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Se l’artista indaga la condizione umana

di Tzvetan Todorov - 05/09/2011


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Fin dal XVII secolo, gli studiosi di Rembrandt hanno voluto vedere nei suoi quadri qualcosa che va oltre una bella giustapposizione di colori e di forme: un messaggio sulla condizione umana, una riflessione sul mondo. Roger de Pils, vissuto in Olanda alla fine del secolo, nel suo Abrégé de la vie des peintres (1699) afferma che Rembrandt, dietro «storie» prese in prestito dalla tradizione, in realtà aveva «tratteggiato un´infinità di pensieri». Thoré-Bürger ne Les Musées de la Hollande (1858-60) descrive Rembrandt come profondo e inafferrabile: «Non sappiamo che cosa dire: restiamo in silenzio e riflettiamo». Nel 1999, Simon Schama riconosce che Rembrandt è un maestro dell´emozione, ma aggiunge: «Sin dall´inizio Rembrandt fu anche un acuto pensatore, tanto filosofo quanto poeta». La pittura pensa e fa pensare, benché i pittori non sempre lo sappiano. Nella rappresentazione del quotidiano, Rembrandt non si limita a osservare il mondo circostante e a tradurlo in forme visibili: ci rende partecipi della sua concezione della vita umana.
Gli eroi e i santi che popolano le sue opere non sono diversi dagli individui che possiamo incontrare per strada, gli uni e gli altri meritano la stessa attenzione. Rembrandt ha voluto cogliere e rappresentare la verità in ogni situazione, in ogni gesto, si è mostrato nei panni del mendicante e del principe, proiettandosi in tutti gli uomini, le donne e i bambini (e perfino gli alberi) che affollano la sua opera: non ha smesso di penetrare nella loro intimità, andando oltre le apparenze e rendendo i suoi personaggi seducenti e vulnerabili al tempo stesso, umani nella loro stessa debolezza. Questo è, se non il principale, uno dei grandi messaggi della pittura di Rembrandt: una lezione di umanità e universalità. È grazie a queste qualità che noi tutti possiamo riconoscerci nei suoi quadri e ritrovare le nostre emozioni o i nostri interrogativi.
Non è tuttavia l´unica considerazione che possiamo trarre da quest´opera. L´analisi del rapporto fra le immagini e il loro creatore ci conduce anche oltre. L´identificazione universale praticata da Rembrandt sembra avere un prezzo: gli individui sono sacrificati sull´altare della conoscenza della specie. Il pittore stesso si riconosce in ognuno di loro – ma questo lo costringe a prendere le distanze da tutti. Disegnando gli uni e gli altri, catturando pose e movimenti, sembra mosso dalla curiosità più che dall´amore, lavora con empatia più che con simpatia. Elsje è stata appesa alla forca al mattino; nel pomeriggio bisogna subito accompagnare gli allievi sul posto affinché possano vedere com´è un cadavere fresco, prima che inizi a decomporsi. I figli che ha avuto con Saskia muoiono, ma ciò non gli impedisce di mostrare altri bambini che crescono e si dimenano allegri. Gli autoritratti di Rembrandt devono sicuramente essere interpretati con prudenza, poiché il pittore non rappresenta i propri stati d´animo ma i ruoli che interpreta di volta in volta. Tuttavia anche questa successione è eloquente: si passa rapidamente dal giovane gioioso e seducente dei primi anni di matrimonio all´individuo cupo e disilluso del periodo fra il 1636 e il 1638, prima di giungere, durante la malattia di Saskia, all´immagine del pittore sicuro di sé, che guarda i contemporanei un po´ dall´alto in basso. La stessa malattia di Saskia rappresenta un´interessante opportunità per esplorare i segreti di un corpo indebolito, di uno sguardo disperato. (...)
Dobbiamo evitare di dedurre le virtù dell´uomo a partire dalle qualità umane che animano le immagini del pittore e di proiettare ingenuamente il rappresentato sul vissuto. Più ancora, i particolari della sua biografia e le caratteristiche del processo creativo sembrano suggerire che Rembrandt non si preoccupasse di queste virtù, ma che fosse pronto a servirsi di parenti e amici per perseguire un unico obiettivo: perfezionare la sua pittura. Gli esseri che lo circondano sono ridotti a un ruolo ausiliario: diventare il nutrimento di questo artista dall´appetito insaziabile.
Potrebbe essere altrimenti? Nel momento della creazione si chiede all´artista di mostrare certe qualità, che ovviamente non sono la gentilezza (verso i personaggi o gli altri individui della specie umana), né l´indulgenza, o l´altruismo, o il protettivo istinto materno. Preferiremmo anzi che egli fosse implacabile – con se stesso, con l´umanità – per superare i predecessori nella ricerca di una nuova e più profonda verità sull´essere umano, per allargare i confini della conoscenza. È proprio questa verità che nell´arte chiamiamo bellezza. Dai grandi pittori non ci aspettiamo una prova della loro virtù né una condanna dei vizi altrui, bensì la capacità di capire e farci capire gli esseri umani: i ladri e gli assassini al pari dei santi e degli eroi. La realizzazione dell´opera pretende che l´artista impieghi tutte le sue forze rendendolo di conseguenza indifferente verso il mondo circostante, privandolo delle qualità a cui il mondo attribuisce valore. (...)
Gli artisti del passato erano consapevoli della tensione fra diverse finalità e hanno accettato le conseguenze derivanti dalla loro scelta. La ricerca inesauribile, ostinata, del bello e del vero non porta necessariamente alla felicità immediata. Il prezzo da pagare può essere perfino alto – tanto per l´artista quanto per i suoi cari –, perché la posta in gioco è grande. «Io non ho amici – pare abbia detto Beethoven a Bettina von Arnim –, debbo vivere solo con me stesso; ma so con certezza che, nella mia arte, Dio è più vicino a me che non agli altri uomini […]. Né mi preoccupo della mia musica, ché non può avere una brutta sorte. Chi la comprende, sarà sollevato da tutte le miserie che gli altri si portano dietro». In Francia, qualche decennio più tardi, Flaubert scrive a George Sand: «Ubriacarsi d´inchiostro è meglio che ubriacarsi d´acquavite. La Musa, per quanto arcigna possa essere, dà meno dolori della Donna! Non posso avere entrambe». (...) Anche Rembrandt appartiene a quella famiglia di artisti per cui il fiume della vita si separa in due rami che non comunicano fra loro. Il pittore è sensibile all´umanità di ognuno, dal dio crocifisso al bambinetto che impara a camminare; gli esseri che lo circondano, però, sono messi al servizio della creazione e del creatore. Poiché l´esistenza e le energie dell´uomo sono limitate per definizione, le rinunce sono ovviamente inevitabili. Eppure niente prova la fatalità di una simile distinzione (probabilmente inconsapevole per Rembrandt), in quanto se è vero che il creatore deve concedersi interamente alla propria opera affinché essa sia vera, e deve perfino accettare di diventare implacabile – nei propri confronti e nei confronti del mondo che abita – per arrivare a sondarne i segreti, niente lo obbliga, una volta uscito dall´opera, a perseverare in questa scelta. Ognuno vive se stesso come un individuo plurale. Se Gesù, la Vergine e i santi possono mescolarsi agli altri uomini senza perdere niente della loro grandezza, come Rembrandt ci ha mostrato così bene, perché gli artisti non dovrebbero riuscire a fare altrettanto?