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Morire alla ricerca del piacere estremo, esito (in)evitabile della riduzione a oggetto

di Francesco Lamendola - 15/09/2011





In quest’ultimo scampolo di estate, complici le temperature quasi africane in pieno mese di settembre, i mass media hanno trovato un ricco filone da sfruttare, per la gioia dei picchi di audience televisiva e delle alte tirature dei giornali: il gioco erotico finito tragicamente in un garage di Roma.
Erano in tre, quella notte, ad avere imbastito un fuori programma in salsa estremamente piccante: un ingegnere quarantaduenne e due ragazze ventitreenni; lui le ha legate l’un l’altra ed entrambe a una tubatura che le teneva sollevate da terra, poi si è limitato ad assistere; loro, dandosi delle spinte coi piedi per poter respirare, a turno, erano le protagoniste volontarie di una pericolosa altalena umana ad alto gradiente erotico.
A un certo punto, una delle due si è sentita male ed è svenuta, afflosciandosi a terra; l’altra è stata sollevata dal contrappeso ed è morta soffocata, prima che l’uomo riuscisse a intervenire, tagliando le funi con un coltello; la prima è rimasta per qualche tempo senza ricevere ossigeno al cervello e adesso lotta per la vita in un ospedale, con il rischio concreto di non farcela oppure di risvegliarsi a un’esistenza segnata da un danno cerebrale irreversibile.
Al di là delle ipotesi processuali che già si profilano circa il rispettivo grado di responsabilità di quelle tre persone e al di là, anche, sia del facile moralismo, sia della morbosità ipocritamente travestita da umana compassione, crediamo sia cosa non inutile svolgere una breve e pacata riflessione su una tendenza che ha visto emergere, in questo fatto di cronaca nera, una delle sue punte estreme, ma non così rara come si potrebbe immaginare.
Le statistiche ci dicono che un migliaio di persone perdono la vita ogni anno, nel mondo, nel corso di pratiche analoghe; si cita il caso di personaggi famosi, come l’attore David Carrradine, decedute nel corso di giochi di autoerotismo; e la lingua italiana si appresta ad accogliere una nuova bordata di neologismi stranieri dei quali nessuno, fino a ieri, sapeva nulla, ma che ora diventano d’uso obbligatorio: bondage, shibari, breath play.
Ma che cosa sospinge un numero crescente di persone a cercare il piacere sessuale estremo, anche a rischio della vita, magari organizzandosi in apposite confraternite di sedicenti esperti e cercando nel gruppo quella legittimazione morale e quella pretesa dignità sociale che, altrimenti, sentirebbero impossibile rivendicare con fierezza?
Intanto, bisogna osservare che le protagoniste principali di siffatte pratiche, non solo nel caso romano, sono delle donne, generalmente giovani; gli uomini suggeriscono, incoraggiano, offrono assistenza in senso tecnico, dopo di che si mettono a fare gli spettatori, in genere completamente vestiti; le donne, spogliate, legate, imbavagliate, immobilizzate, si contorcono nelle spire delle funi, annaspano, sudano, soffrono, si contorcono, si immedesimano completamente nel ruolo delle vittime torturate, pur essendo pienamente consenzienti.
È un gioco sadomasochista, nel quale l’uomo svolge una parte quasi soltanto simbolica: rappresenta il male, la violenza, ma anche e soprattutto colui che, assistendo, si eccita enormemente; le donne, in apparenza inermi e torturate, in effetti svolgono la parte principale, conducono le redini del gioco, perché da loro dipende l’eccitazione del maschio, ma anche quella di se stesse: è il piacere voyeuristico di essere guardate, di strappare all’altro brividi di piacere, mentre si mescola il proprio piacere con la propria sofferenza:.
È una forma altissima di gratificazione narcisistica, che sconfina nel delirio di onnipotenza: perché riuscire ad essere, contemporaneamente, soggetto e oggetto di piacere, senza lasciarsi toccare nemmeno con un dito e, addirittura, quasi senza potersi muovere, tanto meno senza potersi toccare o accarezzare, offre, probabilmente, la sensazione unica e irripetibile di possedere un potere immenso, smisurato, lì al confine estremo fra Eros e Thanatos, fra Sesso e Morte.
Tutto questo è perfettamente in linea con la riduzione della donna a cosa e, più in generale, del soggetto umano a mero oggetto, in questo caso a oggetto di piacere: un processo che parte da lontano, almeno dalla metà del secolo scorso e che il cinema, la pubblicità televisiva, la letteratura erotica (come non ricordare le varie «Emmanuelle» e le varie «Histoire d’O»?) hanno costantemente e testardamente coltivato, alimentato, magnificato, esaltato, perfino idealizzato, a dispetto della sua essenza sordida e triviale.
Ma non c’è soltanto questo, in vicende come quella del garage di Roma; c’è anche dell’altro, qualche cosa che ha a che fare con la cultura pseudo libertaria ed esasperatamente edonistica propria della tarda modernità; e, più ancora, con il Verbo della dottrina femminista e neofemminista, sostenuto anche da importanti settori dell’editoria e della stampa d’indirizzo laicista e radicale.
Una cosa, infatti, balza all’occhio, nella cultura sessuale degli ultimi anni; e la si nota specialmente sfogliando i giornali femminili e leggendo le rubriche fisse che psicologi di grido vi tengono regolarmente, pontificando dall’alto della loro scienza inarrivabile, che dispensa felicità a tutti, purché si aderisca incondizionatamente ad ogni suo dogma: l’accentuazione sistematica, ossessiva, maniacale, della questione dell’orgasmo, soprattutto femminile.
Tutto ruota intorno all’orgasmo: come l’Alfa e l’Omega delle nuove Tavole della Legge, si direbbe che con esso tutto incominci e tutto finisca.
Secondo questa dottrina l’intera umanità, e specialmente il genere femminile, si distingue in due categorie nettamente separate e inconciliabili: quelli che raggiungono l’orgasmo e quelli che non lo raggiungono; i primi sono i beati, i secondi sono i dannati; i primi sono beati per loro merito e virtù, i secondi sono dannati per loro colpa e scorno.
Raggiungere l’orgasmo, per una donna, è pressappoco dare un senso alla propria vita; non raggiungerlo, equivale a scivolare nel Limbo dei semi-vivi o piuttosto dei semi-morti, il Limbo delle donne fallite, buone a nulla, inutili a se stesse e al mondo intero.
Tutta la sessualità, tutta l’affettività, tutto l’orizzonte esistenziale, si riducono a questo: raggiungere l’orgasmo; anzi, gli orgasmi: due, tre, quattro o cinque per volta; bisogna contarli puntigliosamente e registrarli sulla tabella quotidiana: oggi tre, domani quattro, e così via; solo così si potrà misurare il progresso e quantificare lo star bene con se stesse.
Si noti che identificare la persona con il corpo, il piacere con gli organi genitale, la felicità con l’orgasmo, significa, tra le altre cose, deprezzare l’elemento della relazionalità: non è importante come o con chi si raggiunge l’orgasmo; l’importante è raggiungerlo ed averlo multiplo. Tutto va bene pur di raggiungere l’obiettivo: il partner, in questa prospettiva, è un elemento accessorio e puramente meccanico: è null’altro che un pene capace di eseguire la penetrazione e di mantenere l’erezione per un tempo sufficientemente lungo da offrire alla donna la possibilità di numerosi orgasmi consecutivi.
La donna, dunque, viene ridotto a una vagina, a un clitoride eternamente bramoso di soddisfazione; l’uomo, ad un pene eternamente pronto alla bisogna: la riduzione delle persone a cose è reciproca e bipartisan, della donna verso l’uomo e dell’uomo verso la donna; e tutti possono vivere felici e contenti.
Al limite, non c’è nemmeno bisogno del pene o di alcuna forma di contatto fisico da parte dell’uomo; anche il semplice sguardo può bastare, purché la stimolazione erotica sia facilitata, si fa per dire, da un apparato eccitante di tipo sadomasochista, fatto di cinghie, corde, manette, bende, bavagli e altre pastoie, più o meno assimilabili a qualche lontana forma d’arte giapponese: così, tanto per dare una patina di rispettabilità culturale a una serie di pratiche che, a ben guardare, sono semplicemente degradanti, tanto per chi le pratica quanto per chi si limita ad assistervi o a prestarvi un’opera sussidiaria.
Perché l’ipocrisia, ormai, è giunta a un punto tale che non si ha il coraggio di praticare il sesso sadomasochista chiamandolo per quel che è; no, bisogna abbellirlo e renderlo socialmente presentabile, “sdoganarlo” per così dire, liberandolo dalle odiose censure e repressioni della cultura cattolica.
Una volta che si sia riusciti a fare questo, magari con l’aiuto di nomi esotici come “bondage” e “shibari”, il più è fatto: un altro passo verso l’anticonformismo di massa è stato compiuto, l’importante è sentirsi parte di un gruppo socialmente rilevante e, in nome del relativismo etico, far passare l’idea che tutto sia uguale a tutto, che quindi non si possa né si debba condannare nulla e che qualunque cosa sia buona, purché venga praticata da gruppi socialmente riconosciuti e, magari, legalmente autorizzati.
Un po’ come il matrimonio gay: non importa che sia una assurdità in termini; importa che sia riconosciuto per legge e, poco a poco, introiettato dalle coscienze, in nome della libertà e del pluralismo (quanti fraintendimenti dietro questi concetti, sbandierati a ogni pie’ sospinto, ma con intenti strumentali); dopo di che il gioco è fatto, e chi la pensa diversamente è un  retrogrado, un reazionario, un sessista e, naturalmente, un fascista.
Si osservi con quanto sussiego, con quanta seriosità, in occasione di questo fattaccio di cronaca nera, dei sedicenti esperti di arti sessuali estreme si offrono ai microfoni e alle telecamere; con quanta finta nonchalance e con quale linguaggio forbito riescono a presentarsi come dei cittadini assolutamente normali, che coltivano i normali spazi di libertà riconosciuti dalla legge e che, semmai, si sentono depositari di una marcia in più, non certo di qualcosa in meno, rispetto alle persone comuni, le quali non hanno mai osato praticare le meraviglie del “breath play”, bella parolona inglese che significa, prosaicamente, “strangolamento”.
Il piacere di strangolarsi da se stessi per potenziare al massimo l’orgasmo; il piacere di farlo davanti allo sguardo altrui, in modo da eccitare l’altro e, a propria volta, da eccitare ancora più se stessi, sapendo di rappresentare una potentissima fonte di piacere visivo: ah, che meraviglia essere moderni e progrediti in queste cose, privi di pregiudizi moralistici, coraggiosamente aperti a qualunque esperienza che sia nuova, strana, eccessiva, in nome del sacro diritto all’orgasmo garantito!
Manca poco che qualche solerte parlamentare proponga di far approvare dalle Camere una legge sul diritto all’orgasmo e che qualche sindacato si accinga a proclamare lo sciopero, qualora anche un solo cittadino si vedesse negato o contrastato un tale diritto, per incuria o malafede altrui, venendo così defraudato di un elemento fondamentale della vita civile.
Non ci sono limiti al grottesco, una volta che si sia rotta la diga della distinzione fra il Bene e il Male, fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, in nome di un laicismo e di un libertarismo deliranti, ubriachi di se stessi e ben decisi ad imporsi come la nuova fede progressista e illuminata del terzo millennio.
Quanti genitori, quante maestre, quanti educatori, parlano ancora ai bambini del Bene e del Male e insegnano che vi sono delle cose lecite e delle cose illecite, delle cose di cui si può andare fieri e delle altre di cui ci si dovrebbe piuttosto vergognare?
Ben pochi, da quando è stata contrabbandata come fosse merce buona l’idea, imbecille e devastante, che tutto è ugualmente buono e che tutto è ugualmente lecito, purché ciascuno sia se stesso e non violi una legge esplicita del codice penale.
Bisogna vedere, infatti, che cosa quei signori intendano con l’espressione «essere se stessi»: perché non ci vuol molto a rendersi conto che, per loro, si tratta semplicemente di indulgere a tutti i propri comodi, a tutti i capricci, a tutte le scorciatoie e a tutti i bisogni artificiali che il modello consumista ha diffuso nella società, spacciandoli per esigenze autentiche dell’individuo.
Non è certo questo il vero essere se stessi; anzi, è esattamente l’opposto: è il saper riconoscere, in mezzo alle voci inutili e al ciarpame indotto dall’esterno, la propria parte più autentica, quella che siamo chiamati a far emergere, a coltivare, a valorizzare, a far crescere secondo verità e giustizia.