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Il problema della cultura democratica è che ogni cretino si crede un Aristotele

di Francesco Lamendola - 02/09/2011





Il mio amico Lorenzo dice che fra una cinquantina d’anni l’aggettivo “democratico” avrà assunto un significato infamante, così come lo hanno assunto, nel volgere del secolo scorso, gli aggettivi “fascista” e “comunista”.
Secondo lui, verrà il giorno in cui tutta la miseria di un sistema demagogico, inefficiente e deresponsabilizzante, dove i peggiori imbonitori delle folle hanno sempre l’ultima parola, dove nessuno si assume mai la propria parte di responsabilità per il bene comune e dove si scarica sempre su qualcun altro l’onere delle cose da fare a servizio della comunità, cadrà nel disprezzo generale e verrà seppellito sotto il peso di una condanna inappellabile.
In particolare, si ricorderanno con pena e vergogna le pretese dei sistemi democratici di farsi norma a se stessi, di dettar legge al mondo intero e perfino d’intraprendere crociate di “liberazione”, armi alla mano, per esportare le proprie meraviglie in quegli angoli arretrati e sfortunati del globo, ove ancora non erano giunte le magnifiche sorti e progressive della modernità.
Allora, lui pensa, emergerà, dalla forza stessa delle cose, un modo completamente nuovo di intendere la politica, fondato sulla maturità e sul senso di responsabilità di ciascun individuo e alimentato dalla consapevolezza che è necessario l’impegno generoso e intelligente di tutti, affinché sia preservato il bene di ognuno: vale a dire una sorta di super-anarchia, dove non esista più la delega del governo, ma ognuno partecipi direttamente alla gestione della cosa pubblica, con spirito lungimirante e costruttivo.
Anche a me piacerebbe crederlo, ma non so se ci arriveremo e, soprattutto, sono meno ottimista circa i tempi che saranno necessari per giungervi, ammesso che ciò accada; però una cosa, intanto, mi sembra evidente: il danno, anzi, il cumulo di danni gravissimi che la mentalità e la cultura democratiche, autoproclamatesi sola e vera luce del mondo e antidoto infallibile contro ogni male del vivere sociale, hanno arrecato alla società medesima.
In particolare, il danno che ha prodotto lo spirito democratico emerso dal 1789, oltre che dalle pagine di John Locke e degli illuministi francesi, consiste nell’avere instillato nei cervelli e nelle coscienze l’idea, palesemente assurda e foriera d’infinite conseguenze negative, che alla pari dignità di ciascun essere umano corrisponda una assoluta equivalenza di valore nell’ambito del sapere, del pensare, del conoscere e del volere.
In democrazia, pena subire l’accusa infamante di “reazionario” e quella, ancor più terribile, di “antimoderno”, nessuno può azzardarsi ad affermare che una cosa è il sapere di chi ha dedicato la propria intera vita allo studio appassionato, e una cosa e ben diversa è il preteso sapere di chi, senza aver mai dedicato più di qualche fuggevole e superficiale interesse alla ricerca, s’impanca a profondo pensatore e a tuttologo onnisciente.
In democrazia, nessuno si confessa spontaneamente ignorante e nessuno riconosce la propria cultura o la propria intelligenza come inferiori a quelle di alcun altro: tutti si sentono dei geni più o meno incompresi, tutti si ritengono dei pozzi di scienza e dei ricettacoli di sapere infuso, senza avere mai faticato né fatto sacrifici per colmare la propria abissale ignoranza o per ridurre la propria terrificante stupidità.
In breve, la cultura democratica è caratterizzata dal fatto che, in essa, qualunque deficiente si crede un Aristotele, un Pico della Mirandola o un Leonardo da Vinci, si ringalluzzisce e fa la ruota come un pavone, credendo egli stesso all’immagine megalomane che si è formato di se stesso.
Se poi ci domandassimo come si sia arrivati a questo punto - perché così non era in tempi forse un po’ meno democratici, ma certamente più consapevoli del reale valore delle persone e delle cose - credo non tarderemmo ad arrivare alla conclusione che una gravissima responsabilità pesa sull’agenzia educativa per antonomasia, ossia la scuola.
Nel suo furore democraticistico ed egualitario, nel suo odio dichiarato per ogni distinzione di merito e di competenza, visti da certa pedagogia pseudo libertaria (don Milani compreso) come il cavallo di Troia della discriminazione di classe e della ingiustizia sociale istituzionalizzata, la scuola ha fatto e sta seguitando a fare di tutto per appiattire, livellare, omologare gli studenti e per uniformare il loro livello di preparazione verso il basso, così da spegnere, frustrare e scoraggiare ogni punta di eccellenza.
In tale opera di demolizione sistematica, di ignorantizzazione programmatica, di svilimento intenzionale della creatività, del merito e del pensiero critico, la scuola ha poderosamente contribuito a far sì che qualunque nullità si senta un genio e che le persone perdano ogni capacità di giudizio rispetto a se stesse, inebriandosi di virtù che non possiedono e gonfiandosi d’orgoglio per competenze che risultano bensì certificate sulla carta, magari a suon di dieci decimi nei licei e di trenta trentesimi nelle università, ma che, in realtà, non esistono affatto.
Ora, è evidente che, in un orizzonte socioculturale dominato dall’ipocrisia e dalla finzione, chiunque si sente promosso al rango di aspirante al Premio Nobel; ed è altrettanto chiaro che, in una situazione ove la statura media è quella dei nani, chi sia alto un metro e mezzo si sente un colosso e se ne va in giro a petto in fuori, abbassando la testa quando deve passare sotto l’arco di trionfo, perché, altrimenti, rischierebbe di urtarvi contro con la fronte.
Ancora una volta, quello che manca, quello che si è cercato di rimuovere, è il socratico «conosci te stesso», quella consapevolezza di sé, dei propri limiti, delle proprie reali attitudini, della propria verità interiore, dai quali solamente potrebbero scaturire, non senza un lungo e faticoso processo di ricerca, la vera conoscenza e la vera saggezza.
Nessuno possiede la scienza per grazia infusa; tutti la devono cercare umilmente, pazientemente, individualmente: perché non è una merce che si venda all’ingrosso, né che si trovi bella e pronta sugli scaffali del supermercato, come vorrebbero far credere - e non senza uno smaccato tornaconto personale -, fra gli altri, tanti sedicenti “guru” e tante “guide spirituali” che, in clima New Age, non arrossiscono nel dichiararsi tali e nel proporre ai comuni mortali dei magnifici e mai visti cammini di consapevolezza, di pienezza e di vitalità esistenziale.
Il danno più grave arrecato alla consapevolezza di sé dalla cultura pseudo democratica, infatti, non è tanto l’ignoranza, quanto la presunzione; non il desolante vuoto di pensiero e di contenuti, ma il fatto di credersi già per lo meno metà sapienti e metà saggi: laddove la mezza sapienza e la mezza saggezza, quand’anche esistessero (ma non è merce che si acquisti in percentuale), sarebbero comunque le peggiori nemiche dell’unica cosa che conta: la coscienza di quanto si è indietro nel cammino di ricerca e l’umiltà che da essa scaturisce.
Chi non sa e crede di sapere, oppure chi sa qualcosa e crede di sapere molto o quasi tutto, si trova in una condizione assai peggiore di chi non sa nulla o quasi nulla però, al tempo stesso, è cosciente della propria ignoranza: perché proprio da quella consapevolezza può nascere l’autentica esigenza di mettersi seriamente al lavoro per cercare il sapere e per aprirsi al mistero e alla grazia della vera conoscenza, che non è mai qualcosa di puramente umano.
La seconda agenzia di diseducazione sistematica è, duole dirlo, la famiglia.
Ormai non c’è quasi mamma che non ritenga la propria figlia meritevole di venire acclamata Miss Universo e non vi è quasi più papà che non s’immagini il proprio rampollo predestinato alla gloria della scienza e del sapere, passando come minimo per la Normale di Pisa.
Provate a osservare la reazione dei genitori di fronte a un insuccesso scolastico del proprio figlio: non si discute nemmeno che responsabile di esso non è lui, il povero pargoletto innocente che, magari, non nolo non ha alcuna voglia di studiare, ma nemmeno possiede le caratteristiche per frequentare quella determinata scuola; bensì del corpo docente, che è totalmente inadeguato, che non ha saputo motivarlo, che non ha saputo valorizzarlo o che, addirittura, non sa insegnare puramente e semplicemente e che dovrebbe andare a zappare la terra (come se quello del contadino fosse un mestiere da stupidi…) e smetterla di rovinare tante belle intelligenze e tante giovani promesse del futuro Olimpo della scienza.
Se, in prima elementare, il bambino torna a casa con quattro scarabocchi, quello è un capolavoro da far impallidire Piero della Francesca e Raffaello Sanzio e va subito celebrato, osannato, incorniciato e glorificato mediante apposite cerimonie, invito a parenti ed amici, inni di lode intonate dai nonni e dagli zii, cineprese a tutto campo per eternare il glorioso avvenimento.
Intendiamoci: una cosa è il valore affettivo, per dei genitori, del disegno eseguito dal loro bambino; un’altra cosa e ben diversa è il suo valore intrinseco. Eppure si cade nell’errore grossolano di identificare le due cose: e l’errore prosegue e si accentua, tenacemente ed implacabilmente, mano a mano che il dolce pargoletto cresce e passa attraverso i diversi gradi del processo di istruzione, fino alla sospirata e meritata laurea.
Si è mai visto un genitore che, davanti alla bocciatura del figlio svogliato e zuccone, dica semplicemente: «È giusto così: l’anno prossimo lo iscriveremo ad una scuola più adatta a lui, oppure lo manderemo ad imparare un mestiere»? Ma quando mai!, il piccolo è stato vittima di una palese ingiustizia e bisogna fare subito ricorso al T. A. R.: il quale, suprema ipocrisia, senza entrare nel merito della valutazione di non idoneità, va a cercare il pelo nell’uovo dal punto di vista burocratico, una firma che manca, una data sbagliata, e magari ripesca il silurato e restituisce l’onore offeso alla sacra famiglia della vittima.
Come si esce da questa situazione?
Come fare a restituire dignità al merito, consapevolezza di sé alle persone?
La strada è lunga e dura, anche perché si tratta di ripercorrere, in salita, un cammino che da troppo tempo si era consolidato, sempre e solo in discesa.
Ci era stato fatto credere che tutto sia facile, che tutto sia per tutti, che ogni verità equivalga a qualunque altra verità; che nessuno abbia il diritto di giudicare, che siamo tutti belli e tutti bravi e tutti onesti e tutti intelligenti; come un mantra ci è stato ripetuto, da legioni di psicologi che tengono rubriche sulle riviste patinate di moda, che siamo tutti eccezionali, tutti meravigliosi, tutti straordinari così come siamo, senza bisogno di fare proprio nulla per migliorarci, semmai qualche ritocco alla nostra immagine esteriore, un abbigliamento più sexy e spigliato, un trucco un po’ più malizioso, un alludere insinuante con lo sguardo et voilà, il gioco è fatto, il mondo intero cadrà, estasiato e ammutolito per l’ammirazione, ai nostri piedi.
Be’, forse le cose non stanno proprio così.
Forse il vero piacersi ed il vero volersi bene non hanno nulla a che fare con questo pattume mediatico, con questo conformismo grossolano e con questo patetico culto dell’apparire, quasi che potesse sostituire la carenza dell’essere.
Dobbiamo ripartire da zero o quasi: dobbiamo mettere bene in chiaro, prima di tutto con noi stessi e poi coi nostri figli, che siamo, sì, tutti creature uniche ed eccezionali, ma non certo indulgendo alle mode più corrive, quelle che ci vorrebbero omologare e trasformare in prodotti di una catena di montaggio; bensì mettendoci duramente al lavoro e sforzandoci di tirar fuori la nostra parte più profonda, più onesta e più vera.
Dobbiamo recuperare l’idea dell’impegno personale, della fatica, del sacrificio; dobbiamo restituire a queste parole il loro valore originario, dopo che l’edonismo oggi dominante le aveva rimosse e bandite dal nostro universo menale.
Questo dobbiamo fare: e puntare sulla forza di volontà, che, a sua volta, si alimenta di buone compagnie, di buone letture, di sani passatempi, senza i quali non si danno retto discernimento e onestà d’intenzioni, prima di tutto nei confronti di se stessi.
Tutto il resto è chiacchiera senza costrutto o, peggio, furbizia interessata da chi ha tutto da guadagnare dal perdurare di uno stato di cose che ci sta portando verso il collasso non solo spirituale, ma anche materiale, dal momento che anche per far girare la ruota dell’economia c’è bisogno di idee nuove, di menti creative e di capacità di discernimento.
All’opera, dunque: la messe è molta e gli operai sono pochi.