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Voler rifare il mondo secondo il proprio modello, ecco il delirio di onnipotenza dell’Idealismo

di Francesco Lamendola - 21/09/2011




La pretesa di voler rifare il modo, di voler rifare l’umanità secondo la propria idea è una caratteristica delle filosofie moderne: né il pensiero greco, né quello medievale si sono mai sognati una cosa del genere.
Neppure il pensiero del Rinascimento aveva mai accarezzato una simile ambizione, dato che utopie come quella di Tommaso Moro o di Tommaso Campanella rientrano, appunto, nel genere delle utopie e derivano dalla tradizione della «Repubblica» di Platone.
Il primo pensatore che segna una rottura con la speculazione contemplativa del passato e che apertamente rivendica per i filosofi il compito di cambiare il mondo è Sir Francis Bacon, la cui «Nuova Atlantide» non si pone affatto nella linea delle utopie teoriche, ma prefigura una radicale trasformazione della società ad opera della scienza del XVII secolo (l’opera fu scritta nel 1626 e pubblicata postuma nel 1627).
Nel “Secolo dei Lumi” questa tendenza si sviluppa sempre di più e, posta al servizio della nuova ideologia del Progresso illimitato, diviene la principale caratteristica della filosofia “illuminata”: bisogna rifare il mondo, bisogna rifare l’umanità; il passato è il male, perché dominato dalle tenebre dell’ignoranza, della superstizione e del fanatismo, il futuro vedrà l’alba radiosa di una nuova epoca, resa felice dall’uso della Ragione.
Questo schema è abbastanza noto e non metterebbe conto di insistervi ulteriormente, se non fosse per un dettaglio: fino ad ora si è troppo guardato agli elementi di discontinuità tra le filosofie del XIX secolo e quelle del XVIII e, in particolare, tra l’Idealismo tedesco e l’Illuminismo, presentando il primo come la tipica espressione speculativa del Romanticismo e, quindi, come una “reazione”, o addirittura come una “rivolta”, contro il secondo.
Ebbene, a noi sembra che uno sguardo un po’ più attento, in particolar modo per la filosofia politica dell’Idealismo, dovrebbe mostrare “ad abundantiam” quanto essa altro non sia che una ripresa, un ampliamento e, se possibile, una esasperazione di quella illumimista: le stese parole d’ordine - libertà e uguaglianza -; la stessa prospettiva generale: l’individuo proteso alla realizzazione di un mondo migliore; la stessa pretesa di porsi come una nuova religione di salvezza: il nuovo credo è espressione del progresso e quindi è il Bene, ciò che vi si oppone o che non vi si riconosce pienamente appartiene al passato e quindi è il Male.
Sia Fichte che Schelling, in particolare, precorrono temi tipici dell’anarchismo allorché sostengono che lo Stato, qualunque Stato, per sua natura non può essere che “meccanico” e, quindi, tirannico nei confronti dell’individuo; e che, pertanto, appena sarà stata edificata la nuova umanità, non vi sarà più alcun bisogno dello Stato ed esso scomparirà, si estinguerà da solo. Sembra di leggere Bakunin o il giovane Marx, con qualche decennio di anticipo…
Addirittura, nel diverso orientamento specifico di Fichte e Schelling circa l’estinzione dello Stato, sembra di leggere, in anticipo, il contrasto fra Marx e Bakunin: per Fichte lo Stato, prima di estinguersi, deve forgiare gli uomini nuovi, che non avranno più bisogno di esso; per Schelling, sono questi ultimi che, giunti alla consapevolezza, non avranno più bisogno dello Stato, che in nessun caso potrebbe svolgere un ruolo positivo, essendo brutale e repressivo per sua natura e, quindi, non ci si può aspettare proprio da esso che plasmi l’umanità emancipata.
Ad ogni modo, quando Marx sostiene (nella XI tesi su Feuerbach) che la filosofia, fino al suo tempo, si era limitata a interpretare il mondo, mentre adesso è giunto il tempo che essa lo cambi,  non fa che ripetere, con altre parole, ciò che i filosofi dei “Lumi” andavano dicendo da circa un secolo, in Francia e altrove; e che gli esponenti dell’Idealismo avevano ripreso e ripetuto anch’essi, con pochissima originalità rispetto ai loro predecessori.
Il concetto è sempre lo stesso: ignoranza e superstizione da un lato, mancanza di libertà ed uguaglianza dall’altro, rendono l’umanità schiava ed abbrutita: venga quest’ultima liberata dalle prime e le siano date le seconde, e diverrà talmente matura ed evoluta, da non avere più nemmeno bisogno di una autorità statale, ma si governerà da se stessa, senza re né sacerdoti.
L’idea di “rifare l’umanità”, dunque, è tutt’altro che nuova quando Fichte, Hegel e Schelling cominciano a proclamarne l’impellente necessità, dapprima all’ombra del tricolore francese e al seguito delle parole d’ordine rivoluzionarie; poi nel nome del ”sacro” patriottismo tedesco e contro quello stesso tricolore e quella stessa rivoluzione, a maggior gloria del Regno di Prussia che, come lo stesso Hegel esplicitamente dichiara, altro non è che il punto d’arrivo di tutto il processo storico universale.
Altro che abolizione dello Stato: viene celebrato come l’incarnazione dello Spirito Assoluto proprio il più militarista, il più repressivo, il più aggressivo di tutti gli Stati europei dell’epoca, con la sola eccezione della Russia zarista.
Scriveva Pasquale Salvucci nel suo saggio «Filosofia e vita nel primo idealismo tedesco» (Urbino, Argalìa Editore, 1981, pp. 49-51):

«Schelling aveva informato Hegel di lavorare intorno ad una “etica [che] deve porre i più alti princìpi di ogni filosofia nei quali si unificano la ragione teoretica e la pratica” (a Hgel, 6 gennaio 1795, in “Briefe von und an Hegel,  Bd. I, p. 14). Una tale etica non sarà che “un compiuto sistema di tutte le idee o, che è lo stesso, di tutti i postulati pratici […]. Quale sarà la prima di queste idee? “La  rappresentazione di me stesso come di UN ESSRE ASSOLUTAMENTE LIBERO. Insieme con il mio “libero essere autocosciente, irrompe - dal nulla - un intero mondo”. Il filosofo è “eminenter” un produttore di idee, mentre l’esperienza fornisce i dati. Nel suo programma sistematico, l’idealismo (la nuova filosofia) produce UNA IDEA NUOVA DI UMANITÀ, a partire dal quale esso può porsi come critica dell’esistente (la situazione storicamente determinata dell’umanità, le istituzioni politiche…) nella misura in cui l’esistente non è conforme a questa nuova idea. Per vivere in modo conforme alla propria essenza, quale viene svelata dalla nuova filosofia, l’umanità non può che liberarsi dalla condizione nella quale si trova ORA (asservita, mortificata) e lottare per realizzare una condizione radicalmente diversa e nuova, nella quale gli uomini (tutti gli uomini) non saranno più divisi, ma interi, “uguali e liberi”, potendo finalmente sviluppare, in modo onnilaterale, tutte le loro facoltà che ORA sono largamente bloccate nel loro sviluppo o distorte. La presenza di Schiller è qui fortissima: di un filosofo che come è noto, si era largamente esercitato sull’opera di Ferguson, durissimo critico dell’alienazione dell’uomo nella società moderna (qui “il carattere umano è smembrato”). Ciò spiega perché Schiller aveva potuto registrare che l’uomo moderno è “una copia della sua occupazione o della scienza cui attende” (Schiller, “Lettere sulla educazione estetica dell’uomo”, 1794, it. It. La Nuova Italia, Firenze, 1970, pp. 19-20).
La responsabilità nella quale si trova l’umanità nel mondo moderno è, per Schelling, da ricondurre ANCHE alla stessa organizzazione politica. Sembrerebbe, allora, che si debba progettare l’idea di uno Stato diverso e lottare per la sua realizzazione. Niente di tutto questo in Schelling.  Se si può produrre (l’idealismo fa proprio ciò) una nuova idea di umanità, riguardo allo Stato questa possibilità viene radicalmente esclusa.”Non c’è una idea dello Stato, perché lo Stato è [sempre] qualcosa di meccanico” (Schelling, Op. cit., p. 250). È l’idea di umanità (la nuova, s’intende)  che consente di procedere “oltre lo Stato”. Non si può produrre (né, quindi, c’è) una idea dello Stato, perché lo Stato è “qua talis” sempre, e inesorabilmente, meccanico e oppressivo. Schelling assolutizza un aspetto che indubbiamente segna sempre, in qualche misura, lo Stato fin tanto che c’è, ma che non ne esaurisce la struttura. Non si può, per Schelling, produrre l’idea di uno Stato conforme alla libertà-ragione, l’idea, dunque, di uno Sato che non sia né meccanico né oppressivo, perché lo Stato possiede sempre, e inevitabilmente, il volto brutalizzante della costrizione. Esso è sempre un meccanismo negatore, e non solo in qualche misura, della libertà. Lo Stato (per Schelling, ogni Stato) è l’esatto contrario di ciò che la nuova idea di umanità progetta PER gli uomini: una condizione finalmente di LIBERTÀ e di UGUAGLIANZA concreta di tutti. Ecco perché il compito è, per Schelling, quello di “porci oltre lo Stato”. Lo Stato, ogni Stato “non può che trattare i liberi uomini come ruote di un ingranaggio meccanico, e questo non deve avvenire”. Lo Stato, dunque “deve scomparire”, perché fin tanto che c’è, per quanto voglia cercare di razionalizzare la sua azione, non può che considerare gli uomini come ruote di quel meccanismo che esso, inevitabilmente, è. Lo Stato, ogni Stato, deve cessare di esistere, perché esso si porta sempre addosso questa struttura brutalizzante di meccanismo. La realizzazione di una umanità finalmente conciliata, nella quale tutti gli uomini siano liberi e uguali, passa attraverso la scomparsa dello Stato, di ogni Stato. Lo Stato è, per Schelling, il nemico più pericoloso, la presenza minacciosa che ostacola la realizzazione della nuova idea di umanità, mentre pesante è la sua responsabilità per la condizione di non libertà e di non uguaglianza nella quale l’umanità storicamente si trova ora. Non ci si lasci ingannare dalla presenza dell’immagine lessinghiano-fichtiana della estinzione dello Stato.  C’è un attacco neppure tanto implicito alla filosofia politica di Fichte. Anche Fichte progetta l’inevitabile estinzione dello Stato nel futuro, ma, si badi, non prima che esso (il nuovo Stato nato in Francia dall’azione rivoluzionaria, la Repubblica, che, per Fichte, è “il modello”) abbia assolto,  nel più o meno lungo periodo, il compito (per Fichte, indispensabile) di formare gli uomini alla libertà (“Kultur zur Freiheit”: una formazione che non è, per Fichte, realizzabile senza questa mediazione) (Fichte, S. W., Bd. VI, p. 99).
Per Fichte, una volta concretizzato questo scopo, nessuna costituzione politica sarà più necessaria per gli uomini, ormai “liberi e uguali”. La macchina-Stato (anche per Fichte, dunque, secondo un’immagine consueta a Kant e a Schiller, lo Stato è una macchina) “si fermerebbe […]. La legge universale della ragione UNIFICHEREBBE tutti gli uomini nella più completa UNANIMITÀ di sentimenti [non ci sarebbe, dunque, più neppure la lotta fra sentimenti] e nessuna altra legge [esterna, coercitiva] dovrebbe vegliare sulle loro azioni” (Fichte, S. W., Bd. VI, p. 102). Nella comunità finalmente conciliata, perché costituita da uomini “interamente”liberi e uguali”, lo stesso Stato fondato sulla libertà politica (lo Stato post-rivoluzionario), che - guidato da una idea diversa dell’umanità, non più considerata come indegna della libertà - avrebbe nel più o meno lungo periodo contribuito a realizzare storicamente la comunità conciliata e proprio mediante la sua azione politico-educativa, non avrebbe più nessuna funzione da compiere. LA MACCHINA SI FERMEREBBE.»

Non si può dire che l’analisi sia del tutto destituita di fondamento: la parcellizzazione della dimensione umana; l’alienazione, lo sradicamento, la riduzione dell’uomo a semplice rotella di un meccanismo impersonale e inesorabile; insomma quella che Hegel chiama la «coscienza infelice» dell’uomo: tutto questo corrispondeva a una realtà storica ben precisa e i filosofi post-idealisti, a cominciare da Kierkegaard, ne avrebbe fatto il punto di partenza della loro riflessione antropologica e morale.
È la diagnosi che appare quanto mai discutibile: ponendosi a rimorchio degli illuministi, anche gli idealisti incolpano soprattutto la “tirannide” e, in seconda istanza, lo Stato in quanto tale, in nome di una originaria bontà della natura umana; per cui, a ben guardare, più che l’avvento di una umanità radicalmente nuova essi propugnano una restaurazione dell’umanità nelle sue condizioni originarie e naturali, ennesima versione rivista e corretta, soltanto un po’ più strisciante, del mito russoiano del “buon selvaggio”; e sappiamo quanto anche il Superuomo predicato da Zarathustra sia debitore di questa concezione tipicamente illuminista.
Sfugge completamente, ai filosofi dell’Idealismo, la dimensione anti-umanistica della modernità: la celebrazione di un Progresso che, finendo per coincidere sempre più con la tecnica, toglie valore e dignità alla persona umana, per ridurre quest’ultima a misero elemento accessorio della macchina; sfugge loro che il culto della macchina altro non è che l’estensione, logica e inevitabile, del meccanicismo cartesiano e newtoniano; e che dietro Newton e dietro la religione del Progresso stanno in agguato «gli oscuri mulini satanici» di cui parla William Blake, ovvero un sistema di fabbrica che pretende di asservire il mondo intero per sfruttarne ogni risorsa e per sfruttare, contemporaneamente, l’uomo stesso, ridotto a bruta materia prima di tale trasformazione.
È notevole il fatto che l’impatto devastante della Rivoluzione industriale sulla natura e sulla condizione stessa dell’uomo esuli dalla riflessione di Fichte, Hegel e Schelling o vi trovi uno spazio molto marginale: ciascuno di essi è talmente assorbito nella titanica fatica di imporre al mondo le proprie categorie di pensiero, che non rimane loro il tempo e la volontà di chiedersi come la filosofia possa aiutare l’uomo a comprendere le cause del proprio asservimento.
Ciascuno di essi è convinto che la propria filosofia possa e debba produrre niente di meno che una nuova idea di umanità e che, pertanto, sia la realtà a doversi inchinare al proprio sforzo speculativo, non già quest’ultimo a doversi fare carico di comprenderla.
Più in generale, nella storia del pensiero si può osservare che ogni qualvolta si è preteso di imporre al reale di adeguarsi all’idea che gli uomini si fanno di come dovrebbe essere un mondo perfetto, la filosofia si trasforma in vuoto esercizio retorico o, peggio, nel volonteroso piffero che accompagna la marcia trionfale dei vincitori di turno: della Rivoluzione francese prima, della restaurazione poi, come appunto avviene nel caso degli idealisti tedeschi.
Ma di che cosa stupirsi, una volta mandata giù l’assurdità più grande di tutte, ovvero l’assioma fondamentale dell’Idealismo: che non è l’essere che crea il pensiero, ma il pensiero che crea l’essere, confondendo poi tutto in una indistinta identità?
La tesi e l’antitesi, poi, non che elidersi a vicenda, non si sa come, producono la tesi: e questa è la seconda assurdità.
La terza è che il processo del pensiero crea il Dio che si fa da se stesso e che finisce per coincidere con quel medesimo Stato che, in un primo tempo, era stato oggetto di tanta diffidenza e di tanta esecrazione: uno Stato Leviatano che è tutto e davanti al quale gli individui sono niente, debbono soltanto tacere e obbedire incondizionatamente.
Ma anche questa aberrazione finale ha una sua ben precisa logica.
Se il Dio che si fa altro non è che il divenire dello Spirito del mondo, ossia, in ultima analisi, la Ragione dell’uomo, di che cosa meravigliarsi se Hegel, il 5 febbraio 1807, scrivendo all’amico Niethammer, afferma di aver visto l’anima del mondo in carne ed ossa: l’imperatore Napoleone a cavallo, che esce in ricognizione dalla città di Jena?