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La solitudine di chi apre la strada non può essere capita da quanti vengono dietro

di Francesco Lamendola - 25/09/2011



Ci sono, come è noto, molti tipi di solitudine; ma, in sostanza, possiamo ridurli entro due grandi categorie: la solitudine volontaria e quella involontaria.
Della seconda non c’è molto da dire: è una maledizione, puramente e semplicemente: la persona che ne soffre, ha ventiquattro ore al giorno per tormentarsi con se stessa, per colpevolizzarsi, per sognare impossibili vie d’uscita.
La prima è più interessante, perché, come tutti gli atti liberi e le scelte intenzionali, non soggiace ad alcun destino o ad alcuna fatalità: vi si respira l’aria libera delle grandi altezze e può suscitare in noi ogni genere di sentimento, tranne la compassione.
È pur vero che non sempre le cose sono così chiare e definite: esiste una zona ambigua, di confine, in cui risulta difficile capire se ci si trova ancora sul terreno della solitudine volontaria o se non si è già penetrati nell’altro regno, quello della solitudine involontaria.
Ciò avviene, in particolare, quando si è in presenza di persone che vivono la propria vita interiore come una vocazione, come una chiamata alla quale non possono rispondere negativamente, perché possiedono un così alto concetto della vita stessa e un così forte senso del dovere, che non arrivano nemmeno a concepire che si possa rispondere con un diniego.
Se paragoniamo la vita a una marcia lunga e talvolta perigliosa attraverso terreni impervi, boschi e montagne inesplorati, in cui ogni scoperta viene fatta, per così dire, sulla propria pelle e pertanto viene pagata a caro prezzo, in termini di fatica e sofferenza, allora possiamo immaginare che non tutti gli esseri umani la affrontino nelle stesse condizioni: vi sono quelli che avanzano in testa, che aprono la strada, che tracciano la via a colpi di machete in mezzo alla foresta vergine; e vi sono quelli che seguono, trovando il sentiero già segnato e soprattutto la certezza di non procedere a vuoto, ma di andare almeno nella direzione giusta.
Ebbene: gli uomini e le donne che appartengono alla prima categoria sono spinti, quasi sempre, più che dall’orgoglio e dall’ambizione, da un profondo senso del dovere e da una radicata consapevolezza della serietà della vita; essi avanzano con coraggio e determinazione, non curandosi se altri li seguono a breve distanza, ma sapendo che, prima o dopo, le loro fatiche saranno utili al prossimo, forse anche a coloro che non conosceranno mai personalmente.
Per costoro, il primo prezzo da pagare è la solitudine; il secondo, l’incomprensione e, sovente, l’ingratitudine degli altri.
La solitudine: perché è come se fossero sempre soli, come se avanzassero in una terra di nessuno, in una regione strana e disabitata, che nessuno sa dove conduca, lungo una strada che nessuno può garantire porti da qualche parte; senza mai il conforto di una parola amica, di un sorriso, di un incoraggiamento.
L’incomprensione e  l’ingratitudine: perché gli altri, quelli che avanzano dopo e che sfruttano il cammino già tracciato, pur avvantaggiandosi dell’opera dei primi, solitamente non la capiscono, non arrivano nemmeno a immaginare come si possa mettere tutto a repentaglio per inseguire, forse, una chimera; e quindi sono propensi a giudicarli con diffidenza, con invidia, con malevolenza, sospettando che essi agiscano soltanto per ambizione o per la smania di acquisire onori e riconoscimenti.
Fanno così, perché sono abituati a giudicare secondo il proprio metro: siccome non muoverebbero un dito se non per difendere il proprio interesse minacciato, trovano inconcepibile che qualcuno possa rischiare o sacrificare tutta la propria vita solamente per inseguire una meta ideale, così, in maniera del tutto disinteressata, senza nulla aspettarsi in cambio se non l’approvazione della propria coscienza.
Un’altra caratteristica della relazione esistente fra coloro che aprono la strada e quelli che li seguono a distanza è la radicale asimmetria: i secondi pensano solo a ricevere, talvolta magari anche ringraziano, ma si guardano bene dal considerare i primi alla stregua di normali esseri umani, che non vivono solo di aria e di qualche parola di lode, ma che hanno anch’essi la necessità di relazioni umane calde e profonde.
Dal momento che questi apripista sono abituati alla solitudine, alla fatica e a trovare in se stessi le energie per proseguire nel cammino, gli altri danno pressoché per scontato che non serva loro altro cibo, che siano delle rocce che offrono sempre un appiglio al prossimo, ma che, quanto a loro, non hanno bisogno di appoggiarsi a nessuno e neppure di fermarsi un momento a riposare; che siano, inoltre, quasi dei puri spiriti, che non sentono la necessità di quel calore umano di cui gli altri non saprebbero fare a meno neppure per una giornata.
Di conseguenza, gli altri sono perfettamente abituati a contare su di loro, a ricevere, a prendere; non si pongono mai la domanda se non sarebbe giusto offrire qualcosa in cambio, se sia etico prendere sempre senza mai dare nulla a propria volta; se sia umano pretendere dalle persone che aprono la strada, che siano costantemente al di sopra di qualunque desiderio, fragilità o debolezza, aspettandosi però sempre di trovare in esse una guida sicura, una fede che non vacilla, una energia che non si esaurisce mai.
In fondo, si tratta di un atteggiamento molto comodo.
Si fa finta di non sapere che mettersi in testa ad aprire la strada non è cosa che appartenga, necessariamente, a certi individui piuttosto che a certi altri; bensì che è un compito che chiunque si può assumere, a patto che si ponga con serietà e dedizione nei confronti della vita e che non fugga davanti alle proprie responsabilità verso se stesso e verso il prossimo.
In altre parole, tutti potrebbero e dovrebbero farlo; e, se così non avviene, è perché la grande maggioranza delle persone preferisce dispensare se stessa, dicendosi di non essere abbastanza forte per assumerlo, di non possedere le capacità e le risorse a ciò necessarie: molto più semplice e comodo è pensare che, per riuscirci, occorra essere nati con particolari attitudini e che, se non le si possiede, non resta altro da fare che rimanere in posizione defilata, avanzando solo quando la direzione giusta sia stata individuata e la strada sia già stata aperta.
Nel frattempo, la solitudine di quanti avanzano per primi in una terra sconosciuta e disabitata è resa ancora più assoluta dall’atteggiamento utilitaristico degli altri, i quali, pur usufruendo della fatica altrui, non ritengono affatto di avere qualche debito nei confronti di quelli, oppure se la cavano con qualche parola di omaggio formale, salvo poi tirarsi indietro precipitosamente qualora si accorgano, non senza ipocrisia, che non solo i gregari, ma anche i pionieri solitari hanno un’anima capace di provare emozioni e sentimenti, come chiunque altro.
È molto comodo, insomma, mettere su di un piedistallo coloro del cui lavoro e del cui coraggio ci si avvantaggia, allorché tale operazione consente di ricevere tutto senza offrire mai nulla; è comodo perché pone nelle condizioni di acquisire gratuitamente ogni vantaggio, dispensando da qualsiasi fatica e anche da qualsiasi atto concreto di reciprocità.
Se, ad esempio, gli amici di Socrate pensavano a lui come a una specie di superuomo, ciò li autorizzava ad aspettarsi tutto da lui, ma escludeva che egli potesse aspettarsi mai nulla da loro; da lui essi potevano attingere la saggezza, la forza morale, la perseveranza e la fiducia, mentre lui, da loro, era ovvio che non avrebbe mai avuto nulla.
Abbiamo parlato di ipocrisia: perché è sommamente ipocrita mettere qualcuno su un piedistallo, venerarlo come un essere speciale e tuttavia, nello stesso tempo, negargli quell’umana vicinanza e comprensione che si sarebbe pronti a concedere a chiunque altro, magari all’individuo più egoista e superficiale, per il fatto che anche quest’ultimo, infine, è un essere umano.
Tutto ciò assomiglia molto allo sfruttamento e alla manipolazione: allo sfruttamento, perché è una relazione a senso unico, in cui chi riceve vorrebbe ricevere sempre di più e sempre gratuitamente; alla manipolazione, perché corrisponde a una forzatura della realtà dell’altro, che viene esaltato e glorificato con il sottinteso che egli continui a servire, in silenzio, coloro che, con la scusa di non essere degni di lui, di non essere alla sua altezza, lo lasciano, in pratica, sempre più solo, negandogli il conforto di una presenza amica; e ciò anche da parte di quanti, magari, sarebbero capaci di mettersi in ginocchio davanti a individui moralmente e umanamente squallidi, ma in un contesto dove si dia per scontato che nessuno è al disopra della media.
Si tratta di comportamenti umani, un po’ troppo umani, in cui opportunismo e inconsapevolezza si mescolano in maniera tale, che colui il quale li pratica può sempre invocare la propria “innocenza”, nel senso che almeno una parte di lui non si rende conto pienamente di quanto opportunismo e di quanta ipocrisia vi siano in un tal modo di fare.
Quanto alla solitudine degli uomini e delle donne che aprono la strada in territori inesplorati, essa è certamente inevitabile; anche se potrebbe essere un po’ meno assoluta, un po’ meno crudele, un po’ meno disumana, se quanti vengono dietro non la accentuassero e, talvolta, non la esacerbassero con il loro comportamento.
Il fatto è che le persone comuni, quelle abituate a seguire la strada che altri hanno tracciato anche per loro, pagando un prezzo altissimo di fatica e rinunce, danno quasi per scontato che vi siano gli apripista; considerano quasi dovuto che qualcun altro si sobbarchi, al posto loro, l’onere immane di affrontare la selva più fitta a mani nude e di scalare le montagne più aspre con le scarpe ormai sfondate e i piedi sanguinanti.
Vi è una crudeltà inconsapevole in queste cosiddette persone comuni, che vogliono, esigono, pretendono la pappa bella e pronta, il problema già risolto, la strada già spianata, come se fosse scritto da qualche parte che altri se ne debbano assumere la responsabilità, affinché loro possano fare meno fatica nel corso della vita.
Sovente queste persone comuni non si limitano a rimanere passive, anche nelle circostanze più serie ed urgenti, in attesa che qualcuno prenda l’iniziativa e indichi loro quel che andrebbe fatto; ma assumono un atteggiamento spazientito e quasi arrogante, alzano la voce, chiedono agli altri di rendere conto come mai nessuno si sia ancora fatto avanti per prendere in mano la situazione, per assumersi il rischio di indicare la via.
Vedono, per esempio, che il ponte sospeso sul fiume a strapiombo, fatto di liane e corde intrecciate alla bell’e meglio, oscilla paurosamente ad ogni soffio di vento e non offre alcuna garanzia di tenuta e sanno che solo portandosi sull’altra sponda troveranno la salvezza; e tuttavia non osano avanzare per primi, se ne guardano bene perché hanno troppo paura: pretendono, però, che qualcun altro, magari quello stesso o quegli stessi che, fino a poco prima, essi guardavano con diffidenza e tenevano ai margini del gruppo per la loro indipendenza, ora si facciano avanti e corrano il rischio di avanzare sul ponte per primi, in modo da rassicurare tutti quanti sulla sua tenuta, anche a costo della vita.
Non si sa bene da che cosa derivi una simile pretesa; non è chiaro in base a quale ragione essi si attendano un tale rischio, un tale sacrificio, proprio da parte di coloro cui non hanno mai prestato ascoltato prima; che, magari, hanno anche deriso fra sé e sé, o compatito, o perfino disprezzato; fatto sta che ora, nel momento della difficoltà, del bisogno, del pericolo, ecco che questa legione di “persone normali” diviene improvvisamente consapevole di una sorta di ancestrale diritto: quello di aspettarsi che altri si facciano avanti e aprano la strada, magari esponendosi alle più serie conseguenze, così, soltanto perché la massa non sa sbrigarsela da sola.
Certo che hanno una bella faccia tosta.
Eppure la loro pretesa, la loro aspettativa non è malriposta, né infondata; avviene proprio così: quando il cammino si fa più impervio e difficoltoso, ecco che qualcuno, che era rimasto sinora silenzioso e in coda al gruppo, non per timidezza, ma perché tutto assorto in se stesso, ora si fa avanti e, con semplicità, si porta in prima posizione, affrontando tutte le fatiche, tutti i rischi e tutte le incertezze di chi sta battendo una strada che non è tracciata su alcuna carta.
Egli, del resto, sa di non essere solo: sa che una Forza più grande gli starà sempre accanto, per aiutarlo e confortarlo, specialmente nei passaggi più difficili e pericolosi.