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I ragazzi di oggi sono tristi

di Stefano Montefiori - 17/09/2011


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Inutile cercare Philippe Djian al solito Cafè de Flore, sprofondato nei divanetti rossi, l'aria magari corrucciata o lo sguardo immerso nel volume appena comprato alla vicina libreria La Hune. Philippe Djian lo si trova alla brasserie Faitout, nel XIX arrondissement, lontano dagli editori di Saint-Germain ma vicino al parco delle Buttes Chaumont. È arrivato in anticipo all'appuntamento e aspetta in piedi, di spalle, vestito in maglietta e giacca nera, sfogliando il Parisien sul bancone di zinco e sorseggiando il primo di molti caffè. Philippe Djian ha 62 anni, scrive da 30, ha conosciuto un successo enorme nel 1985 con uno dei suoi primi romanzi, 37°2 al mattino (portato al cinema come Betty Blue, protagonista una fantastica Beatrice Dalle), e da allora pubblica un titolo al massimo ogni 18 mesi.
«È un lavoro, mica aspetto che l'ispirazione mi piombi addosso — spiega sorridendo, adesso seduto al tavolino —. Con la letteratura ci pago la casa, gli studi dei miei figli. I romanzi sono fatica, passione, tecnica». Lo dice anche Stephen King, che sta al tavolino dalle nove alle cinque 365 giorni all'anno. È anche per questo atteggiamento che lei è perennemente definito «il più americano degli scrittori francesi»? «Ci sono tante ragioni. È vero che i miei modelli, i miei autori preferiti sono in maggioranza americani. Come Salinger, scrivo i libri che mi piacerebbe leggere. E non ho paura di una parola che in Europa, soprattutto in Francia, è giudicata quasi una bestemmia: entertainment. Hemingway faceva entertainment. Piace farlo anche a me». Il romanzo 2011 di Philippe Djian è Vendette, appena uscito in Italia come sempre per Voland. L'incipit ci dice molto di quel che Djian intende per letteratura: «I più colpiti erano di sicuro i più giovani, quelli sui vent'anni. O giù di lì. Bastava guardarli. L'avevo capito davvero durante una festicciola dai nostri vicini, pochi giorni prima di Natale. Quando Alexandre, mio figlio diciottenne, aveva lasciato di sasso poi terrorizzato gli astanti sparandosi a freddo una pallottola in testa. E crollando sul buffet». Seguono 145 pagine in cui il padre, Marc, artista cinquantenne, cerca di capire perché Alexandre abbia voluto punirlo in modo così feroce. Nella sua ricerca è aiutato dagli amici di sempre, Anne e Michel, e da Elisabeth, una ragazza raccolta in una pozza di vomito tra i sedili del metrò, che si rivelerà presto essere l'ex fidanzata di Alexandre. Marc ripercorre il suo rapporto con il figlio suicida proprio come aveva vissuto con lui: prestandogli attenzioni, ma anche pensando molto ad altro. Politica (un tempo), feste, cocaina, tanto alcol, tantissime donne. Anche quelle dei compagni. Come Anne, per esempio, da decenni moglie del suo migliore amico ma pronta a mettergli le mani addosso durante le gite in macchina.
«Negli ultimi libri parlo di noi cinquanta-sessantenni, che per la prima volta nella storia non desiderano poi cose così diverse rispetto ai figli — racconta Djian —. Il mio ragazzo quando viene a casa mi ruba spesso i vestiti. Io non mi sarei mai sognato di sottrarre il panciotto dal cassetto di mio padre. Ho vissuto con degli eccessi, naturalmente, ma sempre finalizzati a essere felice, a vivere pienamente. Bevo perché mi piace rilassarmi, stare bene con le persone e andare dietro alle mie curiosità. Oggi i ragazzi fanno binge drinking, si scolano litri di alcol in pochi minuti per andare fuori di testa il prima possibile. In questo siamo diversi, loro sono più tristi».
A Djian non piacciono neppure i giovani scrittori troppo educati, troppo perbenino. «Eravamo a una presentazione con Laurent Binet, quello di "HHhH". Un bel ragazzo, intelligente, con una bellissima compagna. Ma a parte che non si capisce questa mania di scrivere sempre della Seconda guerra mondiale invece di parlare della realtà, del mondo attorno a noi. Ma poi bisognava vederlo, così educatino, così ammodino... Come Dave Eggers, che pure mi piace... Ma mi hanno detto che a casa sua a San Francisco fa togliere subito le scarpe ai giornalisti, offrendo pantofole, per paura che si sporchi il pavimento. Gesù, anche io ho avuto figli piccoli e la mia casa è pulita, davvero. Ma le pantofole no...»
Scusi ma che c'entrano le pantofole con la letteratura? «Non so, mi sembrano tutti ancora affettati, seduti, legati al romanzo ottocentesco, che, soprattutto in Francia, vogliono ancora scrivere come Proust. Immenso, Proust, ma ci sono stati per fortuna Céline, Kerouac, e oggi le serie americane, e Bret Easton Ellis che alla fine di Lunar Park non ha paura di inventarsi una deriva horror. Io ho scritto sei volumi di "Doggy Bag" ispirandomi alle serie americane. La verità è che dovrebbero tutti guardare l'episodio pilota della serie "Breaking Bad": un paio di pantaloni che cadono dal cielo, calpestati da un furgone in corsa nel deserto, da cui esce di corsa un uomo in mutande e maschera antigas. Questa è la grande letteratura di oggi. Ma provi a farglielo entrare in testa a quelli di Saint-Germain-des-Prés».
Signor Djian, lei che mondo vuole raccontare? «Non lo so, non mi interessa. Non faccio sociologia, né politica. Per me conta solo lo stile. Trovare parole che una dopo l'altra stanno bene insieme. Questo, per me, è scrivere».