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Islanda, quando la rivoluzione non è colorata

di Enea Baldi - 15/09/2011



Mentre sugli altri organi di stampa nazionali, radio e tv, un silenzio assordante, rotto a tratti dalle notiziole di gossip della politica politicante, ci informava sul nuovo fidanzato della Pellegrini oppure su quante volte Vasco Rossi posta un video delirante su Facebook.
Silenzio stampa (ma anche audio e video), su un fatto che, a ben vedere, ha tutta l’aria di essere il prodromo di una rivoluzione.
Silenzio, d’altronde, che dura da almeno tre anni; da quando nel 2008 la forte crisi economica portò l’Islanda al crack finanziario. Prima di tali eventi l’economia dell’Isola dei vulcani era, seppure minima, ben sviluppata (un pil stimato sui 10 miliardi di dollari nel 2005).
Dopo un anno di tribolazioni per l’economia, nel 2009, tramite un referendum, il popolo islandese ha (per il 93 %) deciso di non pagare più il debito pubblico alle banche. Si è innescata così una sorta di “rivoluzione silenziosa” che però ha costretto il governo di centrodestra guidato da Geir Hilmar Haarde ad accettare le dimissioni nonché la stesura di una nuova Costituzione. Ma ciò che più di tutte è passata in sordina è stata soprattutto la nazionalizzazione della maggior parte degli istituti di credito e l’arresto dei banchieri responsabili di aver portato la nazione alla bancarotta.
L’Islanda per la notevole presenza di centrali idroelettriche ma soprattutto geotermiche, che forniscono al Paese oltre il 70 % dell’energia necessaria agli abitanti, vive una sorta di autarchia energetica (il 99,9 % di quella elettrica è generata da fonti rinnovabili). Inoltre, il Parlamento islandese già nel 1998 ha deciso di eliminare tutti i combustibili fossili dall’Isola e di utilizzare soltanto mezzi di trasporto alimentati ad idrogeno.
La spesa energetica non è da sottovalutare, soprattutto in vista delle restrizioni economiche a cui dovrà andare incontro il popolo islandese per risollevarsi dalla stangata inferta dal monetarismo usuraio internazionale.
Niente salvataggi in extremis quindi (come quello al quale è stata costretta la Grecia) da parte di Bce, Fmi o Banca Mondiale, nessuna cessione della propria sovranità nazionale, niente svendite al migliore offerente… soltanto una volontà popolare di riappropriazione dei diritti, e soprattutto una partecipazione referendaria tra le più alte d’Occidente.
Un popolo unito quello islandese, orgoglio del premier Johanna Siguroardottir che ha annunciato in una conferenza stampa che “la ricostruzione economica islandese, dopo il collasso bancario del 2008 è già partita”.
Il “miracolo” islandese (a differenza di quello berlusconiano) si è così potuto realizzare grazie alla serietà politica ma soprattutto alla partecipazione del popolo che unanime ha voluto e ottenuto l’indipendenza economica dagli usurai di Washington.
Un passo importante di autodeterminazione quindi, quello islandese; un sasso nello stagno, un’idea che avrebbe potuto provocare un’onda d’urto così forte da ridestare dal torpore i popoli europei (in primis l’Italia) ma che purtroppo, complici i media, ha prodotto il... solito silenzio.
Lo stesso passo che fece l’Argentina della Presidenta Kirchner che scioltasi dai legacci usurai del Fmi, oggi è tornata a volare a tassi dell’8% annuo.