al fatto di andare al cinema; che non debbano avere amici diversi e concedersi passatempi diversi.
Però, attenzione: prima di pensare ai diritti dell’uno e dell’altra, bisogna che entrambi si ricordino di avere dei doveri: lui verso di lei e lei verso di lui; ed entrambi verso i loro figli.
Se viene a mancare questa consapevolezza, questa profonda coscienza che la vita di coppia è basata su un impegno volontariamente assunto e mantenuto con abnegazione e buona volontà, viene a mancare tutto il resto: sarebbe un po’ come voler costruire una casa, scordandosi di gettare le fondamenta.
Ebbene, questo è precisamente ciò che si è voluto fare negli ultimi decenni: costruire, costruire sempre più in grande, sempre più in alto: ma senza curarsi delle fondamenta.
Da buoni mastri muratori, dobbiamo ripartire dalle fondamenta e ricominciare, là dove avevamo trascurato di lavorare.
Bisogna essere umili e pazienti, se davvero si vuole innalzare un edificio solido, che non crolli al primo soffiar di vento; bisogna ritornare alla sostanza e lasciar perdere le frivole apparenze e tutto ciò che è secondario, inessenziale.
Che cosa è veramente essenziale, oggi, nella nostra vita?
Quante sono le sciocchezze stupide e inutili, quanti sono i bisogni artificiali che la ragnatela consumista ci ha cucito addosso, senza che ce ne rendessimo conto, senza che fossimo capaci di riconoscerli per quello che realmente sono?
Essenziale è realizzare la nostra vocazione, rispondere alla chiamata; e farlo ciascuno secondo la propria natura: la donna come donna, l’uomo in quanto uomo, ed entrambi, poi, ponendosi al servizio dei propri figli - non nel senso di diventare i solerti ministri di tutti i loro capricci, ma in quello di saper anteporre il loro vero bene al proprio.
E ciò non può avvenire senza spirito di sacrificio e, diciamocelo con franchezza, senza una certa dose di fatica, talvolta ingrata, perché apparentemente inutile.
Dovere, sacrificio, fatica: quante parole divenute impronunciabili, che bisogna, invece, ricominciare a pronunciare.
La cultura edonistica e materialistica del progresso illimitato, della libertà astratta e dei diritti a tutto campo, ci ha disabituato all’idea che la vita sia anche dovere, sacrificio, fatica: ebbene, dobbiamo imparare nuovamente ciò che avevamo dimenticato.
Ne varrà la pena.
Perché ad ogni dovere compiuto, corrisponde un intimo senso di soddisfazione; ad ogni sacrificio fatto per una giusta causa, corrisponde un senso di pienezza e di armonia; ad ogni fatica spesa per amore dell’altro, corrisponde un accrescimento della nostra parte migliore.
Sono queste le cose che ci aiutano a maturare, che ci fanno stare veramente bene con noi stessi: non le sirene del consumismo o gli sterili trionfi del narcisismo
In fono è semplice: basta trovare la forza di cominciare; il resto verrà, sicuramente verrà…