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Vivere la vita senza sentirsi vivi: tale è l’insicurezza ontologica dell’io «moderno»

di Francesco Lamendola - 19/09/2011





Se si confronta la psicologia di Renzo Tramaglino con quella di Mattia Pascal, oppure la psicologia di Lucia Mondella con quella di Adrienne Mesurat, una cosa balza all’occhio: nel corso di neppure cento anni vi è stata una radicale rivoluzione dell’io, o piuttosto una sua radicale dissoluzione; e, al posto della sicurezza ontologica primaria, è subentrata la più totale insicurezza.
Pur in mezzo a prove e difficoltà, Renzo e Lucia non dimenticano mai chi sono; sanno quel che vogliono e, più o meno, sanno in che modo desiderano realizzarlo: non dissimili, in questo, dai personaggi di Dante, Shakespeare, Goethe.
A partire dalla fine del XIX secolo, il paesaggio dell’anima è completamente cambiato, come se una immane devastazione si fosse abbattuta sulla Terra: tanto che, potendo viaggiare in avanti con la macchina del tempo, anche solo di pochi decenni, gli uomini dei primi dell’800 dubiterebbero di trovarsi effettivamente sullo stesso pianeta e in mezzo alla medesima umanità che credevano di conoscere da sempre e per sempre.
Essere vivi, senza averne la certezza: tale, secondo l’efficace definizione di Ronald Laing, la condizione tipica dell’io dell’uomo moderno, caratterizzata da una insicurezza ontologica primaria; laddove, prima, esisteva, bene o male, una fondamentale sicurezza di sé, tanto nell’uomo e nella donna comuni, quanto nell’artista, nello scienziato, nel pensatore.
Tutti i personaggi letterari del Novecento sono caratterizzati, chi più e chi meno, da questa debolezza fondamentale, da questa insicurezza ontologica riguardo al proprio io: essi non sanno bene chi sono e cosa vogliono, cosa si aspettano dalla vita, quale posto nel mondo ritengono di dover occupare.
Sono simili a degli ospiti non invitati che si aggirano inquieti e timorosi, sempre fuori posto, sempre incerti e nevrotici, come se qualcuno o qualcosa potesse venire a scacciarli via da un momento all’altro, senza un perché, sulla base di una sentenza incomprensibile ma che essi, tuttavia, in fondo alla propria anima, riconoscono essere “giusta”.
Del resto, non è così che si comporta il Signor K., il protagonista del romanzo più famoso di Kafka, «Il Processo»? Quando due strani individui gli notificano un mandato di comparizione in tribunale, affermando che un processo è stato avviato a suo carico, egli reagisce in maniera contraddittoria, ora ostentando una sprezzante ironia, ora lasciandosi prendere dall’angoscia e andando affannosamente in cerca di un avvocato che lo possa difendere nel modo migliore; tuttavia non fa mai la sola cosa che verrebbe naturale pensare che faccia, ossia cercare di informarsi sulla esatta natura dell’imputazione che gli è stata rivolta.
È come se, nella parte più profonda di sé, egli sapesse di “meritare” quel  processo e fors’anche quella condanna; o, quanto meno, come se egli se la fosse sempre aspettata, come se l’avesse sempre considerata una possibilità reale, magari perfino probabile, in base ad una legge sconosciuta ma, insomma, in qualche maniera “giusta”.
Ed è un po’ lo stesso atteggiamento che Gregor Samsa adotta, nel racconto «La metamorfosi», allorché si rende conto di essere diventato un enorme, ripugnante, bavoso scarafaggio e che gli altri non potranno mai più vederlo per quello che era, ma solo e unicamente per quello che è diventato, incomprensibilmente e tuttavia inevitabilmente: nessun sentimento di ribellione, ma solo una dolente, accorata presa d’atto di una realtà contro cui sarebbe impensabile lottare.
Non c’è mai ribellione, nel mondo di Kafka, per la buona ragione che in nessuno dei personaggi che lo popolano vi è un elemento di certezza in fondo al proprio “io”, di una certezza capace di segnare la direzione da prendere, come l’ago della bussola indica la rotta ai naviganti, anche nelle peggiori tempeste nelle quali possono incappare.
Anche i personaggi apparentemente più dinamici e avventurosi, come il Lord Jim dell’omonimo romanzo di Conrad, sono colpiti dalla sindrome della insicurezza ontologica primaria: da uomini vigorosi e sicuri di sé, quali credevano di essere, eccoli trasformati, di colpo e per sempre, in mezzi uomini deboli e vili, costretti a portarsi dietro, per tutto il resto della loro vita, la vergogna della propria debolezza e la disperata aspirazione a un improbabile riscatto.
La loro insicurezza ontologica si spinge fino al dubbio riguardo alla propria identità culturale, sociale e perfino sessuale: valga per tutti il protagonista, o piuttosto la protagonista, del romanzo «Orlando»  di Virginia Wololf, che da uomo diventa donna “non si sa come”; la trasformazione avviene e basta, il lettore deve solo prenderne atto.
È significativo il fatto che possedere un  io diviso, nevrotico, costantemente minacciato di dissoluzione, rende più acutamente consapevoli del problema del male; tanto che il lettore moderno, i cui gusti sono ormai divenuti del tutto conformi a quelli degli autori contemporanei, non solo non troverebbe “credibile” né interessante un personaggio dotato di una forte sicurezza ontologica primaria, ma non lo troverebbe, forse, neppure “etico”, nel senso che gli apparirebbe scarsamente consapevole della gravità e dell’intensità del problema del male.
E questo perché, almeno a partire da «Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde» di Robert Louis Stevenson, sembra che solo un io diviso, lacerato, frammentato, possa cogliere adeguatamente il problema del bene e del male, ma soprattutto del male in tutta la sua pregnanza, proprio a causa della sua sensibilità esasperata e della sua estrema ricettività; mentre i drammi di Shakespeare, ad esempio, hanno per noi moderni un qualcosa di schematico, di grossolano, di poco approfondito, appunto perché rappresentano personaggi a tutto tondo, i quali, nel bene e nel male, non si scordano mai la propria identità e nessuna vicissitudine  pubblica o privata riesce a farla smarrire loro o anche solamente a farli dubitare di sé.
Al massimo, come Amleto, si chiedono se sia preferibile essere o non essere, vivere o morire; oppure, come il Calderon de «La vita è sogno», si domandando se, per caso, quella che noi crediamo la realtà vera, altro non sia che una illusione e un gioco dei sensi; però non mettono in dubbio il proprio “io”, a meno che impazziscano addirittura, cosa peraltro piuttosto rara: si pensi al «Diario di un pazzo» di Nikolaj Gogol’ che, da miserabile impiegatuccio, si crede diventato il re di Spagna e finisce miseramente al manicomio, con tutti i suoi patetici sogni di grandezza, di potere e, soprattutto, di amore ricambiato.
Il lettore moderno, figlio di quella stessa nevrosi e di quella stessa alienazione che ha prodotto il signor K. di Kafka, l’Uomo senza Qualità di Musil o l’Inetto di Svevo, rimane ammirato davanti al modo in cui questi personaggi percepiscono l‘esistenza del male nel mondo, mentre trovano freddino il contegno di Amleto, di Macbeth o di Prospero: per quanto le passioni possano agitare questi ultimi e perfino travolgerli, essi non perdono mai del tutto il controllo del proprio io, la consapevolezza di avere un io sano e robusto.
Ha osservato il critico letterario Lionel Trilling, nel suo pregevole saggio «The Opposing Self» (Londra, Secker & Warburg1955, citato in R. D. Laing, «L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale»; titolo originale: «The Divided Self», Londra, Travistock Publications Limited, 1959; traduzione italiana di David Mezzacapa, Torino, Einaudi, 1969, p. 48):

«… per Keats la consapevolezza del male esiste accanto a un senso fortissimo di identità personale, e per questo motivo è meno immediatamente apparente, ad alcuni lettori contemporanei potrà sembrare, per lo stesso motivo, anche meno intensa. Allo stesso modo può apparire a un lettore contemporaneo che, se confrontiamo Shakespeare e Kafka trascurando le differenze di statura, e consideriamo entrambi come interpreti della sofferenza e della alienazione cosmica dell’uomo, sia l’esposizione di Kafka quella più intensa e completa. E in realtà può anche darsi che si tratti di una valutazione giusta, proprio perché in Kafka il senso del male non è contraddetto dal senso dell’identità personale. Il mondo di Shakespeare, non meno di quello di Kafka, è quella prigione con cui Pascal definisce il mondo, dalla quale ogni giorno i condannati vengono condotti a morire; non meno di Kafka, Shakespeare ci costringe a vedere la crudele irrazionalità della condizione umana, la vita come un racconto detto da un idiota, gli dèi puerili che ci torturano non per punizione, ma per divertirsi; non meno di Kafka, Shakespeare si sente rivoltare al fetore della origine, ché nulla è in lui più caratteristico delle sue immagini di disgusto. Ma nella cella di Shakespeare, in quale miglior compagnia ci si trova! I capitani e i re, gli amanti e i buffoni di Shakespeare sono vivi e completi fino all’ora della morte. Ma in Kafka qualcosa di terribile è stato fatto ai condannati già molto tempo prima che a sentenza venga eseguita, anzi molto tempo prima che si istituisca il maligno processo. E sappiamo tutti di che si tratta. Essi sono stati spogliati di tutto quello che si addice all’uomo, tranne la sua astratta umanità, che però, come i loro scheletri, non gli si addice mai del tutto. Sono senza parenti, senza casa, senza moglie o figli, senza impegno o appetito; sono a loro estranei il potere, la bellezza, l’amore, l’ingegno, il coraggio, la lealtà, la fama; e il senso di orgoglio che si prova nel possedere queste cose. Così che possiamo dire che la conoscenza del male esiste in Kafka senza la conoscenza, con essa contrastante, dell’io nella sua saldezza e validità; mentre in Shakespeare la conoscenza del male esiste accanto a questo contrasto, espresso l più fortemente possibile.»

Il che significa, osserva Robert Laing, che il dramma dell’uomo moderno è quello di essere in vita senza però sentirsi realmente vivo; anzi, aggiungiamo noi, sentendosi morto e solo talvolta, per uno strano scherzo o capriccio del destino, restituito alla vita più o meno come un morto che si ridesta e che torna a far visita ai luoghi e alle persone che aveva frequentato da vivo, ma come se una barriera invisibile, e tuttavia insormontabile, lo separasse da loro: viene in mente, per esempio, il dramma di Henrik Ibsen «Quando noi morti ci destiamo», che è un po’ la “summa” dell’intera riflessione antropologica del grande drammaturgo norvegese.
E la stessa riflessione che abbiamo fatto per la letteratura e per il teatro, si può estendere, a maggior ragione, all’arte moderna per eccellenza, il cinema; per non parlare della pittura, della scultura, dell’architettura e della musica: ovunque vediamo un io non solo travagliato da dubbi e incertezze, ma, soprattutto, in crisi di identità, incerto di se stesso.
C’è qualche lezione, qualche utile insegnamento, qualche spiraglio di speranza o qualche fattore positivo su cui far leva, per uscire da un tale vicolo cieco, per restituire all’uomo moderno un minimo di sicurezza in se stesso e di fiducia nella solidità ontologica del suo essere?
Crediamo di sì, e per una ragione niente affatto sentimentale, ma oggettiva. Così come il malato che supera la propria malattia e guarisce, sviluppa, con ciò stesso, gli anticorpi che lo renderanno, per l’avvenire, più forte e resistente, allo stesso modo l’uomo moderno, che è passato non solo attraverso la nietzschiana “morte di Dio”, ma anche attraverso la kafkiana dissoluzione del suo stesso io, si vede offrire, per ciò stesso, una riconquistata fiducia nell’uno e nell’altro, non più sulla base di una fede “ingenua” (paragonabile all’inconsapevolezza della persona sana che non ha mai conosciuto la malattia), ma su quella, sofferta e perciò tanto più conquistata con uno sforzo personale, di una più vasta e profonda coscienza del mistero che si cela al fondo della cosiddetta “realtà” visibile ed esperibile mediante i sensi e la ragione.
Forse era necessario giungere a toccare il fondo, percorrere sino all’ultimo stadio il cammino verso la disintegrazione dell’io, per poter risalire la china con una ritrovata sicurezza ontologica primaria; sicurezza, si badi, che non è rivolta all’io in se stesso (e lasciando, quindi, impregiudicata la definizione del suo statuto ontologico, che potrebbe anche essere molteplice o, addirittura, illusorio), ma alla certezza del proprio io, che è cosa ben diversa.
In altre parole, non è essenziale avere la conferma inconfutabile che, sepolto nel giardino di casa nostra, giaccia un tesoro d’incalcolabile valore; è essenziale, invece, che noi lo crediamo fermamente; perché, a quel punto, il tesoro esisterà realmente, se non sottoterra, nel profondo di noi stessi: il tesoro della nostra fede, della nostra speranza, il tesoro che è tutt’uno con la nostra anima.