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Bernini e l’avvento delle masse

di Francesco Petrone - 15/09/2011

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Gian Lorenzo Bernini è il massimo esponente del movimento barocco, forse il principale artefice dello splendore della Roma dei Papi nel Seicento. Per intendere meglio lo spirito dell’artista, reputiamo opportuno fare un salto indietro nel tempo che ci riporti al mondo mitico della Grecia. Vogliamo parlare del noto racconto di Pigmalione, valente scultore e al contempo re di Cipro, di quella stessa Cipro che aveva dato i natali ad Afrodite a cui Pigmalione era molto devoto.
Il re artista aveva scolpito una statua muliebre in cui aveva profuso infinita grazia e bellezza. Pigmalione l’aveva concepita e realizzata come suo ideale femminile ed inoltre l’aveva perfezionata nel tempo con continui lievi ritocchi profusi anche nei dettagli, fino al momento in cui gli parve che all’armoniosa figura mancasse solo il movimento, l’azione, la vita. Lo scultore usava recarsi abitualmente al Tempio della protettrice dell’isola con generose offerte per supplicare la dea di dare vita alla donna che ormai amava con tutta l’anima, essendo stato sedotto dal fascino della propria creazione. Sensibile, per sua natura, alle suppliche sentimentali, la dea si espresse per mezzo di un segnale straordinario.
Pigmalione tornò a casa col cuore gonfio di gioia e di speranza, in tempo per vedere operarsi il miracolo; la statua, che lui chiamava Galatea (in altre versioni mitiche è menzionata come Eburnea, bianca come l’avorio), cominciò a prendere vita e a muoversi ancora intorpidita come fosse uscita da un lungo sonno. Questo semplice mito può farci comprendere come, quella che noi conosciamo come bellezza classica e che pensiamo essere perfezione assoluta, sia stata spesso sentita come incompleta. La forma, per quanto perfetta nei suoi statici canoni, non appaga totalmente l’animo dell’uomo, dell’artista che tende, in certi periodi, ad aggiungere un’apparenza di movimento alla propria realizzazione, illusione che osserviamo nella celeberrima Nike di Samotracia attribuita a Fidia. Il classicismo nel periodo dell’Umanesimo, come vediamo attraverso il pittore Sandro Botticelli, esalta la forma nella sua purezza, nel suo nitore e nella sua completa nudità semplicemente esposta e non ostentata, come possiamo ammirare nel grande dipinto della Nascita di Venere. Nell’opera si possono osservare spunti neoplatonici con l’esaltazione dell’amore come motore dell’universo. Analoga purezza della forma in pieno Rinascimento con Michelangelo Buonarroti e con i suoi nudi esposti con naturalezza anche se con maggior plasticità e maggior tormento nella muscolatura e nella tensione del movimento.
E’ col Buonarroti, infatti, che il modello classico comincia ad acquistare energia, quasi l’opposto della statuaria più immota e più serena del Donatello. E’ un lento evolversi, anche attraverso giganti come Caravaggio, verso la rappresentazione dell’immagine in movimento. Questa volontà di ricerca per fermare l’attimo arriva fino al Barocco dove trionfa il gusto dell’istantanea sulla staticità della posa. Nel Seicento, nonostante tutto, l’amore per il classicismo rimane ed i classici continuano ad essere molto apprezzati, anche se si è verificato uno strappo dalla Maniera. Ne è prova il fatto che, lo stesso Bernini, nelle sue prime opere fosse un provetto classicista che usava dilettarsi addirittura nell’imitazione dello stile greco antico come osserviamo nella scultura detta della Capra Amaltea in cui l’artista era arrivato a trattare la materia con una tecnica di invecchiamento per fare sembrare la propria opera effettivamente antica. Col passare del tempo, similmente al mito di Galatea, anche per il Bernini, ciò che è statico acquista movimento, quasi prendendo vita. Nel Ratto di Proserpina, addirittura le possenti mani di Ade che afferrano la dea, danno l’impressione di affondare nelle giovani carni della ancor vergine figlia di Demetra. Con tale espediente l’artista rende, agli occhi dello spettatore, il consistente e freddo marmo, tenero come il corpo di una fanciulla; inoltre drammatizza ulteriormente la scena illustrando con maestria una Proserpina che cerca di svincolarsi, disperata, dalla presa del dio delle ombre che la vuole sottrarre eternamente alla luce. Tutta la composizione di questo periodo tende a fermare il tempo oltre che rappresentare una forma. Il poeta francese di età barocca Motin, ben illustra questa tensione dell’epoca verso il movimento con il seguente verso: “L’anima del mondo tutto è il solo movimento”. Bernini ribadisce tale concetto affermando che “un uomo non è mai tanto somigliante a se stesso come quando è in movimento”. Frase che non sarebbe certo dispiaciuta ad un Marinetti. Nella statua raffigurante il giovane David nell’atto di scagliare la fionda contro Golia, L’artista cerca di cogliere il movimento fissando lo sforzo e la concentrazione nell’espressione contratta, nella fronte con le sopracciglia corrugate; atteggiamento molto diverso dal rilassato David giovinetto del Donatello che in una posa quasi prassitelea, pensoso, sembra rilassarsi dallo sforzo del duello. Nella figura dell’artista secentesco invece possiamo osservare le labbra serrate che lasciano intuire i denti incisivi che mordono il labbro inferiore gesto che contribuisce a comunicare uno stato di forte tensione anche emotiva. In quest’opera la forma incontra il movimento e la volontà che ne è figlia.
Ma è con Santa Teresa d’Avila, opera ritenuta il capolavoro del Bernini, che il virtuosismo riesce ad immortalare l’attimo, nonché la vita che si immette nella forma e nella materia. La scultura, ubicata nella chiesa di Santa Maria della Vittoria nella Cappella Corsaro, rappresenta la santa spagnola colta in una delle sue estasi. Il Bernini sembra ispirarsi proprio ad uno scritto della mistica nella raffigurazione dell’angelo con la saetta a cui conferisce un’espressione beffarda e maliziosa. Intenzionalmente lo scultore rappresenta l’estasi con le caratteristiche di un orgasmo femminile. Per mostrare al meglio un episodio di esaltazione mistico-erotica, l’artista sembra aver pensato, per poi descriverlo col rigore quasi scientifico di un osservatore scrupoloso, a un episodio di autoerotismo. Di questo non dobbiamo meravigliarci più di tanto, in quanto dalla fine del XV secolo la figura dell’artista, col tempo, si è trasformata in quella di uno scrupoloso analizzatore della realtà circostante. Il XVII secolo, inoltre, è il secolo della scientificità ed è affascinato anche dagli enigmi dell’anima e dalle pulsioni inerenti i sentimenti più reconditi. Infatti, al contrario della Venere del Botticelli che nonostante la totale nudità non offre alcuna intimità all’osservatore, tranne un’espressione virginale di serena malinconia, nell’opera del Bernini, la donna, anche se totalmente vestita, col solo volto esibito, offre allo spettatore un’intimità raramente svelata e fatta oggetto di studio. Nel Seicento non esiste verecondia, si coprono i corpi ma si svelano, anche con mancanza di pudore le spinte emotive più intime. Nell’ideale fermo immagine dello scultore, gli occhi della donna sono socchiusi ed hanno uno sguardo che ci figuriamo rivolto in maggior misura all’interno anziché all’esterno della persona. La bocca, sormontata da un naso affilato, ha le labbra semiaperte a causa della flebile espirazione, mentre le sottili labbra lasciano intravedere solo in parte il candore dei denti. Allo spettatore pare quasi di percepire l’accelerazione delle palpitazioni della santa. Il volto non è certo contratto come riportato da molte descrizioni frettolose ma, al contrario, è nella sua massima distensione; lo stesso discorso vale anche per l’espressione che ad un occhio superficiale può apparire quasi tormentata o angosciata e che invece risulta essere di immensa beatitudine e dolcezza in un’implosione di piacere che allontana il soggetto dalla tangibilità del mondo esterno per protenderla verso un universo interiore o meglio intimo. L’artista sa cogliere la donna nel preciso e fugace istante dell’emancipazione dal proprio sé, in quella che è stata descritta come una effimera uscita dal mondo; tutt’al più si può vedere, nella scultura, una analogia fra smarrimento assoluto ed estremo piacere che paiono rincorrersi per trovare la somma armonia. Il Bernini vuole fare quasi una similitudine fra amor sacro ed amor profano nel confondere le differenze teologiche fra eros ed agape e facendo dell’eros quell’energia che ci pervade, inconsapevoli, essendo come affermava Marsilio Ficino, l’estendersi di Dio nell’universo. L’anima della persona diviene, secondo ciò che asseriva già il primo Umanesimo, “Copula Mundi”, copia del mondo ed è vista come un incontro, una mediazione tra il mondo e Dio, proprio tramite la forza dell’eros. In queste scelte culturali, il Bernini dimostra di condividere l’interpretazione del neoplatonismo di Marsilio Ficino. Per l’artista, che vive il proprio tempo, l’eros è elevazione della ragione ed eroico furore. L’eros sarebbe la strada percorribile solo col coraggio e con la forza d’animo, non utilizzando la troppo limitante ragione. Giordano Bruno, come in seguito farà anche Nietzsche, mette l’accento sulla comune radice di eroico con eros. Il tema dell’estasi vista come momento sensuale piace molto ai committenti sia laici che religiosi ed il Bernini stesso che lo replica nella chiesa di San Francesco a Ripa nella cappella dedicata alla Beata Ludovica Albertoni, parente di un cardinale e di fresca beatificazione. Il Barocco fino agli inizi del Novecento è stato ridicolizzato, snobbato, emarginato dalla cultura ufficiale e con strascichi ulteriori in quella borghese diffusa. Per spiegare le origini di tale atteggiamento culturale occorre fare una breve analisi di tipo sociologico. Nel Seicento assistiamo ad un fenomeno quasi periodico nelle storie delle civiltà; le città sono investite da un forte flusso migratorio proveniente dalle campagne che crea scompensi di tipo demografico. L’improvvisa lievitazione della popolazione urbana si riflette anche sul linguaggio e sulla cultura. I nuovi arrivati sono infatti sprovvisti di un’adeguata preparazione intellettuale e non posseggono gli strumenti per comprendere il codice della cultura condivisa, in primis, dell’arte colta, la quale per sua stesse natura dovrebbe tendere verso le masse, acculturate o analfabete che siano. Le classi egemoni comprendono subito che questo volgo può apportare instabilità sociale e che può essere causa di tumulti ingovernabili. Si pensa che la nuova arte per comunicare deve avere contenuti semplici, immediati, retorici e soprattutto deve colpire la fantasia ingenua di questo nuovo pubblico incolto che ha cambiato il volto alle città. Nasce, di conseguenza, una nuova forma di arte ad usum delphini, atta cioè a comunicare con semplicità ed immediatezza a questo esordiente proletariato che si va formando e che non è inserito in alcun assetto armonico di tipo tradizionale o culturale. Alcuni storici dell’arte hanno paragonato questa nuova forma di Barocco al nostro kitsch, avendone le stesse caratteristiche ed essendo indirizzata al medesimo pubblico preparato a recepire unicamente le suggestioni e l’enfasi. Questa è la ragione per cui il Barocco si radica nel gusto popolare molto rapidamente formando una vera e propria cultura di massa. Noi contemporanei abbiamo confuso spesso l’arte barocca colta col Barocco kitsch commissionato intenzionalmente per rivolgersi al nuovo pubblico con gusti estetici ancora da definire ma tendenzialmente ingenui come di norma nel volgo.
Se si dovesse analizzare il Seicento dal punto di vista psicologico, senza dubbio lo si dovrebbe collocare in un periodo storico in cui prevale la percezione del dionisiaco. L’antico dio della vegetazione e successivamente del vino era facilmente comprensibile alle masse proprio a causa della sua natura istintiva, teatrale e peculiare per i rapimenti estatici. Insieme ad un animo festante, solidale, sociale e rutilante, il dio possiede anche un volto violento e terrifico. Il dio era così vicino alle masse che il potere dell’antica Grecia riteneva opportuno, in occasione delle rappresentazioni delle festività dionisiache, liberare i carcerati per permettere anche a questi esclusi di assistervi. Abbiamo potuto osservare che molteplici sono le affinità che avvicinano il XVII secolo anche a quello appena trascorso e alla contemporaneità nel suo insieme, oltre al carattere indubbiamente dionisiaco. Una grande analogia si osserva nel detrimento di certezze stabili, sia filosofiche che teologiche, fenomeno che getta l’uomo in uno stato di insicurezza psicologica. I grandi massacri causati da guerre avvicinano molte persone verso forme di nichilismo. Si verificano mobilitazioni delle masse in nome della fede e di miti mobilitanti. Il fenomeno dell’apparizione di queste stesse masse sulla scena, crea la necessità di tenerne conto. La cultura dei due periodi si appella al coraggio e alla volontà indicate come grandi doti. Nasce la ricerca del movimento e del dinamismo, della trasformazione, fenomeni derivati dall’ansia del tempo visto come principale punto di riferimento. Cresce la seduzione per le emozioni e l’interesse per la psicologia dell’individuo e i suoi misteri. Si sviluppa la mobilitazione spirituale in nome di grandi ideali oltreumani. Non meraviglia che uno scrittore magari poco avveduto nei giudizi storici ma molto intuitivo come Curzio Malaparte si avventuri in giudizi azzardati ma su cui molti uomini di cultura hanno riflettuto. Lo scrittore toscano su “L’Europa vivente” paragona, con le dovute riserve, il movimento controriformista al movimento fascista, all’epoca appena agli albori (Siamo nel 1923). Le analogie sarebbero varie, come quella in cui il movimento fascista viene visto come restauratore della legge, creatore di un rivolgimento totale e ispiratore di una sorta di religione mistica, di un tradizionalismo rivoluzionario. In effetti, come abbiamo visto, la volontà, il movimento e l’azione avvicinano il fascismo ad alcuni estetismi secenteschi. Nasce la consapevolezza che la storia cammina a passo di marcia, anzi di corsa. Malaparte forse rimane influenzato dal colore nero delle squadre; evoca infatti la suggestione della Bande Nere. Sempre Malaparte vede in Mussolini l’artefice che si muove fra sindacalismo rivoluzionario e grande restaurazione di italianità. Tali osservazioni entusiasmarono Papini, come riporta Luca Leonello Rimbotti nell’articolo “Fascismo barocco e controriforma”. Il rapporto fra cultura barocca e fascismo è analizzato in “Barocco e fascismo” di Eugenio Ballabio in cui si scrive che il fascismo è “esplosione creatrice di tutte le energie spirituali, ispirata, sostenuta e indirizzata da una volontà accesa di eroismo e di santità”. Una lotta del bene contro il male. Tornando al secolo del Bernini, vediamo che gli artisti di quell’epoca radicalizzano i sentimenti drammatizzando l’antitesi fra gli opposti, sentono il proprio secolo come cerniera dei tempi, l’epoca del mutamento, dello scorrere prepotente del tempo che tutto cambia, sposta inesorabilmente. L’attualità dell’epoca barocca è preannunciata da Michelangelo con i suoi “Prigioni”, uomini schiavi che cercano di liberarsi dalla materia che li imprigiona e che con uno sforzo titanico cercano di liberare la “forma-spirito” dalla pietra grezza dell’indefinito amorfo “non-essere”. Per raggiungere questo effetto il genio di Michelangelo usa la tecnica, appunto, del “non-finito”. Ne deriva un atto quasi auto-creativo, un assoluto libero arbitrio, forse una risposta artistica a quei tentativi teologici riformisti di negare questa importante base teologica del cattolicesimo; l’interazione fra anima e corpo in cui ognuno è padrone del proprio destino. La Riforma, infatti, più che sulla volontà dell’uomo mette l’accento sulla più biblica disponibilità di Dio. Quella del Buonarroti pare essere la concezione nietzscheana del “diventa ciò che sei”, in cui vi è l’eco della massima greca che recita: “conosci te stesso”. Tutta l’opera del Buonarroti fu in seguito ammirata, studiata e compresa da Rodin, scultore francese e, grazie al Buonarroti, caposcuola della modernità, la buona modernità. I “Prigioni” hanno in sé le moderne suggestioni, meglio sarebbe dire le folgorazioni, Nietzscheane sull’oltreuomo, del passaggio, tramite la volontà, da uno stato ad un altro dell’esistenza; dall’aristotelico concetto di potenza (materia) al volitivo concetto di atto (forma).