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Imperialismo, sionismo, mondialismo: interpretazioni e fatti della guerra di Libia

di Claudio Moffa - 15/09/2011

Fonte: claudiomoffa




I°) UN MIO ECCESSIVO OTTIMISMO
Anche senza intenzionalità, il rischio di analisi improprie della guerra di Libia sussiste un po’ ovunque, a cominciare dal sottoscritto. In attesa della conclusione-svolta finale del conflitto, ho sbagliato ad attribuire troppa forza teorica e capacità pratica all’ “entrismo” “moderatore” del governo Berlusconi nei confronti di quella che era fin dal primo giorno – come ho sempre scritto e detto - una aggressione assolutamente illegittima: a quella linea, che ha alle sue spalle il dato di fatto che la guerra di Libia è stata pensata anche contro l’Italia di Berlusconi, si direbbe aver creduto lo stesso Gheddafi (la nave restituita all’Italia dopo la concessione delle basi italiane agli aerei NATO; l’appello al “fratello Obama” agli inizi di aprile) ma il problema è che col tatticismo ad oltranza si finisce, come insegna D’Alema nella guerra alla Jugoslavia del ‘99, per tradire non solo l’elettorato ma anche se stessi in quanto promotori – nel caso libico – dello storico Trattato di amicizia del 2008: un Trattato odiato fin dalla sua approvazione anche tra le fila del governo di centrodestra.

Se poi la “tattica” è condotta con alle spalle una compagine governativa e mediatica che ha al suo interno un ministro che si fa gli affari suoi [1] e agisce come un portavoce del Quirinale, è chiaro – visto il pushing di Napolitano a favore della guerra e dell’eliminazione di Gheddafi – che non c’è scampo. E’ vero, in  punto non di diritto ma di cinismo si potrebbe ricordare l’attivo del reingresso dell’ENI in Libia dopo il rovesciamento di Gheddafi: ma il pericolo-pendant di questo “successo” è non solo uno squilibrio dei rapporti geopolitici che avrà ripercussioni nel futuro su quanto sfuggito finora allo schiacciasassi mondialista, ma inoltre già oggi, la crisi che ha investito l’Italia: un sistema paese che è diventato inaspettatamente una novella Grecia, dalle basi apparentemente deboli come quelle elleniche, ovvero – attendo eventuali smentite – dalle basi ben più forti grazie ad un sistema bancario meno insano, ma non in misura tale da impedire un assalto voluto non dai cosiddetti “mercati”, bensì dai poteri forti della speculazione transnazionale. Un assalto “politico”, insomma, per nulla effetto di contraddizioni economiche oggettive come pretende certo marxismo salvabanche, e invece perpetrato dai grandi magnati della finanza internazionale che pretendono di distruggere uno dopo l’altro – dopo che le armi dello Stato ebraico si sono spuntate in Libano 2006 – i loro nemici. Fra cui Berlusconi, che da’ un mignolo, una mano e un braccio a lor signori, ma invano perché costoro continuano imperterriti a volerlo fare a pezzi. Un Berlusconi dunque “vincitore” col tradimento del Trattato del 2008, ma anche vittima perché quel che ha dato e dà non basta mai.

Insomma, tre cose in premessa sono per me chiare e indubitabili:

1) della crisi del berlusconismo non va visto soltanto il versante illuminato dal sole del voltafaccia rispetto a Gheddafi, ma anche quello ombroso ma non per questo meno evidente, dell’assedio contro il governo di centrodestra dopo la vittoria elettorale del 2008, da parte del giornalismo-canaglia nostrano, e in un crescendo senza fine, da parte dei pm a senso unico, di Sarkozy l’israeliano e della grande finanza mondialista. Al governo hanno impedito di lavorare, sia la natura “stregata”  (vedi il terremoto dell’Aquila, e quello, su scala minore, antiTAV) sia le campagne scandalistiche di Repubblica, sia infine una magistratura che – al di là dei casi specifici – pare proprio che pensi che solo Berlusconi sia stato colpevole di reati tipici di tutta la casta industriale, e nessun altro.

2) Di fronte a questi assalti Berlusconi ha sempre reagito con una linea tattica tesa ad acquietare la belva pronta a dissanguarlo, fondata sull’imbarco sulla sua nave inizialmente vincente, di ministri, sottosegretari, e alleanze editoriali-giornalistiche appartenenti ad un mondo opposto a quello da lui coltivato per anni in politica estera: una linea doppia che – non si fondi o si fondi, come dicono i maligni, sul principio “io ci ho provato, è andata male e dunque cambio bandiera” – alla fin fine lo ha enormemente danneggiato. Ecco allora il premier amico di Putin, estimatore di Lukascenko, fautore del Southstream, in affari ottimi con Venezuela e Iran come da rimproveri della stampa israeliana, sottoscrittore per giunta dell’accordo con la Libia di Gheddafi, eccolo, lui medesimo, presentarsi ad ogni occasione come filoisraeliano, apparenza o verità che cozza comunque frontalmente con i capitoli testé elencati, difficilmente riducibili a semplice convenienza economica.
Ed ecco in sequenza logica, il portavoce di Napolitano dentro il Consiglio dei Ministri; ecco quel sottosegretario alla Difesa che – rimbeccato dalla Jotti – ebbe a interrompere ripetutamente alla Camera, il fierissimo discorso di  Craxi sul diritto dei palestinesi alla lotta armata; ecco l’ex radicale capetto regionale di una  Fondazione finto-liberale e in verità aguzzina, nei cui gruppi di lavoro comparve un giorno un tal Settelenghi favorevole all’assassinio degli scienziati iraniani per risolvere il “caso Iran” … Ed ecco infine il commentame squinternato e razzistoide che odia a priori il mondo arabo e islamico, e in casa sua, non in Italia, e persino quello laicheggiante modello Gheddafi. Una lista lunghissima: il Cristiano (cristiano?) risuscitato dai cimiteri della Basilicata; il corteggiamento della Mondadori a Saviano, un trombone sionista pompato dalla RAI radicalchic come novello salvatore della patria; il Paolo che va e viene secondo il bollettino meteorologico, o il Giuliano che viene recuperato con la sua nota superintelligenza schizofrenica: attacca con vigore e argomentamente i magistrati che incalzano il Premier, e vomita il suo livore a favore di tutte le guerre contro quale che sia arabo o islamico critico di Israele, il cui comportamento internazionale – centinaia di risoluzioni dell’ONU violate – è esattamente il corrispettivo del non garantismo giudiziario in politica interna lamentato da  Berlusconi e dai suoi sostenitori. Senza contare poi il Vittorio che, con alle spalle la sua giusta inchiesta antiFini, incita appena può, con titolo a sei colonne, a “uccidere Gheddafi”, quello stesso Gheddafi che aveva dato una buca clamorosa e altamente simbolica, proprio al Presidente della Camera in sua attesa in Campidoglio … Da cui le domande: ma che casino è questo? E cosa ci ha guadagnato Berlusconi manager e premier dalla sua linea “doppia”, Putin e compagnia in parallelo con quanto sopra qui elencato?

3) In effetti nulla, proprio nulla: più Berlusconi si profonde in dichiarazioni di amicizia con l’Occidente azzurro-oltranzista e più lo schiacciasassi giuridico-mediatico-finanziario avanza - vedi anche la sentenza Mondadori -  per cercare di stritolarlo, lui, a rischio di progressivo isolamento dal “popolo” che in maggioranza lo ha eletto, un popolo un tempo memore dei disastri compiuti dalla sinistra finanziaria degli anni Novanta – privatizzazioni, precarizzazione del lavoro e via di seguito -  e che oggi si ritrova davanti agli stessi problemi, gestiti però dal centrodestra e aggravati dall’assalto speculativo internazionale.
E’ un atteggiamento, quello del capo del governo, che si fa fatica a a ricondurre a furbizia: al contrario, è come se il premier - di cui il fido Confalonieri disse a La Stampa: lo odiano perché pensano che sia un parvenu - si aspettasse di essere legittimato dal giro radicalchic che ne vuole da due decenni la morte politica e imprenditoriale; o come, nei fatti, quando non fa consegnare alla sicurezza di Arcore i cellulari delle sue squinzie, misura minima per un capo di governo sottoposto ad un assedio micidiale che dura dal 1994.



II°) MARXISMO, PARAMARXISMO E POSTMARXISMO:
DEBOLEZZA E LIMITI EURISTICI DELLA CATEGORIA “IMPERIALISMO”

Questo per quel che mi riguarda. Passiamo adesso alle altre letture, quelle in voga nella sinistra marxista paramarxista o postmarxista e quelle della destra “radicale”. Nella prima sono emerse due tipi di analisi, oltre al classico né né della palude pacifista. La prima è quella che si è schierata con le “masse libiche”, fa niente se sobillate e armate dai SAS britannici travestiti da arabi, e portati alla vittoria dalle bombe della NATO di Sarkozy. Questa lettura non merita per me commenti, è un classico di certo “troskismo” già sperimentato in Iraq con esiti disastrosi - l’opposizione “da sinistra” a un Saddam sotto le bombe angloamericane. Assurdo.
La seconda analisi sembrerebbe più seria, e riconduce tutto alla categoria leniniana dell’ “imperialismo”: ma è un’analisi carente e depistante che non tiene conto delle divisioni esistenti nel campo “imperialista”, pretendendo di ridurre il fronte aggressore alla notte buia di hegeliana memoria in cui tutte le vacche sono nere.

Tutti eguali, anglo-francesi, americani, italiani, turchi e norvegesi? Non è così: il rischio è una visione riduttiva che finisce da una parte per occultare il vero nemico della pace internazionale e dall'altra col cozzare con l’analisi dei fatti. La sinistra più meno marxista non può non ricordare che ai tempi del Vietnam si parlava dovutamente di falchi e di colombe, e che quella distinzione fu utile ai vietnamiti per vincere la loro lotta di liberazione nazionale. Né può non sapere che la stessa politologia sovietica ricorreva spesso alla locuzione “circoli oltranzisti della NATO” o “occidentali” per far fronte alle pressioni di un nemico composito cercando di far leva sulla sua parte moderata.

Ora, mentre è certo che non sono i ribelli ad aver fatto la “rivoluzione”, e che il nemico che ha espulso Gheddafi da Tripoli è appunto la più potente organizzazione militare del pianeta, la  NATO,  è altrettanto vero che ad aver promosso l’aggressione non è stata quest’ultima in sé considerata, ma qualcosa di diverso, un “potere forte” planetario che sovrasta l’Organizzazione del Patto Atlantico anche se ovviamente è ben presente al suo interno. Non si tratta di concedere alibi per i bombardamenti di cui tutti i membri dell’Alleanza atlantica si sono macchiati: il problema è però capire come stanno le cose, ai fini di una migliore risposta “al sistema occidentale” del warfare.
Cosa è dunque nel caso specifico della guerra a Gheddafi, il “potere forte” che ha spezzato improvvisamente il trend positivo degli ultimi anni (dopo la  guerra del Libano, in particolare) e che ha guidato l’Occidente verso l’aggressione alla Libia? L’ “imperialismo” punto e basta è forse una categoria esaustiva?

I fatti innanzitutto

Analizziamo i fatti.

Primo fatto, l’invenzione della legittimità della guerra è stata resa possibile da due risoluzioni delle Nazioni Unite a cui non hanno opposto il veto nemmeno la Russia e la Cina: segnale evidente di una complessità della situazione che richiama non tanto la categoria transnazionale ma statocentrica dell’ “imperialismo” (imperialismi e subimperialismi con in testa ovviamente, da qui all’eternità, gli USA), quanto piuttosto quella di cui parlerò più avanti di “mondialismo” – come fa correttamente Barozzi su Rinascita - vale a dire un imperialismo fondato su gruppi di poteri cosmopoliti più o meno occulti, detentori di ricchezze tanto immense quanto separate dal mondo della produzione: gruzzoli di denaro sonante – altro che virtuale – che servono ad affamare i popoli, a finanziare guerriglie e rivoluzioni colorate, e a fondare imperi mediatici per rabbonire e rimbambire le “opinioni pubbliche” internazionali col supporto della rete mediatica “ufficiale”.

Secondo fatto: sono stati i francesi e gli inglesi, e non gli americani o (ovviamente) gli italiani, ad avviare l’aggressione: l’Inghilterra con i SAS infiltrati a Bengasi e armati di pistole già nel febbraio scorso, la Francia con i bombardamenti  scatenati quando ancora era in corso il vertice parigino del 19 marzo, probabilmente per scongiurare una possibile fronda Roma-Berlino magari con il sostegno esterno dei paesi africani. Sono stati ancora loro a firmare l’atto “finale” della guerra (così almeno sperano) con bombardamenti NATO indirizzati disinvoltamente verso obbiettivi civili, e con lo sbarco-infiltrazione-conquista di Tripoli da parte dei servizi segreti di Londra. Sono stati loro infine a salire sul palco della conferenza stampa al termine del vertice parigino del 1 settembre, con a fianco lo sceicco del Qatar, Ban Ki Moon e i rappresentanti del CNT.  La banda dei cinque: la Clinton non c’era, ed è da provare un comando americano dietro le quinte secondo certo dogmatismo antiamericanista tipico della galassia estremista di sinistra e di destra, anche se - come osserva giustamente Fabio Falchi - gli USA hanno continuato a fornire aiuto logistico all'aggressione armata [2].
Al contrario, occorre ricordare che l’Occidente non è un monolite. Dire che Francia e Inghilterra sono due paesi della NATO per dedurre che è la NATO che ha voluto fin dall’inizio la guerra è opinabile, perché dentro la NATO ci stanno anche l’Italia (e tutto si può dire di Berlusconi tranne che abbia guadagnato dal colpo di mano di Sarkozy), la Norvegia della strage cristiano-sionista di Utoya e la Turchia, che alcuni giorni fa ha espulso l’ambasciatore di Israele bloccando ogni accordo di cooperazione militare con Tel Aviv. Una Turchia peraltro che si è posta in concorrenza con Sarkozy proponendo come sede del vertice, prima del suo dirottamento a Parigi, Istanbul.

Terzo fatto: Cameron e Sarkozy sono due ultras sionisti. Cameron ha vantato origini ebraiche, ha fatto una campagna elettorale inneggiando a Israele e alla sua “difesa”, ed è legatissimo al mondo della City e dell’editoria multimediale di Murdock.    
Sarkozy forse non è ebreo perché, come lui stesso ha detto una volta, discende sì da una famiglia sefardita di Salonicco ma sua madre non è ebrea di sangue, e si sa che l’appartenenza all’ebraismo è per gli ebrei stessi una questione genetica, di “razza”. Forse invece lo è, ebreo, come ha sostenuto il presidente dell’Alliance franco-israélienne Georges Frêche, che lo ha salutato nel 2007 come il primo Presidente “juif”, appunto, della Republique [3].
Quel che comunque è certo è che Sarkozy – presentato erroneamente come un nuovo De Gaulle, di cui è invece l’antitesi  -  se non è addirittura un espion du Mossad come ha scritto Le Figaro [4] è un sionista, un  politico “francese” che ha fatto la sua carriera tutta – dicesi tutta – con il sostegno plateale,  cadenzato da incontri, feste religiose, addobbi con menorah e simboli ebraici, della lobby non solo francese ma anche americana (Eric Blanrue, Sarkozy, les Juifs, Israel, Paris 2009)

Quarto fatto: Gheddafi ha dato mostra di antisraelismo e di antisionismo non solo tra il 1969 e il 1988 – l’anno di Lockerbie – ma dopo un ventennio di quasi silenzio, nel 2009. Prima, nel marzo di quell’anno, difendendo il presidente Al-Bashir da un mandato di cattura della CPI per presunti “crimini contro l’umanità” nell’azione di contrasto del Sudan versus i secessionisti del Darfur finanziati da Israele (ci fu all’epoca una levata di scudi di diversi Stati dell’Unione africana, organismo di cui Gheddafi era stato fondatore ed era leader, contro la mossa del PG dell’Aja Moreno Ocampo).  
Più tardi, dopo che il 20 agosto si era chiuso definitivamente il caso Lockerbie con il rientro da Londra di uno degli accusati dell’attentato (per inciso, quello filmato morto in ospedale dalla CNN nei giorni dell’occupazione di Tripoli) con un duro discorso contro Israele, da Gheddafi accusato di fomentare i conflitti africani, e contro la Corte Penale Internazionale, denunciata dal leader libico come una organizzazione terroristica segnata da evidente parzialità nella sua azione inquisitoria e giudiziaria. E’ forse un caso che Sarkozy l’israeliano e la CPI siano stati i protagonisti principali – fin dai primi giorni della guerra – del rovesciamento e del tentativo di cattura del leader libico?

Quinto fatto: la politica bancaria e finanziaria della ricchissima Libia di Gheddafi è stata spesso additata da esperti del settore come alternativa o concorrenziale a quella della cosiddetta “finanza laica” o mondialista largamente dominante a livello mondiale. Interventi mirati in settori dell’economia occidentale e africana che non possono non aver suscitato opposizioni e azioni di contrasto da parte della grande finanza mondialista. L’argomento è da approfondire, ma finora non risulta avere avuto smentite da parte dell’establishment “ufficiale”. Anche e soprattutto questo aspetto dà alla guerra di Libia – si ricordi il tentativo di furto di Cameron delle ricchezze libiche – un segno promondialista e prosionista.

Sesto fatto: il filoisraelismo del presidente francese sembra irrefrenabile e senza esclusioni di aree geografiche: la Francia è stata parte attiva nell’esercitazione NATO in Lettonia, ai confini della Russia, tanto che un suo aereo ha subito un incidente; e per bocca del suo presidente ha cominciato a minacciare, appena conseguita la “vittoria” della conquista di Tripoli, di bombardare l’Iran di Ahmadinejad, che emerge adesso per l’Occidente oltranzista come un “pericolo interno” al campo degli stessi ribelli, e che comunque - da quando si è dotato di una industria nucleare sia pure a scopi dichiaratamente civili - è sempre stato il nemico numero uno di Israele in Medio Oriente.
Si deve dedurre che Sarkozy continua ad agire come il sicario di Obama e dell’ “imperialismo americano”? Assurdo, si ricordi che non solo Obama, ma persino Bush si oppose al pressing israeliano per una guerra contro Teheran, guerra invece apertamente minacciata e agognata da Tel Aviv fin dal 2004-2005.  

Settimo fatto: al necessario distinguo tra le diverse anime del fronte aggressore, ha mostrato e mostra di credere lo stesso Gheddafi e non solo nei primi giorni di guerra (i due episodi ricordati della nave restituita all’Italia e del messaggio a un Obama inizialmente indeciso sulla sorte del leader libico) ma forse anche oggi, con le dichiarazioni di disponibilità al compromesso a fronte delle tre linee possibili nel fronte vincitore: o la soluzione Saddam, cioè la cattura e il processo interno con possibile sado-linciaggio finale; o il deferimento del leader libico alla Corte Penale internazionale, per inciso in mano – come tutta la giustizia internazionale – al fronte mondialista “progressista”, cosa di cui il centrodestra sembrerebbe ignaro [5]; ovvero il recupero marginalizzato in Libia di Gheddafi, o più probabilmente, se il leader libico accettasse, l’esilio in qualche paese africano. Sempre che, beninteso, Gheddafi non sia stato già catturato e sia pronto per essere ammazzato. [6]

Ottavo, possibile fatto: il suggello sionista sulla guerra contro la Libia e sulla caccia a Gheddafi, potrebbe essere confermato anche dalla simbologia di alcune date significative, secondo tradizione tipica del sionismo e della massoneria mondialista: la guerra è iniziata fattivamente il 19 marzo, il giorno stesso della riunione di Parigi, e su iniziativa solitaria di Sarkozy. Ma è intuibile che, se non ci fosse stato il già ricordato rischio di un altolà italo-tedesco in quel vertice, l’attacco sarebbe partito il 20 marzo, lo stesso giorno del via alla guerra contro Saddam. Quell’attacco angloamericano dietro il quale il Presidente iracheno aveva visto e denunciato “il sionismo maledetto”.
Ancora: l’occupazione di Tripoli da parte dei SAS britannici e dei loro “ribelli” è avvenuta il 20 agosto, secondo anniversario della chiusura del caso Lockerbie e del rientro da Londra a Tripoli, come già detto, dell’accusato poi trovato morto nella capitale libica ormai occupata. Infine, il secondo vertice di Parigi è stato imposto da Sarkozy in data 1 settembre, anniversario della “rivoluzione” gheddafista del 1969.

Sono questa lunga serie di fatti che la totalizzante categoria dell’imperialismo evita accuratamente di assumere: chi vi ricorre nasconde oggettivamente o volutamente il segno sionista e mondialista dell’aggressione a Gheddafi, giocando all’antiamericanismo facile ma depistante. L’operazione è semplice se uno dopo l’altro si celano – come fa l’informazione “borghese” che i marxisti doc stigmatizzano pretendendosi  in questo migliori: mentre non lo sono - i fatti di cui sopra uno ad uno: Gheddafi diventa così pro israeliano e magari ebreo; il Darfur è sostenuto dall’ “imperialismo” ovvero – versione troskista – va appoggiato perché espressione dell “masse”; Sarkozy e Cameron non sono sionisti; sarebbero gli USA e non Israele che è sempre e comunque una sua pedina, che vogliono bombardare l’Iran etc etc.
 Scomparsi i fatti – per dirla con un ottimo titolo di un libro di Travaglio che però potrebbe essere ben applicato a Travaglio stesso - tutte le teorie della gloriosa tradizione marxleninista risulteranno valide per l’eternità, senza distinzione di epoche storiche: ad esempio, il capitalismo e l’imperialismo di epoca vietnamita e quello attuale sarebbero identici. Ma non è così: quel che fa la differenza è il rapporto tra capitale finanziario e capitale produttivo, all’epoca ridotto – tanto che era il “complesso militare-industriale USA” al centro dell’attenzione degli analisti critici del conflitto vietnamita – ed oggi ormai attestato sulla proporzione 20 a 1. Da cui altri due errori: da una parte l’autoghettizzazione nelle formule estremiste che alienano le grandi opinioni pubbliche coinvolgibili in una lotta argomentata e solida per la pace per il rispetto del diritto internaziionale e contro la NATO, e dall’altra la comunque intrinseca vaghezza delle vetuste categorie utilizzate, fuorvianti e occultanti i fatti.

Resta ora da ragionare sulla lettura  “mondialista” emergente dalla destra radicale, sicuramente molto più rappresentativa della realtà, ma di nuovo – per quel che mi riguarda – degna di essere discussa e approfondita.

III°) IL "MONDIALISMO" E LE SUE ARTICOLAZIONI VISIBILI
Già all’inizio della crisi libica, nel commentare il mancato veto alla risoluzione 1973 del 17 marzo (quella che ha dato il via alla guerra con la cosiddetta no fly zone), Maurizio Barozzi di Rinascita aveva indicato nel “mondialismo” la causa del via libera alla guerra delle principali potenze mondiali, Russia e Cina compresa. Ora ribadisce l’analisi ma fornendo indicazioni più concrete attorno al “mondialismo” [7]. In effetti questo è il problema a proposito dell’uso di questa categoria: uscire – come nel caso prima citato dell’ “imperialismo” - dall’astrattezza e dal generico (questo sì) complottismo, indicando le articolazioni concrete e visibili del pushing alla guerra libica, anzi a tutte le principali guerre postbipolari [8].  Prendiamo il caso della Russia: prima il mancato veto, poi il dimissionamento dell’ambasciatore a Tripoli da parte del presidente Medevdev e le dichiarazioni di Putin critiche verso la NATO, richiamano una dialettica interna alla leadership moscovita che è simile – pur in condizioni storiche ben diverse  - a quella imperante negli Stati Uniti, o in Italia e in tutti i principali paesi europei. E’ il lobbysmo pro israeliano, evidentemente ben sopravvissuto in Russia alla sconfitta della famiglia finanziaria di Eltsin ad opera di Putin, e incarnato oggi dal presidente della Russia, il cui mandato peraltro finirà il prossimo anno.
D’altro canto il lobbysmo - che non è mai una semplice questione etnica, anche se ha un segno anche etnico - è un problema che va ben oltre le sedi politico-rappresentative delle democrazie occidentali: è una questione che investe i settori cruciali di ogni stato e società moderni, che siano la magistratura o il mondo accademico, l’industria culturale e cinematografica o le Nazioni Unite, o il fenomeno delle migrazioni di massa, o last but not least il sostanziale totalitarismo mediatico planetario su determinate e cruciali questioni politologiche e storiche “sensibili”. E’ rispetto a questi nodi che vanno colte le specificità che permettono da una parte sul piano teorico di uscire da una visione intimistica e esoterica del mondialismo (i misteriosi Club dei potenti, da cui il soggetto si libererebbe spiritualmente nella misura in cui diventa personalmente cosciente della loro esistenza e del loro operare), e dall’altra  di costruire vasti movimenti d’opinione per cambiare nel concreto lo stato di cose presente, nel senso di una vera democrazia interna e internazionale. Interna, perché il lobbysmo è in sé (di nuovo, non è in primis una questione etnica) una contraddizione rispetto al principio della rappresentatività popolare; internazionale, perché su questo terreno il mondialismo si caratterizza come disprezzo e volontà di sottomissione delle sovranità statuali (Stati-nazione o multietnici qui non conta), unico luogo concreto - nella situazione storica data -  di potenziale espressione (con tutti i distinguo necessari: dalle dittature o semidittature plebiscitarie, al pluripartitismo maggioritario, al proporzionale) delle sovranità popolari.
E qui veniamo – per concludere il più telegraficamente possibile - a due altri problemi: dire che la questione non è – nel caso della guerra di Libia - Gheddafi sì Gheddafi no, è in sé vero se ci si riferisce alle discussioni sul modello libico, al Libro verde, ai Comitati popolari, e così via. Ma il sì a Gheddafi non può non essere scontato dal punto di vista del rispetto della sovranità libica e del diritto internazionale, cioè del rispetto di quello che i giuristi internazionalisti hanno definito il “dominio riservato” degli Stati.
Dal 1945 al 1990 mai l’ONU si è permessa di intervenire in conflitti interni agli Stati – con le due uniche eccezioni dei “popoli coloniali” (appoggio pieno ai movimenti di liberazione: cfr. la Risoluzione 1514/60 dell’Assemblea Generale) e dei paesi razzisti africani – come dimostrano i casi eclatanti dei secessionismi katanghese (durante la guerra civile del nuovo Congo di Lumumba) e biafrano (dal 1967 al 1970 né l’Assemblea generale né il Consiglio di Sicurezza hanno varato alcuna risoluzione sulla Nigeria).
Tutto cambia con il crollo del bipolarismo, che obbiettivamente – e nonostante gli applausi della destra radicale e non, al crollo del Muro di Berlino - ha permesso tra le altre cose il tracimamento del potere delle lobbies pro israeliane e di Israele in tutto il mondo: Gorbaciov, che dichiarò una volta di avere agito ispirandosi “a Mosé” per attuare la sua peretroika e distruggere l’URSS, liberò tra le altre cose l’emigrazione russo-ebraica verso la Palestina. Dopo di lui, sotto Eltsin, i Berezovsky, Gusinzky, Khodorosky hanno potuto saccheggiare l’economia post-sovietica costruendosi, fino al salvifico intervento di Putin, imperi giganteschi e proteggendosi o cercando di proteggersi con il ricorso al doppio passaporto russo-israeliano. In Italia, Tangentopoli porta abbondanti segni dell’interferenza lobbistica nell’opera di distruzione dei partiti della prima repubblica – il ruolo micidiale svolto da Repubblica, l’episodio cruciale del Britannia, l’emarginazione-sconfitta dei due protagonisti di Sigonella, il passaggio dell’ENI in mani più fidate almeno fino all’affermazione elettorale di Forza Italia, le bombe sioniste del 1993, etc.
Ancora: nello stesso periodo, anche negli Stati Uniti il lobbysmo pro israeliano travolge ogni opposizione interna e, già forte ai tempi di Truman e di Kennedy, riduce sotto controllo la tendenza “isolazionista” del conservatorismo repubblicano, con un Bush junior eletto presidente solo grazie al verdetto della Corte Suprema sui precari conteggi elettorali, e solo dopo – premessa necessaria al sì della Corte Suprema? – che aveva già formato il suo governo, imbarcandovi a fianco del “moderato” Powell, i Cheney, Rumsfeld e la banda sionista dei neocons.
Si potrebbe continuare la carrellata con altri paesi europei, con l’Africa “invasa” da businessmen (e mercenari) israeliani, e soprattutto con i Tribunali ad hoc, braccio giudiziario di un sionismo che è riuscito anche in questo modo a colpire alcuni suoi nemici più o meno storici - Milosevic, Taylor – o a favorire suoi alleati: come il ruandese tutsi Kagame, in visita al Sacrario dell’Olocausto in Israele due anni dopo il cosiddetto “genocidio” del 1994, grande trafficante di diamanti dopo l’occupazione nel 1998 del Congo orientale, e autore lui semmai del genocidio degli hutu espulsi a milioni dal Ruanda “liberato”, nei campi profughi dello Zaire e della Tanzania, e qui inseguiti con un intento annientatore che scandalizzò persino Emma Bonino e Kofi Annan [9].
Ora, la crisi verticale del Diritto internazionale quale codificato nella Carta dell’ONU e applicato concretamente dal 1945 al 1990, ed esemplificata dai casi appena ricordati, è stato ed è un capitolo fondamentale dell'avanzata del mondialismo su scala planetaria: lo sfondamento delle sovranità statuali da parte di un’ONU “impazzita”, le interferenze nei conflitti interni agli Stati membri delle Nazioni Unite, l’estensione abnorme del “diritto di autodecisione dei popoli” per favorire la disgregazione e balcanizzazione degli Stati esistenti (ma solo quelli “scomodi” ai nuovi Poteri  forti postbipolari), il cosiddetto diritto di ingerenza umanitaria, la cosiddetta “responsability to protect” le popolazioni civili,  le deleghe prima a singoli Stati membri, poi addirittura alla NATO, dell’azione cosiddetta “preventiva”, l’invenzione delle no fly zones per impedire la legittima reazione dei governi centrali a ribellioni armate e spesso secessioniste, sono tutti sottocapitoli giuridici dello stravolgimento delle regole nei rapporti tra Stati quali istauratisi dopo la fine della II guerra mondiale, e della loro sostituzione con una “legge della giunga” che ha rappresentato e rappresenta il trionfo dell'egemonia delle minoranze mondialiste ai danni degli stessi Stati "sovrani" delle Nazioni Unite.
Insomma, la crisi del Diritto Internazionale – le cui categorie, ha scritto tra gli altri la giurista internazionalista Monique Chemillier Gendrau, sono state “fatte a pezzi” dopo il 1990 - non è che il versante squisitamente transnazionale della presa del sionismo dentro gli Stati “sovrani”. Nei singoli paesi fioriscono i lobbismi pro israeliani; a livello planetario, il mondialismo avanza distruggendo a colpi di accetta il vecchio diritto internazionale per costruire un “governo mondiale” di fatto, ammantato di bellissime parole – diritti umani e esportazione della democrazia – ma invero negazione assoluta di quale che sia regola democratica, perché espressione dei ristretti circoli mondialisti e delle loro proiezioni lobbistiche “nazionali”, senza alcun controllo pur minimo e mediato delle “sovranità popolari”.
E’ vero, la Carta di san Francisco nasce parallelamente all’obbrobrio giuridico del Tribunale di Norimberga, che pretese di dare forme giuridiche alla vittoria di fatto degli “Alleati” sulle potenze dell’ “Asse”: ma è un fatto che contraddizioni e dialettiche si ripresentano sempre, anche a regimi e equilibri internazionali mutati. In Italia ad esempio arriva Mattei e la linea euro mediterranea DC, segnata dal sangue dell’attentato di Bascapé e dell’assassinio di Moro …

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Cosa vuol dire tutto questo, applicato alla guerra di Libia? Vuol dire che è Gheddafi – indipendentemente da chi è Gheddafi e del modello politico-sociale-istituzionale che propone - il governo legittimo della Libia. La ribellione bengasina di febbraio era un affare interno a un paese sovrano riconosciuto dalle Nazioni Unite, peraltro guidato da un leader dell’Unione Africana, e solo per questo – e non anche perché istigata dai SAS britannici – era priva in punto di diritto di legittimità internazionale. Il mutamento fattuale odierno – con i ribelli che hanno conquistato Tripoli – non inficia la fondatezza e l’utilità di questa osservazione: sia perché è evidentissimo ormai che la Libia è un paese aggredito militarmente da un’organizzazione militare di parte, sia in considerazione del fatto che il problema si ripresenterà tale e quale un domani, in Siria o in Iran o altrove, ovunque sopravvivano Stati contrari all’avanzata del totalitarismo mondialista. In Palestina il problema già c’è, se non dal 1948 di certo – visibilmente – dalla vittoria elettorale di Hamas: è in nome di della “democrazia” che l’Occidente pretende di negare legittimità alla vittoria democratica di Hamas, tale perché sancita dal consenso popolare.

L’accenno alla ribellione bengasina conduce infine al secondo aspetto che chiude questa parte dedicata al “mondialismo”: il quale, secondo alcune letture, agirebbe solo nel senso della formazione di aggregazioni statuali più ampie e assolutamente dirigiste, vedi il caso dell’Unione Europea [10] . A mio avviso non è così [11]: il mondialismo, l’aggressione della grande finanza alle economie degli Stati sovrani, ha marciato e marcia anche in direzione opposta: dall’alto appunto, con il ricatto del debito e l’esautorazione dei Poteri legislativi nazionali da parte di diktat burocratici sovranazionali; dal basso con il fiorire dei microetnicismi e dei secessionismi che finiscono per generare statarelli apparentemente “indipendenti” e in realtà ampiamente manovrabili dai poteri mondialisti.
 
I casi sono molteplici, il disegno strategico – o quanto meno la coerenza dei casi specifici con la strategia e la visione sionista del mondo – è evidente: il federalismo etnico in Etiopia, quello economico nell’Iraq postbaathista, il secessionismo meridionale in Sudan, la frantumazione della Somalia, e prima ancora il dissolvimento dell’URSS e  la disgregazione della Jugoslavia in nome di un principio di autodecisione che per la prima volta dal 1945 veniva applicato all’interno degli Stati sortiti dalla fine della II guerra mondiale e dalla Decolonizzazione: tutti questi esempi e questo processo di parcellizzazione di entità statuali estese a vantaggio di una miriade di stati e staterelli di minor peso ed estensione geografica, sono funzionali anch’essi – come le grandi aggregazioni dirigiste tipo UE – al sionismo e al mondialismo. Non è un caso che quanto accaduto in Iraq, quanto agognato da Israele in Libano e in Siria, quanto sta accadendo in Libia, era stato prefigurato nel 1982 dalla rivista Kivunim dell’Organizzazione sionista mondiale  per la penna di un funzionario israeliano, Oded Ynon [12]. La balcanizzazione è uno strumento essenziale per poter indebolire gli Stati estesi e dunque potenzialmente più forti, rafforzando Israele e la grande finanza sul piano internazionale, e liberando le piccole comunità ebraiche dentro le nuove ridotte entità statali.
A tale tendenza può essere ascritta in modo analogo anche l’immigrazione senza regole, soprattutto verso paesi difficilmente attaccabili sul piano del secessionismo: “minoranzizzare” gli Stati.nazione è utile al sionismo e alle sue lobby per rendere ancora più forte la minoranza ebraico-sionista, storicamente e economicamente più salda in quanto tale delle altre minoranze tradizionali, e grazie ai flussi migratori di massa, capace di maggiore controllo sulla stessa indebolita maggioranza autoctona. Da questo punto di vista il differenzialismo,  che potrebbe apparire un’arma ideologica sia di estrema sinistra – il rispetto delle minoranze e delle diversità – sia di estrema destra – l’ “orgoglio” delle proprie radici, è in realtà soprattutto uno strumento di chi vuole – per ricorrere al classico detto – dividere per comandare. La questione nazionale da questo punto di vista dovrebbe essere posta in modo equilibrato tra legittima difesa delle proprie tradizioni e pretesa, a partire da un troppo forte identitarismo, di soffocare le altrui identità, soprattutto nel caso di Stati multietnici.
 
Ecco dunque che torna il problema degli Stati e del Diritto Internazionale: l’applicazione estesa del principio di autodecisione ad ogni comunità o regione degli Stati costituitisi dopo la II guerra mondiale e dopo la decolonizzazione; la critica ovvia e legittima alla artificiosità dei confini coloniali, non devono portare a una delegittimazione generalizzata delle sovranità statuali.
Se sia e se sarà possibile o no, è chiaro che la difesa del Dominio Riservato degli Stati è un principio da difendere, perché il suo sfondamento rappresenta sempre l’implementazione pratica dei principi cosiddetti umanitari da parte dell’oltranzismo occidentale, del sionismo e del mondialismo: sempre, si badi bene, sorretti e accompagnati dalla disinformazione massmediatica, in modo simile a quel che accadde nello scenario Italia con Tangentopoli.
Occorrono invece accertamento vero dei fatti, e regole, e queste regole vanno ri-stabilite tra gli Stati, che sono i protagonisti e i soggetti cui fa riferimento la Carta dell’ONU. Non esiste una ONU dei Popoli – come teorizzavano nella sinistra postmarxista la Fondazione Basso e il movimento per la pace iridata negli anni Ottanta – e come pensano gli ultras del diffenzialismo oggi. Non ci si può commuovere fino al suicidio per la ribellione di quale che sia movimento etnico in quale che sia Stato del Pianeta che chiede una ridicola “indipendenza”. I soggetti del Diritto internazionale sono gli Stati, e certo anche le minoranze al loro interno – come già prevedeva nel 1976 la Cara di Algeri proprio di Lelio Basso -  ma dentro la cornice del rispetto della loro integrità territoriale e di un sano rapporto tra i i diritti delle minoranze, e i diritti delle maggioranze, spesso mal considerati e obnubilati dalla retorica differenzialista fondata sull’esaltazione acritica del “diverso”.
 
Un ultimo capitolo da considerare è poi quello della Giustizia internazionale: come spesso quelle nazionali, e come è stato detto tante volte per quella italiana essa si è mossa e si muove con tempi ad orologeria e con criteri di parzialità sconvolgente. Le speranze riposte dai giuristi internazionalisti sulla Corte penale internazionale, apparentemente destinata – in quanto Tribunale permanente – a eliminare i tantissimi e terribili difetti di legittimità dei Tribunali ad hoc degli anni Novanta, sono in realtà risultate vane: la Procura del Tribunale penale dell’Aja, con alle spalle un curriculum squilibrato di interventi in Africa – “attenzione” meticolosa fino all’incriminazione di Al Bashir, per la guerra del Darfur appoggiata da Israele; e omissione di indagini serie nei confronti del Ruanda per i crimini commessi dalle truppe d’occupazione di Kigali nel Congo orientale, ultimo rifugio di centinaia di migliaia di profughi hutu – non ha compiuto alcuna autonoma inchiesta in territorio libico dopo lo scoppio della rivolta bengasina, né ha solo ipotizzato alcuna incriminazione della NATO per applicazione ultronea di una no fly zone già di per se illegittima.
Gli illustri magistrati, pagati decine di migliaia di euro al mese, hanno semplicemente letto e creduto (o fatto finta di credere) a quel che dicevano i grandi mass media internazionali, quasi tutti di proprietà di magnati della finanza mondialista e sionista. Un esempio vergognoso di come funziona la “giustizia internazionale”, animata dallo stesso “cortocircuito mediatico-giudiziario” di cui si è parlato e si parla in Italia a proposito di Tangentopoli e effetti derivati: con una differenza però, che mentre sul terreno italiano il garantismo – un tempo bandiera della sinistra estrema - è stato con ragione e determinazione inalberato dal centrodestra dagli anni Novanta ad oggi, nel caso della giustizia internazionale nessuno ha provato e prova a controbattere al terrorismo giudiziario della CPI. Anzi, nel centrodestra italiano è stato possibile cogliere accenti di esaltazione pura della “legge della giungla” imposta dall’attacco della NATO, come già ricordato all'inizio di questo articolo.

Anche qui, sul terreno della Giustizia internazionale, torna il problema del lobbysmo e del gioco sottile delle infiltrazioni di persone giuste nei posti giusti. E’ un lavorio di lobby transnazionale quello che è reso possibile dallo Statuto della Corte Penale internazionale: sia perché i magistrati della CPI non vengono eletti direttamente dall’Assemblea Generale come nel caso della Corte di Giustizia dell’Aja del 1945-46, ma solo indirettamente dopo un passaggio obbligato in Consiglio di sicurezza che riduce i circa 400 nomi proposti dai diversi Stati membri, ad una ventina o poco più; sia perché inoltre, i criteri di scelta attengono solo di appartenenza statale, cosicché potrebbe darsi che - in modo formalmente ineccepibile – vengano nominati magistrati tutti di nazionalità diversa, ma tutti o cristiani, o islamici, o ebrei . Indovinate un po' ... La situazione è veramente difficile, e il terreno di un ridisegnamento-ripristino delle regole del diritto internazionale è sicuramente uno dei momenti centrali della battaglia contro il mondialismo e i suoi effetti: perché esso terreno coincide con la difesa delle sovranità statuali così come oggi sono, unico “contropotere” utile – a contrario delle minoranze secessioniste – per contrastare l’avanzata “mondialista”.
 
Note
 [1] A meno di pensare che la briglia sciolta al ministro degli esteri sia voluta dallo stesso premier, nell’ambito del tatticismo di cui sopra.

[2] Anche se poi, assunto il fatto del supporto logistico USA ai bombardamenti NATO, verificatane la fonte con certezza, rimane sempre l’incognita di “quali” Stati Uniti abbiano deciso di restare comunque nelle retrovie attive dei bombardamenti aerei. La dialettica Clinto-Obama risale addirittura alla campagna elettorale, quando la moglie dell’ex Presidente Clinton fece un’allusione curiosa, riferendosi al su concorrente nelle primarie, all’assassinio di Kennedy.

[3]  «  je suis ravi que les Français aient élu un juif président de la République au suffrage universel direct. […] On avait déjà eu Léon Blum et Mendès France premiers ministres, mais on n’avait jamais eu un juif élu au suffrage universel.  Et en plus, avec Kouchner comme ministre des Affaires étrangères, qu’est-ce qu’on veut de plus ?"« Et je vais dire à mon ami Kouchner : et quand c’est que tu reconnais Jérusalem, capitale d'Israël ? » Discorso tenuto a Montpellier il 24 giugno 2007, in occasione  della « Journée de Jérusalem », nel quadro del genellaggio tra la sua città e Tiberiade.
 [4] Press TV, citée par Salem-News.com, 17 mars 2011 Sarkozy Was a Mossad Agent? Le Figaro prétend que les fonctionnaires français de police ont réussi à garder secrète une lettre qui exposait les activités d’espionnage pour le Mossad de Sarkozy

[5] Eppure fu la Louise Arbour, già attivissima nel perseguire il presidente jugoslavo Milosevic, a rivolgere al governo italiano ridicole e offensive accuse di violazione dei “diritti umani”,  per la stralegittima e sacrosanta azione di contrasto dell’ immigrazione clandestina da parte di Roma, nelle prime settimane successive al Trattato italo-libico.

[6] Questa ipotesi pessimista sembra smentita dalle reiterate sortite radiofoniche e televisive del leader libico, dopo il suo allontamento da Tripoli.

[7] “Il discorso quindi che dobbiamo fare è di carattere politico, anzi geopolitico, ma con gravi implicazioni per il futuro di tutto il genere umano, per cui necessita una corretta analisi di quanto sta accadendo nel mondo in modo da instillare una netta presa di coscienza su chi sia il vero nemico dell’uomo:  l’Occidente rappresentato soprattutto dalla potenza militare e stile di vita statunitense ed espressione di una triade maligna, una e trina alla stesso tempo: la massoneria mondialista, l’Alta finanza usurocratica e i progetti di dominio mondiale di Israele” (Maurizio Barozzi, “La fuorviante inutilità dei pro o contro Gheddafi”, Rinascita, 7 settembre 2011)

[8] Già nella prima guerra contro l’Iraq, in una intervista  a radio città aperta, l’inviato de l’Unità Siegmund Ginzberg ebbe a ricordare il ruolo determinante della obby pro israeliana nel Congresso, per il sì definitivo a una guerra che Bush padre e il suo segretario di stato james Baker avevano cercato di evitare, chiedendo al premier israeliano Shamir di accettare un conferenza generale sul Medio Oriente che includesse, a fianco della questione Kuwait, anche quella

[9] Citati in Claudio Moffa, Guerre vere e paci finte: un modello neocoloniale per i Grandi Laghi?, in Limes 3, 2003, pp. 259-272. Ma vedi anche: Claudio Moffa, "Lotta politica, guerra ineretnica e ricerca storiografica nella regione dei Grandi Laghi", in Africa, 4, 1997, pp. 614-624; Claudio Moffa, "Il Ruanda e la responsabilità degli eccidi", in Giano, 29-30, 1998, pp. 163-176.

[10] Così Maurizio Lattanzio, Il mundialismo: http://radioislam.org/islam/italiano/potere/mond.htm

[11] Rimando a alcuni miei scritti sulla “questione nazionale”: Claudio Moffa, Dalla 'razza' alla differenza, così la sinistra scopre le virtù della guerra coloniale, in Andrea Catone, Claudio Moffa, Domenico Losurdo, P.F. Taboni, Dal Medio Oriente ai Balcani. L'alba di sangue del "secolo americano", La Città del Sole, Napoli, pp. 83-120. 1998; Claudio Moffa (a cura di), Quaderni Internazionali, 3, La questione nazionale dopo la decolonizzazione. Per una rilettura del 'principio di autodecisione dei popoli', Quaderni Internazionali, 2-3, 1988, pp. 1-4 e 190-204: Claudio Moffa, "L'ethnicité en Afrique: l'implosion de la 'question nationale" après la decolonisation", in Politique Africaine, 66, 1997, pp. 101-114. - Claudio Moffa, "L'implosione del 'principio

[12] Il saggio di Oded Ynon è citato tra l’altro in Claudio Moffa (a cura di), Quaderni Internazionali, 3, La questione nazionale dopo la decolonizzazione. Per una rilettura del 'principio di autodecisione dei popoli', Quaderni Internazionali, 2-3, 1988. [6] In realtà l’articolo non conteneva riferimenti alla Libia, ma lo schema era lo stesso: dividere gli stati esistenti secondo linee etniche, regionali, religiose.

[13] Cfr. Claudio Moffa, La giustizia internazionale post-bipolare: uno strumento nelle mani di Israele e dei suoi alleati: http://www.claudiomoffa.it/pdf/2009/Gheddafiharagione.pdf