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Ivan Illich e Rodolfo Quadrelli, vite quasi parallele.

di Andrea G. Sciffo - 19/09/2011

 



 

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La società contemporanea in ogni suo ceto, dalla frenesia delle metropoli alla delinquenza disperata di bidonvilles e favelas, vive l’unica epoca storica che non sopporti paragoni con le età precedenti perché ha scancellato dai muri delle case l’invocazione degli antichi greci «Mandaci, padre Zeus il miracolo di un cambiamento!» (Simonide, frammento 38): è la “modernità” ovvero quella condizione umana che, una volta diffusasi, paralizza qualunque tentativo di trasformazione dello stato delle cose, e in ciò fa consistere la propria tragedia. Di fronte a questo fatto si può proseguire nell’indifferenza per “far finta di essere sani” oppure guardare negli occhi il volto cruento dell’attualità.

La prima scelta la compiono i cinici di qualunque colore, i quali non osano ammettere in pubblico di aver già concluso che la vita non ha nessun senso: li si può pertanto trovare soprattutto nelle posizioni di potere o nelle adiacenze, nell’immensa legione degli arrivisti, degli esecutivi, dei servili-in-carriera, degli spudorati sotto ogni latitudine, dentro qualsiasi etnia. Le loro azioni producono l’inquinamento del pianeta.

La seconda scelta è il destino degli innamorati della verità della vita: inconsapevoli, indifesi, essi costituiscono ancora la stragrande maggioranza silenziosa dell’umanità sulla Terra, ne sono ancora per poco il ventre molle e fecondo, ma hanno sempre meno voce in capitolo per cantare il proprio amore straziato; la loro caratteristica di fondo è che appaiono “inefficienti” se valutati col criterio della “modernità”. Solo alcuni tra loro, ogni tanto, si assumono il compito di avvicinarsi di persona all’orrore contemporaneo per riferire come è fatto.

 

Convinti delle proprie (giuste) idee

Nel Novecento, gli artisti che tentarono di avventurarsi nelle “terre desolate” si sono autodistrutti: tra i reduci più famosi, il poeta T.S. Eliot nella prima metà del secolo e il narratore Solženicyn negli ultimi decenni, ma entrambi pagarono a caro prezzo le proprie escursioni di andata e ritorno nella regione proibita.

Qui però si tratta di due pensatori: Rodolfo Quadrelli (1939-84) e Ivan Illich (1926-2002), in occasione dell’uscita del libro di Martina Kaller-Dietrich Vita di Ivan Illich. Il pensatore del Novecento più necessario e attuale (edizioni dell’asino, 2011 pp.225 €12), per dire che, mentre saluto con piacere questa pubblicazione, mi pare altrettanto necessaria una analoga che tratti della vita e dell’opera quadrelliane.

Illich e Quadrelli non sarebbero paragonabili né per affinità, né per contiguità e nemmeno per eventuali arcane simpatie segrete: ciascuno di loro produsse un arco bio-bibliografico non compatibile con quello dell’altro; né mai si incontrarono o incrociarono. Eppure il parallelo emerge con una certa precisione di linee perché le loro figure furono (e sono) omologhe, cioè servono con forme differenti alla medesima funzione: finalmente, alla liberazione dalla condizione moderna e dai suoi servaggi. Bisogna ricordare che la mentalità “moderna” squalifica e ostacola con ogni mezzo chiunque abbia raggiunto la sorgente delle idee giuste, e proceda convinto di quelle stesse idee.

Gli scritti di Illich e Quadrelli si fermarono sempre un passo prima dell’ultimo, che è quello di passare all’azione. In questo caso particolare, abbiamo un libro reale, esistente (nella collana “i libri dello straniero”, prefata da Wolfgang Sachs, nelle edizioni di Goffredo Fofi) e un libro che non c’è, vale a dire l’ipotetica Vita di Rodolfo Quadrelli : esiste un blando legame filosofico, indiretto, e possibile se si considerano le chiose di Quadrelli al famoso trattato di E.F. Schumacher Piccolo è bello (Oscar Mondadori, 1978). Ho tra le mani la copia con sottolineature e commenti quadrelliani a margine, ma sarà oggetto di un altro discorso.

 

Il ’69 dopo il Sessantotto

Illich e Quadrelli, a suo tempo, poterono apparire polemici, intransigenti e aspri: in realtà, erano i tratti di chi fosse nemico dell’avvento del troppo uniforme che costituisce la civiltà-di-massa dagli anni Settanta ad oggi. Già l’amico Erich Fromm si domandava “perché leggere Illich”, rispondendo così:

 

“perché […] i suoi scritti hanno un effetto liberatorio sulla mente del lettore nella misura in cui svelano interamente nuove possibilità; essi arricchiscono il lettore aprendogli la porta dalla quale si può uscire dalla prigione delle cognizioni sterili, preconcette, frutto della routine. […] essi parlano la lingua della forza e della speranza che spingono a cominciare di nuovo”.

 

Nel 1969 monsignor Illich, già fanciullo prodigio della sociologia in seno alla Chiesa cattolica statunitense, abbandonò formalmente il sacerdozio dopo una sospettosa convocazione in Vaticano: i dieci anni successivi segneranno l’apice del suo successo nel mondo della cultura. A Firenze, nel maggio dello stesso anno, per i tipi di Vallecchi usciva il primo libro di Quadrelli Il linguaggio della poesia, un’opera prima come poche si rinnovano nel corso di un secolo, che tra i capitoli finali riportava un saggio aperto da queste parole:

 

“Lo scopo dell’economia è restituire ad ognuno il proprio corpo, così che, servendolo, non serva quasi il corpo di un altro. Questo è il suo scopo perenne”

 

ma il non aver segnalato, per lombardissimo pudore, come tale saggio fosse uscito tre anni prima sulla “Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali dell’Università Bocconi di Milano” (a.XIII, n.11) o che anche il capitolo “La cultura della scuola” fosse già pubblicato su Vita e Pensiero (a.LI, n°5) del 1968 accanto a un contributo di Augusto Del Noce, nocque tanto a Quadrelli perché la società letteraria italiana ha sempre ripetuto tra sé e sé il volgare detto italiota “chi si fa piccolo, il lupo lo mangia”. Regola non scritta ma tenacemente valevole anche nella cerchia degli intellettuali che attendevano le direttive dalle grosse pagine dell’Espresso: e infatti, nel 1972 fu Umberto Eco a stilare di proprio pugno la lista di proscrizione; Quadrelli vi figurava de jure in quanto autore di libri presso Rusconi (nella stessa collana di Cristina Campo, Eliade, Coomaraswamy, Seyyed Nasr, Voegelin, Giuseppe Sermonti, Sedlmayr, Abraham J. Heschel, Ceronetti e Prezzolini).

Dalla parte opposta del globo, nella sede del CIDOC presso Cuernavaca, intanto Illich veniva così descritto dal corrispondente austriaco per il quotidiano Die Presse del 7 agosto 1969: «sotto un albero di sapodilla del giardino del suo istituto inondato dalla luce del sole, dove lo sguardo errava su un dolce e scintillante paesaggio sul quale si ergeva la punta innevata di un vulcano». Microcosmi e macrocosmi anche lontanissimi sono sfere talvolta tangenti, e se il contatto delle sfere non avviene, in certi momenti è solo per un soffio. Come quando nell’ottobre del 1972, l’editore milanese Vanni Scheiwiller diede voce a Quadrelli diffondendone al ciclostile il magistrale scritto “Come si distrugge una cultura”, quello che iniziava così:

 

“La cultura della quale vogliamo parlare non è quella degli indios o dei polinesiani, sulla quale ora indugiano anche i rotocalchi, con ipocrita pietà, per dire che l’autostrada transamazzonica era inevitabile; parliamo invece della cultura italiana ed europea, come la vivevamo o viviamo noi, per dire che l’Autostrada del Sole era evitabile”.

 

Fuori, Milano annegava nello smog e negli opposti estremismi dell’ideologia: eppure la voce quadrelliana era per offrire una possibile, espiatoria, via d’uscita dagli effetti collaterali del “miracolo economico”. All’osservatore distratto, a chi è segregato tutti i giorni e tutto il giorno nella custodia avvolgente di un ufficio metropolitano, tutto questo può apparire senza un significato: del resto, non si va a chiedere quale sia la piena fragranza della vita a quanti stringono il proprio respiro in una giacca con cravatta, calzano scarpe utili solo a passeggiare su un marciapiede cittadino, hanno occhi solo per uno schermo o per il visore di un cellulare.

Allora chi potrebbe scrivere il libro su Quadrelli? Non il sodale di un tempo remoto, Quirino Principe, perché ha già inciso su pietra gli esametri delle loro mitiche imprese, con un poderoso necrologio apparso su Studi Cattolici del giugno 1984 e con una veemente prefazione in apertura della raccolta postuma di poesie quadrelliane “La fine del tempo” uscita nel 1986 per Scheiwiller. Nemmeno Sergio Quinzio il quale, nel 1993 dunque ancora vivo in salute, vide rifiutarsi dalla figlia di Quadrelli una sciatta prefazione a una riedizione di un libro quadrelliano (postumo, poi mai uscito). E neppure Claudio Magris, al quale Quadrelli aveva attribuito il titolo di “scrittore gnostico” nella cui opera tuttavia “sono presenti elementi sicuramente morali”, in un ampio articolo apparso il 5 novembre del 1982 su Il Tempo di Roma.

Nel 1997 io stesso scrissi a Magris domandandogli perché non avesse dato sostanza e dimensione pubblica al colloquio (culturale e quindi politico) a cui Quadrelli lo invitava, almeno dal ’79: e lo scrittore triestino, rispondendo al tono accusatorio della mia lettera, rispose opponendomi le virtù dell’umiltà e dell’ironia “che sono i due motivi guida” scriveva, “cui cerco di ispirarmi […] C’è fra le sue (cioè mie, n.d.r.) righe una inconsapevole ma luciferina superbia e il fatto che sia inconsapevole non ne diminuisce – se le cose stanno così e se la mia impressione non è del tutto errata – la gravità e la colpa” (carteggio privato, da Trieste, 12.12.’97).

 

Il “vero democratico”? Conviviale, vernacolare, tradizionale, morale

Ecco il punto: la crisi è sempre una crisi di uomini, e la recessione non avviene a causa della finanza ma per l’impoverimento dei singoli individui.

 

“Per noi restano veri ideali assolutamente opposti: chi come l’artista o il vagabondo, come il contadino non rozzo o l’operaio non illuso, è portatore di un’autentica originalità, non si vergogna di essere come gli altri, ne cerca anzi la compagnia. Possiamo definire costui un vero democratico? […] Non democratico sarà allora chi dice di non avere mai tempo e di avere troppo da fare. È questo l’alibi più diffuso per garantire la propria irresponsabilità e la propria impunità. […] E invece chiunque esibisca quell’alibi deve essere denunciato come uno che bara al gioco sociale; è uno che si sottrae non già per meditare o contemplare, nel qual caso potrebbe essere rispettato, ma uno che vuole accumulare potere. È uno che gioisce della decadenza dei luoghi di riunione, quali la strada e la piazza, e che agli esterni preferisce gli interni, con o senza bottoni, dove la fa da padrone e verso i quali scivola protetto dall’abitacolo di un’automobile. È uno che ha scelto la mediazione del potere e la rispettabilità degli appuntamenti alla mediazione della cortesia e alla felicità degli incontri casuali” (Il senso del presente, Rusconi, 1976).

 

Non è, questo, un commento stupendo alle intuizioni illiciane di “convivialità” e di “vernacolare”?

È un fatto che, negli stessi anni in cui Illich invitava a “descolarizzare la società” (1971), a riscoprire gli “strumenti per la convivialità” (1973), a liberarsi dalla lingua madre insegnata a vantaggio dello stile “vernacolare” (1979), a riconsiderare la differenza sessuale uomo-donna alla luce del “genere” (1982), Quadrelli sviluppasse la propria riflessione su vie maestre complementari: per lui, l’uomo può avere un futuro soltanto nel ritrovamento della tradizione, e si guadagna il presente soltanto vivendo una vita morale.

Molto probabilmente, il sentiero alto e silvestro di Quadrelli sarà ripristinato domani da un italiano atipico, e quasi certamente qui, nel Bel Paese umiliato: ciò avverrà in una nazione talmente trasformata (Mandaci, padre Zeus, il miracolo di un cambiamento!) da parere inconcepibile ai cinici o ai “realisti” di oggi, perché la crisi è spaventosa soltanto se osservata dal punto di vista dei poteri forti della finanza.

Domandava Quadrelli a Ennio Flaiano nel 1972: l’Italia soffre la crisi del disadattato, nella civiltà dell’industrializzazione, “ma in un altro universo?”.  Un'altra realtà è possibile, ripetono le voce di maestri come Illich e Quadrelli; e dei loro maestri… Così come il destino di Illich include necessariamente l’Italia, e una certa Italia, alla stessa maniera Noventa era convinto di essere lui a dover compiere qui da noi la riforma di Maritain. Perché, scrisse Quadrelli ne Il paese umiliato (Rusconi, 1973): “l’Italia non è un paese moderno, e non è detto che questa sia una disgrazia. Se non si è moderni, si soffre di più, ma non è detto che la sofferenza non sia segno di superstite salute”.

 


 

 

 

Rodolfo Quadrelli, Lo studio della letteratura. Un percorso da Dante a Solženicyn (Il Cerchio, Rimini, 2001; pp.118 € )

 Martina Kaller-Dietrich Vita di Ivan Illich. Il pensatore del Novecento più necessario e attuale (edizioni dell’asino, 2011 pp.225 €12)