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Cosa spinge le donne a innamorarsi di un prete?

di Francesco Lamendola - 20/09/2011





Molte donne s’innamorano di uomini di Chiesa, specialmente preti; e ciò era ancor più frequente prima che una ventata di laicismo investisse la Chiesa medesima e togliesse ai sacerdoti una buona parte di quell’aura sacrale che, prima, li distingueva così nettamente dal mondo profano, a cominciare dalla veste nera che indossavano, lunga fino ai piedi.
Noi stessi ne conosciamo personalmente che hanno perso la testa per un prete, sin da giovani, ma già sposate e con figli: e, per quanta responsabilità possano avere certi sacerdoti nell’incoraggiare, con imprudenza o con malizia, una eccessiva familiarità da parte delle loro parrocchiane, è innegabile che, spesso, sono queste ultime a fare quasi tutto.
Parliamo non solo di attempate beghine e di sfiorite zitellone, ma anche di gran belle ragazze le quali, volendo, potrebbero avere ai loro piedi uno stuolo di pretendenti e che, di fatto, quello stuolo ce l’hanno realmente; eppure esse non degnano di alcuna attenzione tutti quei baldi giovanotti e puntano invece ogni loro interesse verso l’uomo di Dio, non a dispetto della sua condizione di sacerdote, ma, secondo ogni verosimiglianza, precisamente a causa di essa.
Come si spiega una cosa del genere?
La spiegazione più facile, ma anche più banale, è che, se l’amore è una passione misteriosa e incontrollabile (ma che sia incontrollabile è tutto da vedere, questo lo dice la cultura moderna; misteriosa, invece, lo è di certo, peraltro non come sinonimo di incontrollabile), allora non deve fare meraviglia che una donna si possa innamorare di un sacerdote o magari di un frate; così come non dovrebbe suscitare stupore che ella possa innamorarsi di qualunque altra categoria di uomini “sbagliati”, dal soldato nemico in tempo di guerra, al nano e all’invalido, all’ubriacone, al delinquente, al violento, persino allo sfruttatore della prostituzione, che alla fine sbatterà lei stessa sul marciapiede, come suprema “prova d’amore” verso di lui.
Spiegazione banale, abbiamo detto, e decisamente troppo facile: perché ha il non live inconveniente di non spiegare un bel nulla, ma di ipotizzare soltanto, in base a un presupposto non dimostrato, che a questo mondo tutto può succedere e che l’alchimia dei sentimenti è talmente bizzarra e imprevedibile, che può accadere ad ogni istante qualunque cosa ed il suo esatto contraria, con perfetta indifferenza, come se gli esseri umani fosse nient’altro che delle marionette disarticolate manovrate da un burattinaio pazzo o qualcosa del genere; tesi,  peraltro, cara a tanta parte della cultura moderna, specialmente a partire da Pirandello.
Una spiegazione un po’ meno generica, ma quasi altrettanto banale, è quella che vorrebbe la donna gelosa dell’amore per Dio dell’uomo e, pertanto, desiderosa di strappare quest’ultimo a Lui, così da mettere alla prova la propria irresistibilità fascinatrice e da offrire una nuova conferma e una ulteriore gratificazione al narcisismo del proprio Ego ipertrofico.
Questa spiegazione è banale perché non scava, non approfondisce il dinamismo della psicologia femminile, ma tende a collocarla su di un piano di immobile astrattezza; sarebbe già più interessante se si spingesse ad ipotizzare, dietro questo bisogno compulsivo di sedurre, una struttura della personalità fondamentalmente fragile, anzi fragilissima, quale movente originario di esso: infatti, perché mai una persona sicura di sé e psicologicamente equilibrata dovrebbe sentirsi sminuita e minacciata dal fatto che una piccola percentuale di individui appartenenti all’altro sesso facciano voto di dedicare la propria vita a un Altro, che non è di questo mondo?
A nostro avviso, una ipotesi di lavoro più interessante è quella secondo cui la donna vede inconsciamente nell’uomo che si consacra a Dio un padre fedifrago, che ella ha il dovere di riportare ai suoi doveri: come il padre egli è austero, autorevole e amorevole (nel doppio significato di amante e amato), ma è fedifrago perché, dopo averla illusa della sua speciale attenzione, la pianta in asso per rivolgersi Altrove e si comporta come un padre che abbandoni la legittima consorte e la prole, figliolette comprese (con le quali si identifica la donna).
Questa ipotesi ha il vantaggio di presentarsi come un caso particolare di una dinamica ben nota agli psicologi, l’ansia di redentrice che pervade la psiche femminile e che spiega, ad esempio, come certe donne, belle, intelligenti, sensibili, rovinino testardamente la loro vita nella impossibile missione di “redimere” e riportare sulla retta via uomini violenti, criminali, spacciatori di droga, oppure semplicemente uomini stupidi e rozzi, nei quali, chissà perché, esse hanno visto la Bestia da “salvare” e trasformare in Principe Azzurro (identificandosi, va da sé, nella parte della Bella della celebre favola).
Questa sindrome - perché di una vera e propria sindrome patologica si tratta - nasce, ancora una volta, dalla fragilità della propria struttura originaria e dal bisogno compulsivo di far vedere agli altri ed a se stesse quanto si è brave: perché, se si riuscirà a condurre a termine una missione palesemente impossibile, allora  non vi saranno più dubbi di sorta sul fatto di essere delle persone assolutamente eccezionali e degne di ogni ammirazione.
Peccato che tali tentativi finiscano regolarmente con dei clamorosi fallimenti, con delle amare sofferenze e, non di rado, con la caduta delle improvvide “salvatrici” nella voragine senza fondo delle sindromi ansiose e depressive, con il corollario del ricorso ad abbondanti supporti di psicofarmaci per salvare almeno il salvabile.
Una spiegazione collaterale a quella ora avanzata, e tale da potersi integrare con essa, è quella secondo cui la donna non trova interessante e affascinante l’uomo che tale le appare, semplicemente ascoltando la voce della mente e del cuore, bensì l’uomo che è difficilmente raggiungibile e che presenta la doppia attrattiva di essere quasi certamente desiderato da chissà quante altre donne (ciò che aumenta, automaticamente, il suo valore come oggetto del desiderio) e di essere molto probabilmente vergine, circostanza che raddoppia lo stimolo erotico ed esalta la sensualità latente della donna, investendola di un ruolo materno non troppo vagamente incestuoso.
Una analisi psicologicamente notevole delle ragioni che spingono una donna ad innamorarsi di un prete è stata svolta dalla scrittrice belga Béatrix Beck, nell’ultimo romanzo della sua trilogia incentrata sulla figura autobiografica di Barny, una giovane vedova con una figlia da mantenere: «Léon Morin, prete», vincitore del Prix Goncourt nel 1952. Da esso è stato tratto anche un film, nel 1961, per la regia di Jean-Pierre Melville, efficacemente interpretato da un insolito Jean-Paul Belmondo e da Emmanuelle Riva.
La vicenda acquista un particolare rilievo emotivo sia dal fatto che Barny, a causa dei suoi drammi personali, aveva perduto la fede ed era entrata un giorno in chiesa solo per sfidare il confessore, trovandosi però alle prese con una specie di giovane prete operaio, Morin, che subito la prende in simpatia ed inizia a sostenerla, prestandole dei libri e cercando di riavvicinarla a Dio; sia dal fatto che la vicenda si svolge durante la seconda guerra mondiale, a Besançon, nella Francia occupata prima dagli Italiani, poi dai Tedeschi,  
Vale la pena di riportare il brano in cui Béatrix Beck descrive il momento cruciale del rapporto fra Léon Morin e la protagonista, che parla di sé in prima persona ed è la voce narrante del romanzo: il momento in cui ella, travolta dall’amore per il giovane sacerdote, sogna di fare all’amore con lui e glielo dichiara apertamente, ma ne ottiene un deciso, anche se umano, rifiuto (da: «Léon Morin, prete», traduzione di Lalla Romano dall’originale francese «Léon Morin, prête», Milano, Longanesi & C., 1962, pp. 297-99):

«… Morin, che stava per andarsene, aprì il libro e acconsentì a sedersi accanto a me, davanti al tavolo, per parlarmene un po’. Ascoltavo con attenzione le sue spiegazioni, ma avveniva uno strano fenomeno: non solo non comprendevo il senso delle sue frasi, ma inoltre ciascuna delle parole, presa per sé colpiva i miei timpani come un suono musicale, senza alcun rapporto col linguaggio. Attraverso il muro, vedevo con una cocente nitidezza  la camera preparata, il letto fiorito di convolvoli. La fronte mi si coperse di sudore. Morin disse malizioso: “Oh, come fa caldo!”.
Lui, con la sua livrea nera e il suo alto colletto rigido, sembrava immerso nella frescura, mentre io, nuda sotto la mia camicetta di tela, ero immersa in un bagno doloroso. Ebbi l’impressione che Morin m’interpellasse come da un’altra riva. Infissi la punta del coltello nel legno grezzo del tavolo. Morin me lo prese di mano, col manico mi picchiò sulle dita e lo ripose nel cassetto. Aprì il libro, coll’indice mi indicò alcune righe. Io vedevo ogni lettera distintamente: era un piccolo disegno, un piccolo personaggio che riconoscevo, ma di cui non sapevo più il nome. La chiave della lettura era perduta. Mi battevano forte i denti. Tentavo inutilmente di tenerli stretti.  Vedevo noi dall’altra parte del muro. Dio, esaudisci il mio desiderio, una sola, un’unica volta, e poi sia benedetto il tormento eterno.
La tentazione non esiste. Esser tentati sarebbe allora bramare ciò che si riconoscerebbe come cattivo.  Sarebbe pazzia. Per il fatto stesso che io desideravo , il mio desiderio mi appariva buono. Il mio desiderio ed io eravamo una cosa sola. Ironico risultato! Il mio spirito non aveva mai potuto darmi la semplicità che Morin tanto raccomandava, e il mio sangue vi riusciva con la velocità del lampo!
Morin sollevò il braccio, la sua manica nera si abbassò, scoprendo una manica di camicia azzurra, laica. “Tutto è possibile”, pensai. Il mio braccio si tese verso Morin, lo chiamai: “Vieni”.
Si gettò all’indietro. La mia mano non incontrò che il vuoto. Lui si alzò, in tre passi fu davanti alla porta.  Con una parola, avevo distrutto il mio universo.  Tutti i miei sforzi verso la vita cristiana sboccavano in quel grido animale. Morin era ritornato sui suoi passi, con un aspetto così inesorabile che io mi dissi. “Adesso mi ammazza”. Chiusi gli occhi, e udii la sua voce consolatrice:
“Non era più la signorina Sabine, adesso. Meno male, così va già meglio”.
“Guardate la gente, quando vi si parla”, mi chiese dopo un istante di silenzio.
Il suo volto aveva un’espressione da contadino, astuta. Disse: ”Se soltanto chiamaste Dio come chiamate il maschio. Questo è pregare”.
“Non verrete più”, feci io, come se constatassi un fatto.
“Rispose deciso: “Certo che sì, perché no?”, e, scherzando: “Non discuterò più con voi dell’ipostasi, mi mancherebbe”.
Era di nuovo davanti alla porta, con la mano sulla maniglia, e si rivolse ancora una volta verso di me:
“Bisognerà che vi confessiate”.
“No, protestai. “Dire questo a qualcuno!”
Mori propose con dolcezza: “Se è a me che lo dite, visto ce lo so già…
“A voi!”, ribattei con terrore, e senza riuscire a frenare le lacrime. “A voi!”
“Anche per me è una schiavitù confessarmi, ma ci vado lo stesso, e anche sovente”.
Ribattei con ironia e con collera: “Ci andate lo sesso, e anche sovente! Voi, voi non fate mai dei peccati, perciò vi è da credere che vi accusiate di quelli degli altri!”
“Certi colpi vanno a vuoto”, disse Morin. “Verrete questa sera, vero? Dopo le cinque e mezzo. Vi aspetterò quanto sarà necessario.
“Deve ritornare mia figlia da scuola”.
“Verrete con lei, confesserò anche lei”.
Se ne andò lanciandomi un: “Arrivederci! A presto!.
Lo sentii scendere i gradini a quattro a quattro. Sentivo Dio come un’infinita assenza, un vuoto impossibile da colmare, una carenza, un sovrano sordomutismo. L’ateismo sarebbe stato più sopportabile. Mi lavai la faccia. La mia anima mi faceva l’impressione d’una casa chiusa.»

È notevole il fatto che questo brano sia stato concepito da una donna e non da un uomo, perché in esso traspaiono, per così dire dall’intermo, i moti dell’animo della protagonista, con accenti di verità che, altrimenti, sarebbero stati sostanzialmente artefatti.
Al di là della dimensione autobiografica della vicenda, che a noi non interessa, qui si vede la mente di una donna che osserva lucidamente quel che avviene nell’animo femminile allorché si producono quelle tali circostanze: ed è una analisi lucida e sobria, senza veli e senza inganni.
Crediamo che essa valga più di un intero trattato di psicologia teorica, perché vi si riconoscono gli accenti di una verità immediata, che è stata personalmente sperimentata e - quel che è più raro - riconosciuta con rara onestà.