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L'arte blasfema arriva nel terzo mondo

di Valerio Zecchini - 19/09/2011

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L’ultimo pamphlet di Jean Clair, “L’hiver de la culture” (Flammarion-in uscita in Italia a novembre presso Skira, probabilmente con lo stesso titolo, L’inverno della cultura), sta mettendo a soqquadro le certezze del mondo artistico occidentale. Le furiose polemiche che ha suscitato sono dovute al suo attacco frontale contro la “degenerazione  contemporanea”, terminologia che inevitabilmente fa venire in mente “l’arte degenerata” sradicata dal nazionalsocialismo nella Germania degli anni trenta con una formidabile repressione che costrinse all’esilio centinaia di artisti.

A quel tempo pero’ le avanguardie oggi definite “storiche” erano ancora giovani e lottavano per un minimo di visibilita’ pubblica, ora gli eredi di quei movimenti sono al potere da decenni nelle istituzioni artistiche e nel mercato – basti pensare che un’opera di Jeff Koons puo’ essere quotata ben di piu’ che una del Mantegna. “L’hiver de la culture” e’ la quarta e ultima parte di quella che potremmo definire come una cronaca dell’indignazione di Jean Clair: iniziata nel 1989 con “Critica della modernita’” e proseguita nel 2004 con “De immundo” e nel 2007 con “La crisi dei musei”; sono i paragrafi di un discorso teorico d’impronta conservatrice,sostenuto da una forte tensione etica. “L’atteggiamento reazionario e’ piu’ utile di ogni illusione di progresso”, ci dice Clair – ma se e’ senz’altro vero che il moralismo progressista si rivela sempre una perdita di tempo e di energie, da parte nostra continuiamo a ritenere valido l’orientamento di Filippo Tommaso Marinetti: conservatore in politica, rivoluzionario nell’arte. Marinetti, deus ex machina di tutte le avanguardie, negli anni trenta si batte’ strenuamente, “dall’interno”, contro la repressione dell’arte degenerata. Se e’ vero che le avanguardie hanno esaurito la loro missione e il nuovo fine a se’ stesso ha stancato, cosi’ come la sperimentazione col brutto e con l’informe, e’ altrettanto vero che esistono territori ancora inesplorati della creativita’, a causa delle gabbie mentali imposte dal politically correct imperante negli ultimi decenni.

Tuttavia, le tesi di Clair hanno fatto breccia e cio’ sara’ comunque salutare per un ambiente inaridito dalle sue fragili certezze – ma hanno fatto breccia perche’ non stiamo parlando di un populista qualsiasi, bensi' di un intellettuale dal prestigio solidissimo, che puo’ permettersi di fregarsene delle mode e del gusto corrente: gia’ direttore del Museo Picasso di Parigi e conservatore del Patrimonio di Francia, direttore della biennale di Venezia del centenario, membro dell’ Academie Francaise. La visione del mondo di Clair e’ simile a quella dell’Oswald Spengler de “Il tramonto dell’Occidente”, anzi ne e’ quasi un aggiornamento: egli vede ovunque mercificazione, omologazione culturale e livellamento estetico, e l’arte ridotta a intrattenimento e strategia di marketing. Vuole ristabilire la gerarchia tra cultura alta e cultura pop, tra arti maggiori e arti minori – un bel passo indietro rispetto alla rivendicazione futurista (oggi realizzata) della pari dignita’ di ogni disciplina artistica. L’ovvia conclusione delle teorizzazioni di Clair e’: ritorno alla figurazione, all’emozione mistica, a canoni di bellezza classica. Nel respingere la contemporaneita’ in toto, egli fa di ogni erba un fascio, non salva praticamente niente e nessuno – ma come si fa ad accomunare impostori come Orlan o Jeff Koons a veri e propri giganti come Bill Viola o Mariko Mori? Quest’ultima ad esempio, nelle sue opere e’ riuscita a realizzare, con tecnica impeccabile, una sintesi sublime tra spiritualita’ buddista e sensibilita’ pop.

Il discorso sul mercantilismo e sulla mercificazione e’ invece piu’ vasto e complesso e va ben al di la’ dei confini dell’estetica; in un mondo che tende a mercificare qualsiasi cosa, a cominciare dai rapporti umani, perche’ Clair pensa che l’arte dovrebbe essere immune da tutto cio’?

Nel frattempo, dall’altra parte del globo,e’ accaduto nelle settimane scorse un episodio che di tale mercificazione totale e’ triste testimonianza. In una mostra collettiva al Centro culturale delle Filippine di Manila (massima istituzione artistica del paese) vengono esposte alcune opere del sedicente artista Mideo Cruz – Cruz significa croce, e in questo caso il cognome e’ tutto un programma. Sono lavori orribili, sprovvisti di ogni ambiguita’ poetica; raffazzonati collages dove, in mezzo a parafernalia varia di derivazione pop, ci sono immagini di Cristo a cui e’ sovrapposto un fallo di legno, oppure rosari appesi a casaccio, o ancora Cristo agghindato con un naso da clown e orecchie da Mickey Mouse.

Ora, sesso e religione sono talmente intrecciati nella nostra storia da poter dire che l’uno ha nutrito l’altra e viceversa; poi, l’arte estrema degli ultimi decenni in Occidente e’ spesso sfociata nella blasfemia piu’ o meno volontaria (il caso piu’ famoso e’ quello di Serrano) e in passato quanti grandi artisti, da Bunuel  a Scorsese a Pasolini, sono stati ingiustamente accusati di blasfemia? Schiere di critici ne difendevano l’operato, contro la censura, sicuri del valore artistico dell’opera e in nome della liberta’ di espressione. Ma qui ci troviamo di fronte a un caso indifendibile da tutti i punti di vista, qui non vale neanche il motto di Bunuel “l’immaginazione e’ sempre innocente” – motto che presupponeva il fatto che chi si accinge alla creazione artistica e’ sempre mosso dalla buona fede.Oggi no, oggi puo’ essere spinto semplicemente dall’obbiettivo dei “quindici minuti di fama per tutti” di warholiana memoria, che sembrano essere diventati una sorta di diritto civile rivendicabile da chiunque. Comunque, il trucchetto ha funzionato, e su scala globale: gli attivisti cattolici (nelle Filippine l’ottantacinque per cento della popolazione e’ cattolico) hanno presentato un denuncia, successivamente due persone hanno cercato di dar fuoc alle opere, la senatrice Imelda Marcos, vedova dell’ex dittatore, ha visitato la mostra e ha gridato: “E’ una vergogna!”. L’impostore Cruz si e’ difeso con ridicole dichiarazioni anticlericali da quattro soldi: “Volevo parlare dell’idolatria e della decostruzione delle divinita’”. Dopo l’intervento di dura condanna del presidente Benigno Aquino, gli organizzatori hanno gettato la spugna e l’esposizione e’ stata chiusa al pubblico. Ma l’esposizione mediatica era appena iniziata: l’autorevole quotidiano “The philippine enquirer” ha difeso Cruz con motivazioni superficiali e pretestuose, tirando in causa il passato coloniale: “Queste rappresentazioni della croce e di   Gesu’ sono anche un modo di evocare il passato di una nazione dominata per quattro secoli dalla Spagna e dai preti cattolici conservatori”. La vicenda e’ poi stata raccontata da tutti i media asiatici e poi da quelli europei. “Le monde” ad esempio ha ripreso la notizia con toni tutto sommato neutrali. Ed e’ proprio questo che disgusta: l’aver registrato tutto cio’ come se rientrasse nella piu’ assoluta normalita’ – l’omologazione culturale che ossessionava l’ultimo Pasolini ora e’ veramente globale. E quel che e’ piu’ grave, tutto cio’ avviene mentre dalla scena artistica filippina, come nel resto del sud-est asiatico, stanno emergendo talenti straordinari come Yasmin Sison-Ching, Danny Garcia, Alfredo Esquillo Jr.(quest’ultimo in particolare si caratterizza proprio per l’intensa spiritualita’ dei suoi lavori a sfondo religioso che si inscrivono nella grande tradizione dei retablos spagnoli). Ma probabilmente il grande pubblico, informato da media che hanno perso ogni senso critico e che fanno della superficialita’ il loro credo, non li conoscera’ mai – conoscera’ invece loschi e furbi personaggi che hanno capito benissimo come sfruttare a loro vantaggio i meccanismi mediatici del politically correct.

VALERIO ZECCHINI