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Pubblicità, concorrenza, antitrust e degradazione antropologica

di Lorenzo Dorato - 02/10/2011



Non appartengo alla schiera di coloro che credono che il capitalismo possa essere moralizzato. Lo credono in molti e in molti propongono la moralizzazione dei “costumi” capitalistici come la soluzione alle ingiustizie, agli eccessi e persino alle crisi ricorrenti del sistema economico. Il capitalismo in quanto tale non si può moralizzare, poiché è strutturalmente immorale. Produce immoralità per sua stessa natura, dal momento in cui tende all’illimitato mentre qualunque morale ed etica presuppone una tensione verso il limite condiviso, personale e sociale.

Appartengo però, contro ogni estremismo apocalittico, a coloro che credono che il capitalismo possa, anzi debba, essere arginato (tramite un’azione morale, questo sì) nelle sue spinte fameliche. In attesa (o come passo stesso verso una direzione di mutamento) che si riescano a porre le basi oggettive e soggettive per una trasformazione sociale radicale (nel senso di spinta fino “alla radice” delle contraddizioni sociali).

Il capitalismo deve essere arginato su ogni piano, dove la distinzione tra piano materiale e non materiale (spirituale, etico etc etc) perde di senso poiché l’azione erosiva della stessa antropologia umana avviene a tutti i livelli dell’esistenza.

Il capitalismo deve essere arginato: impedendo a pochi di rapinare le ricchezze collettive tolte a molti; impedendo di demolire i sistemi di protezione e di sicurezza collettiva; impedendo di rendere il lavoro una schiavitù precaria e instabile; impedendo di devastare l’ambiente per accrescere il profitto; ed anche impedendo di degradare liberamente e senza limiti la stessa costituzione antropologica umana imbarbarendo l’uomo ed imponendo modelli di vita eterodiretti contrari alle potenzialità solidaristiche e comunitarie proprie della stessa natura umana.

La degradazione della costituzione antropologica umana avviene su molteplici fronti ed è un’operazione quotidiana (a volte espressamente studiata, più spesso frutto naturale delle dinamiche sistemiche). L’istigazione al consumo forzato (per i più poveri naturalmente a debito), il lancio di modelli di vita orientati alla prevaricazione, all’arroganza; la stimolazione continua dell’irrequietezza, della volontà di evasione, dello sradicamento, della fuga dalla realtà; la mercantilizzazione di qualsiasi aspetto della vita umana, giudicabile in termini monetari o di costi-benefici; l’esaltazione della competizione come valore. Si tratta di un ritornello simbolico pervasivo che martella la vita collettiva ogni giorno, dalle televisioni nelle case ad internet, fino alle strade ormai letteralmente infestate da cartelli pubblicitari.

Concentriamoci proprio sulla pubblicità come forma di degradazione antropologica e sul nesso tra pubblicità e concorrenza. Per arrivare ad una conclusione logica proporrò contestualmente un ragionamento sul significato di concorrenza capitalistica e sui problemi connessi alla “cultura della concorrenza” che infesta l’ideologia politica dominante in tutte le sue varianti.

La concorrenza è l’anima del capitalismo, la sua stessa ossatura. E la pubblicità ne è una sua declinazione. Per vendere di più a scapito dei concorrenti un’azienda è disposta a spendere quantità estremamente elevate di denaro per attirare l’attenzione sui propri prodotti, il più delle volte (direi almeno il 90% delle volte) attraverso il mero impatto suggestivo delle immagini e del messaggio contenuto, più che su una reale differenziazione del prodotto in termini qualitativi.

Il capitalismo ovviamente continuerebbe a essere tale anche senza pubblicità, essendo quest’ultima un semplice strumento, tra i tanti, di concorrenza. La concorrenza pubblicitaria in particolare (ma spesso lo è la concorrenza in generale) è un gioco a perdere per la società nel suo insieme, e lo può essere in linea teorica persino per le stesse aziende capitalistiche. Se infatti per ipotesi la pubblicità fosse vietata e se ne consentisse una semplice versione informativa asettica tramite appositi bollettini di informazione, le aziende risparmierebbero enormemente sui costi di produzione e probabilmente, per ciò che concerne una buona parte dei prodotti le vendite sarebbe le stesse (non così per i prodotti replicati che si differenziano esclusivamente per il grado di suggestione che suscitano tramite l’induzione al consumo). Tuttavia se un’azienda inizia a percorrere la strada della pubblicità può accaparrarsi una fetta di mercato di altre aziende concorrenti che sono così costrette a seguire l’iniziativa della prima azienda in una specie di gioco al rialzo continuo che fa sì che la quantità e il carattere sofisticato dei messaggi pubblicitari (con annesse enormi spese collaterali) aumentino esponenzialmente. L’aumento della pubblicità è quindi il segno tangibile della concorrenza sfrenata e posta come “libera in assoluto”.La gigantografia delle mutande di Beckam e Cristiano Ronaldo sui palazzi storici del centro di Roma e il faccione con gli occhiali da sole di non so quale diva sul duomo di Milano sono il frutto naturale della concorrenza capitalistica posta come valore e come libertà.

Cerchiamo di capire a questo punto qual è il significato di concorrenza capitalistica.

Secondo buona parte della dottrina neoclassica, oggi ampiamente dominante, la concorrenza va inteso nei termini del paradigma della “concorrenza perfetta” una situazione in cui in un mercato coesistono numerosissime imprese ciascuna della quali, in quanto dotata di un peso infinitesimale, ha un comportamento inevitabilmente passivo rispetto ai prezzi, produce un prodotto omogeneo e gode di perfetta informazione. In questo quadro teorico il carattere competitivo, attivo, dinamico e potenzialmente devastante della concorrenza viene completamente dissolto e celato dietro le apparenze di una struttura statica e cristallizzata capace di produrre prezzi minimi ed efficienza.

La concorrenza reale (da intendersi come concorrenza in quanto processo, nel senso degli economisti classici, ripreso poi da parte di letteratura “eretica” interna al marginalismo, austrici, Baumol etc etc) in realtà è un processo perenne di competizione che si svolge sui prezzi, sulla qualità dei prodotti (in minima parte), sulla differenziazione minuziosa (spesso impercettibile in termini di valori d’uso) del prodotto e sull’induzione pubblicitaria al consumo. Un processo caotico, instabile e che crea e poi distrugge le stesse condizioni del monopolio di fatto, essendone in fin dei conti la precondizione. Un processo che a fronte di ipotetiche e niente affatto scontate diminuzioni temporanee del prezzo, produce continuamente nuove concentrazioni, centralizzazioni di capitale, distruzione delle piccole attività, nuovi aumenti dei prezzi e collateralmente instabilità sociale ed economica e angoscia collettiva.

La concorrenza come base pseudo-morale (dico psuedo perché mi rifiuto di considerare la concorrenza una base morale in senso stretto) del sistema di valori capitalistici, raddoppiamento ideologico della base materiale insita nei rapporti di produzione concorrenziali che il capitalismo produce e riproduce, è un vero e proprio disvalore eretto a falso valore universalistico. La concorrenza, come correttamente già Marshall aveva intuito è l’opposto della cooperazione e non certo l’opposto del monopolio (come la dottrina economica prevalente e l’ideologia antitrust ci propinano quotidianamente), dal momento che il monopolio non è altro che un momento della concorrenza stessa destinato a sfaldarsi e poi a ricrearsi in un continuo movimento di alternanza (d’altra parte è fin troppo evidente che si concorre proprio per acquisire un monopolio).

Se la concorrenza è l’opposto della cooperazione, una società fondata sul valore e sulla pratica generalizzata e senza eccezioni della concorrenza è evidentemente una società degradata che fonda sé stessa sulle supposte virtù materiali della competitività, ignorando totalmente le potenzialità solidaristiche e cooperative (strutturali e non solo spontanee e micro-comunitarie) proprie della stessa natura umana.

La dottrina pro-concorrenziale che pervade le istituzioni europee e di riflesso le discipline antitrust comunitarie e nazionali è un portato diretto dell’ideologia neo-liberale già di matrice statunitense (i cui fini reali, ideologia a parte, sono la conquista dei mercati più fragili o più riottosi all’integrazione e la distruzione di ogni elemento di contrappeso all’egemonia del più forte secondo una scala gerarchica ben definibile). La supina accettazione di tale dottrina da parte non solo della classe politica, ma in buona parte anche dell’opinione pubblica, è il frutto della degradazione generale gravissima che hanno subito tutte quelle dottrine non liberali che fino agli anni 80 del secolo scorso avevano in qualche misura condizionato positivamente il dibattito politico europeo nella direzione di arginare la logica impersonale e feroce del capitalismo e, quindi, della concorrenza.

La concorrenza è una norma sociale del capitalismo. Il capitalismo senza concorrenza è uno strano esperimento sociale di monopolio statico assoluto egemonizzato da un unico capitale privato che estrae ricchezza da una massa di lavoratori ad esso sottomessi. Un’astrazione concettuale senza corrispettivo reale. Il capitalismo senza concorrenza, pertanto smette semplicemente in ogni caso di essere tale. Sarebbe quindi assurdo proporsi di superare il paradigma della concorrenza senza porsi il problema di come superare il capitalismo.

Tuttavia è bene riaffermare che pur se all’interno del capitalismo, in quelle azioni che ho definito di argine al sistema (e non certo di moralizzazione), si possono scegliere due strade molto diverse: quella di limitare la concorrenza oppure di lasciarla libera di agire in tutto il suo potenziale. La dottrina antitrust propone di aumentare, spesso con artifici, norme, multe e sanzioni, il grado di concorrenza per ridurre i margini di monopolio, cadendo nella tautologia, e scambiando il problema per la soluzione, poiché più concorrenza equivale a nuove possibilità di nuovi monopoli temporanei di fatto in un vortice di continua instabilità, ammeno che non si ipotizzi un’inesistente equilibrio competitivo statico ottimale. Se poi l’obiettivo è quello di spodestare determinate posizioni dominanti per favorirne di nuove emergenti (e si potrebbe ben dire che il ruolo reale dell’antitrust spesso consista proprio in questo), allora il discorso cambia e i conti tornerebbero, ma il castello dell’ideologia antitrust crollerebbe sulle sue deboli fondamenta, svelando la propria funzione eminentemente politica, quella cioè di demolire imprese dotate di forti strutture produttive disintegrandole (o perché pubbliche o perché private, ma orientate ad interessi capitalistici contrari al prevalente indirizzo politico di cui l’antitrust è espressione).

La dottrina ultra-liberista della scuola Austriaca in compagnia di altri approcci neoclassici “estremisti” (scuola di Chicago ad esempio) propone invece una più coerente politica di liberismo reale, senza liberalizzazioni forzate in stile Antitrust, senza cioé andare a colpire quei monopoli temporanei di fatto (da distinguere dai monopoli di diritto, cioé sanciti legalmente sulla cui demolizione entrambe le dottrine liberiste concordano) che sono il frutto e il premio del processo concorrenziale. Propone cioè di lasciare le cose come stanno. Una forma di liberismo esplicitamente selvaggio, se vogliamo più coerente con le proprie premesse.

Se si vuole realmente incidere sulle posizioni monopolistiche, sulle concentrazioni e i cosiddetti privilegi l’unica possibilità è proprio la regolazione intesa come restrizione alla libera concorrenza, l’imposizione di prezzi, gli incentivi pubblici anche economici vincolati all’innovazione e allo sviluppo, oppure la diretta gestione economica di un settore da parte di un’impresa pubblica opportunamente responsabilizzata (nazionalizzazioni, partecipazioni di Stato): una filosofia che ha ispirato per almeno un trentennio una buona parte della classe politica di ispirazione social-democratica (in tutte le sue varianti partitiche) della prima repubblica il cui principio guida non era assecondare il mercato nei suoi supposti automatismi virtuosi, ma regolarne, limitarne l’attività tramite sacrosante interferenze schiettamente politiche (espressamente ed orgogliosamente politiche). Regolare il mercato nel senso di porre dei limiti alla libera concorrenza, peraltro, ha il pregio logico di stabilizzare forme di competizione tra strutture produttive, riducendone l’impatto distruttivo e quindi, in ultimo, tutelando l’esistenza stessa di una minima concorrenza (non libera, ma vincolata) senza permettere che la sua esasperazione conduca a forme autofagiche di destabilizzazione del sistema economico e produttivo.

L’azione antitrust si muove in senso opposto. Reclamando più concorrenza e andando in tal senso a scardinare qualsiasi limite imposto al suo libero dispiegarsi, finisce per rendere possibile proprio ciò che si proponeva a parole di combattere: la concentrazione, l’oligopolio, il monopolio. Oggi il termine regolazione è stato totalmente egemonizzato dalla cultura antitrust ed è divenuto sinonimo di liberalizzazione. La vera regolazione è invece esattamente il contrario della liberalizzazione, in quanto pratica limitativa della norma generale concorrenziale che pervade il capitalismo.

Ciò che mi preme mostrare attraverso questo articolato ragionamento è che accettare il paradigma dell’aumento della libera concorrenza come medicina per i mali del monopolio, della rendita, delle posizioni di potere, del privilegio etc etc.., non soltanto è tautologico dal punto di vista concettuale, ma implica l’accettazione della concorrenza reale, intesa come vera e propria guerra tra concorrenti, come processo sociale e morale intrinsecamente devastante, proprio in quanto incondizionatamente libero.  Se si accetta questo terreno, mettendo anche da parte le grandi conseguenze (forse meno visibili agli occhi quotidiani distratti) in termini di sistema economico, e concentrandosi su porzioni minuscole di vita quotidiana, non ci si lamenti delle orrende mutande di Beckam e di Cristiano Ronaldo esposte come gigantografia sul lato della facciata della Banca d’Italia a Roma e degli occhiali da sole sul Duomo di Milano e neppure del sedere al vento esposto davanti ad una scuola di bambini in Lombardia qualche mese fa. Non ci si lamenti in generale della riduzione di tutti gli spazi pubblici a supermercato integrale di immagini provocanti dove la svendita del corpo femminile e maschile e i sorrisi raccapriccianti di gioia consumistica spadroneggiano in ogni angolo sociale. Non ci si lamenti  se la Stazione Termini (venduta per chi non lo sapesse da Ferrovie dello Stato a Benetton) è diventata un centro commerciale e se le immagini allucinate di Armani e di Gucci sono più numerose delle sedie per riposarsi e dei pannelli per leggere gli orari dei treni… se le metropolitane e gli autobus sono diventati degli spazi di asservimento visivo collettivo di fronte a schermi su cui transitano (all’esterno per le metro, all’interno per gli autobus) immagini di pubblicità a ruota libera….se i nostri monumenti in restauro sono stati occupati dalle mutande gigantesche di qualche divo o diva. E non è un problema moralistico di decoro soltanto relativo a specifiche immagini, ma è un problema di invasività commerciale capace di superare qualunque limite laddove il commercio dovrebbe fare un passo indietro e lasciarci respirare ogni tanto aria pulita che non puzzi di induzione al consumo, di persuasione silenziosa e meschina.

Non ci si lamenti quindi di tutto questo, se si accetta il paradigma dell’aumento della concorrenza come medicina, perché la concorrenza è tutto questo. La concorrenza è la legge economica e politica (spesso più politica che economica) che ha suggerito a Ferrovie dello Stato la disgregazione societaria del gruppo e la vendita del comparto Grandi Stazioni a Benetton e altri capitani coraggiosi. La libera concorrenza e il profitto sono le leggi economiche che spingono Benetton e gli altri capitani coraggiosi a far diventare la Stazione Termini un centro commerciale. E’ la libera concorrenza la legge che stimola le aziende a riempire le nostre città di mondezza pubblicitaria ossessionante e pervasiva. E’ la libera concorrenza per il profitto che fa diventare una donna un oggetto squallido.

Se vogliamo liberarci davvero di tutto questo, ciò che dobbiamo reclamare è una riduzione della libera concorrenza, ovvero una limitazione della libertà di concorrere, una maggiore regolazione limitativa, l’imposizione di una cornice di decoro per arginare la libertà degli spot pubblicitari di entrare nella nostra vita tutti in tutti i momenti della giornata, dalla metropolitana alle piazze, dalle stazioni agli autobus, dalla televisione a internet.

E così per ogni altro aspetto della nostra esistenza quotidiana.

Se vogliamo il negozietto di quartiere che vende il pane di qualità, dobbiamo reclamare la diminuzione della concorrenza, o meglio una sua regolazione limitativa (se ascoltiamo l’antitrust avremo invece in pochi mesi tre supermercati con prodotti dozzinali e una sequela di negozi chiusi); se vogliamo che siano pagati salari più alti dobbiamo reclamare una riduzione della concorrenza tra lavoratori disgregati e messi gli uni contro gli altri; se vogliamo una scuola pubblica efficace e di qualità dobbiamo reclamare la riduzione della concorrenza tra scuole (concorrenza che ha prodotto la follia dell’autonomia scolastica e delle scuole divenute centrali di pubblicità attira-studenti). Se vogliamo una sovranità politica nel paese in cui viviamo dobbiamo reclamare una diminuzione drastica della libera concorrenza internazionale erigendo barriere, dazi e protezione al libero commercio e alla liber circolazione di capitali.

Tutte le forze politiche europee, a partire dalla sinistra del tutto interna sul piano ideologico al pensiero liberale, hanno nella stragrande maggioranza introiettato da ormai venti anni il paradigma della libera concorrenza come forza benefica contro i monopoli, le rendite i privilegi etc, etc, forse come eredità degenerata del proprio dna costitutivo anti-privilegio.

L’importante è mantenere una propria coerenza interna e non reclamare la rimozione delle mutande di Beckam e del sedere dalla scuola elementare e nemmeno lamentarsi della riduzione della donna ad oggetto, magari invocando il femminismo estraniato dalla sostanza dei rapporti sociali. Altrimenti sì che si cade nel vero moralismo in senso deteriore. Chi altro è il moralista se non chi vede soltanto la parte superficiale del problema senza volerne mettere in discussione le radici?

Ebbene, chiunque concordi anche soltanto con l’estrema  negatività dell’invadenza pubblicitaria ossessiva, fino  agli eccessi dei monumenti storici infestati di occhiali, faccioni, mutande, reggiseni, sorrisi di bambini rincretiniti e macchine brillanti, sappia allora che la medicina a tutto questo è reclamare meno libertà di concorrere e più limiti, più regolazione pubblica e  meno antitrust,  meno concorrenza come principio presuntivamente neutrale e più sovranità della politica.