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Quando Rino Alessi, in pieno 1938, difendeva coraggiosamente gli ebrei triestini

di Francesco Lamendola - 15/09/2011





Quando, nel 1938, Mussolini decise di uniformarsi alla politica antisemita della Germania hitleriana, la stampa italiana si allineò interamente e passivamente su tale linea, oppure vi furono delle significative eccezioni?
La storiografia di parte resistenziale e democratica ha sempre mostrato la tendenza a rispondere negativamente a una simile domanda, ma più per un pregiudizio ideologico e per una facile sentenza all’ingrosso nei confronti di chi era ormai politicamente “bruciato”, essendosi venuto a trovare, dopo il 1945, dalla parte “sbagliata” della barricata.
In realtà, delle eccezioni vi furono; e la più notevole fu proprio quella del direttore del quotidiano della città in cui più massiccia era la presenza ebraica: quel Rino Alessi (Cervia, 1885 - ivi, 1970) che, dalla redazione de “Il Piccolo” di Trieste, ereditata da Teodoro Mayer, non solo non si uniformò alla linea ormai ufficiale della gerarchia fascista, ma vi si oppose apertamente, tanto da richiamare contro di sé gli strali furiosi di Roberto Farinacci, il potente “ras” di Cremona e direttore del giornale «Il regime fascista», che, pur essendo diffuso solo nell’ambito dell’Italia settentrionale, arrivò, a un certo momento, ad avere una tiratura superiore a quella dello stesso «Popolo d’Italia», il giornale ufficiale del regime, fondato da Benito Mussolini.
C’è voluta la “svolta” revisionista di Renzo De Felice per ristabilire la verità e per far conoscere al grosso pubblico questo episodio poco noto del 1938, che mostra come vi fossero ancora, nella stampa italiana dell’epoca, voci libere e capaci di dissenso su questioni decisive della politica interna (e, di riflesso, estera) del fascismo; e, più in generale, come nell’Italia del Ventennio non vigesse quella cappa di piombo che caratterizzò, invece, la Germania nazista e, ancor più, l’Unione Sovietica staliniana, ma vi fosse ancora spazio per un certo dibattito e una certa critica interni al regime, e sia pure con tutte le difficoltà e le limitazioni che si possono immaginare, tanto da richiedere una certa dose di coraggio civile in coloro che li esercitavano.
Il nome di Rino Alessi, però, giornalista e drammaturgo di valore molto noto in Italia e anche all’esterno negli anni Venti e Trenta del Novecento, era finito nella lista nera della “nuova” Italia democratica e antifascista, non tanto per le sue presunte “colpe” durante la dittatura e nemmeno per l’amicizia personale con Mussolini, quanto perché, dopo il 25 luglio del 1943 e, ancor più, dopo il 25 aprile del 1945, non unì la sua voce al coro delle esecrazioni contro il caduto dittatore, per la memoria del quale conservò sempre un atteggiamento di umano rispetto. E tanto è bastato per far dimenticare la sua coraggiosa campagna contro le leggi razziali del 1938 e in difesa degli Ebrei di Trieste, nonché - in prospettiva - dell’Italia intera.
È una pagina del nostro giornalismo, invece, che merita di essere ricordata.
Scrive Viola Talentoni nella sua apprezzabile biografia «Vita di Rino Alessi» (Ravenna, Edizioni del Girasole, 1998, pp. 183-86):

«… Il lungo articolo non passò inosservato sotto gli occhi famelici degli squadristi triestini, che già da tempo cercavano di allontanare gli ebrei dalle posizioni di prestigio e di comando della città. Ne approfittarono subito per inviare a Roma una pesante denuncia sulla situazione degli ebrei a Trieste, nella quale insistevano che bisognava eliminare “ibrida zona del’ebraismo massonico in camicia nera” e prima di tutto il suo simbolo, il giornale dell’ebreo Teodoro Mayer. Contemporaneamente, nelle zone periferiche della città, comparvero alcune scritte sui muri che denunciavano “Alessi veduto agli ebrei” e “Alessi servo degli ebrei”.
In Italia c’erano state delle avvisaglie antiebraiche fin dal 1934, ma nessuno vi aveva dato eccessiva importanza. Quando nel 1936 Ciano era stato in Germania,  si era provveduto accuratamente che nel suo seguito non ci fossero funzionari o giornalisti ebrei per non dispiacere a Hitler. In seguito Mussolini stesso aveva fatto licenziare redattori e collaboratori ebrei del “Popolo d0Italia” e subito dopo il quotidiano aveva cominciato a pubblicare articoli a sfondo razzista,.
Quando Farinacci fu delegato al congresso del Partito nazista a Norimberga, i cinquanta funzionari del suo seguito erano tutti fedelmente anti-ebraici. E infine, nel gennaio del 1938 tutta la stampa italiana, ben imbottita di precise istruzioni, si scatenò nella campagna razziale, una violenta mobilitazione giornalistica antisemita che lasciò stupefatti perfino molti ferventi fascisti.
Rino Alessi non perse tempo e pubblicò un articolo di coraggioso dissenso: si augurava cioè che l’Italia potesse impedire l’afflusso indiscriminato di centinaia di migliaia di ebrei espulsi dai confini di altri Stati ma, “poiché l’antisemitismo è una paga che l’Italia ignora”, era necessario rispettare “quegli italiani di origine israelitica che hanno fatto il loro dovere nazionale durante il Risorgimento, nell’Irredentismo e continuano a farlo in guerra e in pace, nella Rivoluzione fascista, nella conquista dell’Impero e in terra di Spagna: italiani di sicura fede e di una sola Patria, pronti al rischio delle cose come delle persone per il bene italiano.
Farinacci, che era direttore del “Regime fascista” di Cremona, si scatenò in un articolo di fuoco intitolato “Controffensiva”, diretto al “Piccolo” e contro Rino Alessi protettore di tutti gli ebrei triestini; e dopo qualche giorno scrisse un articolo ancora più velenoso contro la situazione triestina che giudicava completamente “soggetta aglio ebrei”, elencando tutte le cariche e gli impieghi pubblici e privati di Trieste occupati da semiti.  Alessi, che aveva lasciato cadere la prima sfida per non mettere in pericolo l’esistenza stessa del suo giornale, non poteva continuare a tacere e ribatté con un lungo articolo, intitolato “Situazioni che non pesano”,  nel quale, dopo aver difeso l’italianità del “Piccolo”, ricordava gli ebrei martiri della grande guerra e tutti quelli che avevano preso parte alla storia irredentistica di Trieste. Infine concludeva;
“Il “Regime fascista” deve ammettere - per quel tanto di ossequio che la storia della “fedele di Roma” merita - che se a Trieste ci sono ebrei che assomigliano al suo modo di giudicarli - e per questi non saremo noi a invocare mitigazioni di legge e di giudizio - ci sono anche quegl’Italiani di origine israelitica che non meritano di essere sottoposti alla umiliazione di certe statistiche generiche dopo essere sati ammessi - quando il Fascismo era ghià arbitro dei destini d’Italia - sulle pareti del più nobile sacrario del patriottismo italiano: la cella di Guglielmo Oberdan.
Farinacci rispose sul suo giornale confutando gli argomenti di Alessi con ò’affermazione che si trattava di cose del passato e che quindi non era più il caso di parlarne.  Altri giornali fascisti si associarono a quello di Farinacci contro il “Piccolo”, e una nuova replica di Alessi provocò ancora alcune polemiche. Il 19 aprile Alessi scrisse a Dino Alfieri, ministro della Cultura Popolare: “La tesi del “Regime fascista” è esattamente quella del  Console generale del Reich qui residente []. Lo stato d’animo della città, nonché rialzarsi, si turba e disorienta”. Sulla lettera resterà l’annotazione di Alfieri: “Dire a Farinacci che non si occupi più di Trieste”.
La polemica venne dunque a cessare, ma ormai la campagna e razziale  aveva ottenuto l’effetto desiderato e, verso la metà del 1938, tutto l’apparato culturale e giornalistico del regime partecipava attivamente alla DIFESA DELLA RAZZA sotto la guida del Minculpop.
Ne “La casa tra i pini” Mario Missiroli ricorda questi interventi di Rino Alessi come “una delle pagine più belle e più onorevoli del giornalismo italiano”, concludendo:
“Non ditemi che l’Alessi poteva fare quel che fece perché aveva alle spalle la protezione di Mussolini, di cui era stato c condiscepolo nel collegio di Forlimpopoli. No, no, perché Mussolini non difendeva nessuno, nemmeno per la causa che riteneva più giusta, quando trovava chi gli sapeva resistere, specie, poi, se si trattava di un gerarca importante come il Farinacci”.»

Anche se la polemica fra «Il Regime fascista» di Cremona e «Il Piccolo» di Trieste si concluse con la sostanziale sconfitta di quest’ultimo e con il suo passaggio di proprietà dal vecchio Teodoro Mayer allo stesso Alessi, che rimase inoltre alla sua direzione, non si possono giudicare i fatti della storia unicamente in base ai risultati pratici: fare questo significherebbe adottare la filosofia del vincitore, sempre e comunque.
È giusto e doveroso, invece, ricordare anche quanti hanno condotto una battaglia ideale, in buona fede e con purezza d’intenti, anche se non sono riusciti  vincitori sul piano degli effetti immediati; non di rado la loro opera agisce nascostamente, ma in profondità, e segna le coscienze nei momenti di sbandamento morale, creando le premesse per una futura ripresa.
Renzo De Felice, in verità, rende solo parzialmente onore al coraggio civile e all’indipendenza di giudizio di Rino Alessi, perché, se ricorda minutamente la sua polemica con Farinacci in alcune dense pagine della sua «Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo», non spende una sola parola per elogiarne l’intrepidezza ma, in compenso, si compiace di concludere che, alla fine, anch’egli si rimise rapidamente in carreggiata, sulle orme di «Critica fascista» di Bottai.
Come se non bastasse, De Felice si compiace di osservare che «Il Piccolo» era stato domato e che, con Bottai (definito “colto” tra virgolette) e Rino Alessi, si allinearono innumeri altri “uomini di cultura”, sempre fra virgolette (op. cit., Milano, Mondadori, 1977, vol. 1, p. 323), quasi a voler negare una tale qualifica per Bottai e per lo stesso Alessi.
E questa ironia, questo sprezzo tanto aperto quanto gratuito, sin  troppo facili dal momento che si esercitano “post rem” e non “in medias res”, vengono da uno storico che è stato ripetutamente attaccato e criticato perché troppo “revisionista” e perché, orrore degli orrori, aveva osato parlare di “guerra civile” oltre che di Resistenza; si può solo immaginare cosa hanno scritto oppure cosa hanno voluto intendere, con il loro silenzio rancoroso, tutti quegli storici e quegli storici della cultura che si sono imbattuti, negli ultimi decenni, nel nome di Rino Alessi e nelle vicende de «Il Piccolo» di Trieste nel fatidico 1938.
Ora, delle leggi razziali fasciste del 1938 si può pensare quel che si vuole, anche se è evidente che un giudizio storico spassionato non può astrarre dal contesto internazionale, con Gran Bretagna e Francia che facevano del loro meglio per gettare l’Italia nelle braccia della Germania, non avendole mai perdonato la conquista dell’Etiopia e la decisa rivendicazione del suo ruolo di grande potenza mondiale; e che un riavvicinamento alla Germania non poteva effettuarsi se non venendo a patti, in una certa misura, con gli orientamenti antisemiti della politica hitleriana.
Né, d’altro canto, bisognerebbe dimenticare che la nuova politica razziale del fascismo non era diretta specificamente contro gli Ebrei, ma, all’indomani appunto della conquista dell’Impero, nasceva anche e soprattutto dalla volontà di fissare delle linee generali nei confronti dei rapporti giuridici fra cittadini italiani e abitanti delle colonie africane, cosa che altre nazioni democratiche, come la Gran Bretagna, facevano con tanto più vigore e decisione, e specialmente lo faceva il “dominion” dell’Unione Sudafricana, senza che ciò sollevasse alcuna particolare indignazione a livello interno o internazionale.
Quello che non crediamo sia lecito, però, è di fare di tutta l’erba un fascio e di gettare un unico giudizio dispregiativo sull’intero mondo della cultura e sull’intero mondo del giornalismo, ignorando del tutto episodi come quello che vide Rino Alessi, dalle colonne del suo giornale triestino, battersi a viso aperto in difesa della minoranza ebraica e, più in generale, di un superiore principio di civiltà e di giustizia, quando, appunto, anche nel nostro Paese venne introdotta una politica di discriminazione razziale.
Diciamoci la verità, con un minimo di franchezza: se Rino Alessi, come tanti altri ex fascisti, avesse pagato il suo obolo alla “nuova” Italia democratica e resistenziale, maledicendo la memoria di Mussolini, la sua azione in difesa degli Ebrei non sarebbe stata così rapidamente dimenticata, né sarebbe stata così totalmente dimenticata la sua produzione letteraria e specialmente quella teatrale, visto che, all’epoca, le sue opere vennero rappresentate con successo, sia in Italia che all’estero.
Ma quanti galantuomini come Rino Alessi sono stati rimossi dalla memoria collettiva, solo perché non si macchiarono di viltà e opportunismo dopo la caduta del fascismo?