Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il volto oscuro dell’ecologia

Il volto oscuro dell’ecologia

di Giuseppe Giaccio - 03/10/2011

http://www.theseuslibri.it/open2b/var/catalog/l/2013.jpg

 

Benché sia di uso comune, l’espressione “intellettuale militante” contiene una evidente contradictio in adiecto. Le sue due componenti, infatti, fanno a pugni e non possono, a stretto rigore di logica, stare insieme. O si è intellettuali o si è militanti. L’attività intellettuale è mossa da una esigenza veritativa; l’intellettuale è uno che cerca di vederci chiaro, nella misura in cui ciò è umanamente possibile, in una serie di questioni che lo interessano e a tale scopo utilizza gli strumenti della ricerca culturale e dello studio (le «sudate carte» leopardiane). In fondo al suo agire vi è, quindi, sempre un’apertura, la disponibilità ad accettare apporti provenienti da diverse fonti che possono contribuire a far avanzare la conoscenza relativa a un determinato oggetto, svelandolo, togliendogli i veli che lo ricoprono per poterlo guardare così com’è. Al contrario, il militante, come del resto suggerisce la parola stessa tratta dal lessico guerresco, non cerca la verità, bensì la vittoria. Egli si sente in lotta contro un nemico ed è pronto a tutto, a qualunque sacrificio, anche al sacrificio della verità, pur di sconfiggerlo, di annientarlo, riducendolo a cosa inerte e inoffensiva e finendo col reificare anche se stesso. È preda di una hybris a causa della quale non solo la giustizia, come affermava Simone Weil, ma anche la verità fugge dal campo del vincitore.     

Tutto ciò vale, però, come si ricordava poco fa, a stretto rigore di logica. L’essere umano, tuttavia, non è fatto solo di razionalità e logica; è anche carne e sangue, cioè passione, sentimento, emozione, cosicché nella realtà capita di imbattersi non nei tipi ideali prima delineati, ma in figure che sono un mélange il cui livello di sopportabilità è proporzionale alle dosi dell’uno o dell’altro elemento presente nel composto. Gli esiti più negativi, in quanto privi di ogni utilità euristica, si hanno, evidentemente, quando la componente militante predomina su quella intellettuale. La produzione del militante, infatti, solleva polveroni anziché diradarli, accrescendo così la confusione e rendendo problematico distinguere il grano dalla zizzania. Per esemplificare il discorso fatto finora, uscendo in tal modo da una certa astrattezza, è particolarmente indicata la lettura de Il volto oscuro dell’ecologia, vero modello di militanza anti-intellettuale applicata all’ambiente, dove ritroviamo la serie pressoché completa di ubbie, fissazioni, fisime in cui inevitabilmente cade chi mette da parte l’intelligere per privilegiare lo scontro frontale. All’autore, Laurent Larcher, giornalista del quotidiano cattolico francese “La Croix”, non interessa capire il fenomeno di cui pure pretende di occuparsi, ma denunciarlo e combatterlo. Le parole con le quali si chiude l’introduzione sono inequivocabili: «La battaglia, sorda e insidiosa, si svolge sotto i nostri occhi. Entriamo anche noi nell’arena». Il novello gladiatore ha individuato un nemico, l’ecologismo antiumanista, che minaccerebbe gravemente il cristianesimo (oltre che la cultura umanistica di matrice greco-romana che con esso concorre a formare l’Occidente). E lo minaccerebbe tanto più gravemente in quanto i cristiani non avrebbero una chiara percezione del pericolo (la qual cosa li rende vulnerabili). Il Nostro si mette perciò di buzzo buono a smascherarlo. Compito tutt’altro che agevole e quindi, presumiamo, dal suo punto di vista ancor più meritorio, dato che l’ecologismo troverebbe accoglienza «in tutte le pieghe della società». I movimenti ecologisti, così almeno ci assicura Larcher, «stanno investendo poco per volta tutti i campi del sapere e della pratica. Non trascurano niente, nulla sfugge loro: dalla filosofia al cinema, dalla letteratura alla pubblicità, dalla religione alla politica. […] L’ecologismo antiumanista guadagna terreno, esso seduce un cospicuo numero di orfani del XX secolo. I suoi temi preferiti stanno permeando a gran ritmo il nostro spazio culturale, la nostra rappresentazione del mondo, i nostri passatempi, le nostre opinioni». Nella visione onirica del giornalista francese, al centro dell’ideologia ecologista vi sarebbe un cuore pulsante, la Deep Ecology, che si articolerebbe in un ramo sinistro, ugualitario e progressista, e uno destro, disugualitario e conservatore, nel quale rientra, ça va sans dire, la Nouvelle droite di Alain de Benoist, presunta erede dell’ecologia nazista. Pur nelle loro differenze, la sinistra e la destra ecologiste avrebbero un punto in comune, il biocentrismo, che spodesta l’uomo dalla posizione eminente assegnatagli da Dio nella creazione (qui il riferimento polemico è il noto saggio di Lynn White Jr. sulle radici storiche cristiane della crisi ecologica[i]). Entrambe mirano, infatti, a una naturalizzazione dell’uomo, a un suo riassorbimento nella natura, anche se per scopi diversi. La sinistra vorrebbe ricostruire una sorta di paradiso perduto, in cui l’uomo viva in armonia con il mondo e con i propri simili, anziché in un rapporto di competizione e prevaricazione; la destra pensa che l’immersione nella natura potrebbe favorire la ricomparsa di un tipo umano più integro in quanto liberato dall’influenza cristiana e rigenerato dal contatto con le forze primigenie della natura. Per realizzare questi insani propositi, l’ecologismo disporrebbe anche di un settore operativo formato da «ecoguerrieri», da «terroristi» verdi che «non sono ancora forti, numerosi e determinati come nel mondo islamico, ma non vanno comunque sottovalutati: in fin dei conti, sono appena agli esordi». Di queste inquietanti emanazioni del progetto ecologista fanno parte, sempre secondo Larcher, organizzazioni come Earth First!, il Movimento per l’Estinzione Volontaria della Specie Umana, il Fronte di Liberazione Animale, la Chiesa dell’Eutanasia, il Fronte di Liberazione di Gaia. Tutti gruppi marginali, lunatic fringes, che nessuno prenderebbe sul serio, almeno sul piano politico-culturale. Nessuno, tranne il nostro solerte giornalista, il quale scrive, allarmato, che potrebbero avere un radioso futuro «se abbandoniamo l’umanesimo per abbracciare l’ecologismo». Futuro che egli comunque considera «promettente» per l’ideologia ecologista, grazie alle catastrofi che, a suo parere, certamente si abbatteranno sull’umanità, favorendo «l’accettazione e la diffusione dell’ecologismo su vasta scala». Questa ideologia, conclude Larcher, «non incarna la vera novità, essa è la novità. Non è al servizio di un cambiamento: essa è il cambiamento. Non propone una rivoluzione, è già essa stessa un cambiamento in corso».

Probabilmente, lo scopo che l’autore si è prefisso scrivendo quest’opera è stato raggiunto: seminare diffidenza e sospetti nei confronti del mondo verde, soprattutto fra lettori poco o niente affatto informati. Obiettivo che non è solo dell’autore, ma anche dell’editore, che ci mette del suo e che è già noto, del resto, per aver realizzato la stessa, discutibile operazione con l’islam, pubblicando i violenti lavori anti-islamici di Bat Ye’or sull’Eurabia e il califfato universale o quello di Alexandre Del Valle (con prefazione di Magdi Cristiano Allam, il che è tutto dire) su una fantomatica alleanza anti-occidentale tra neri (neonazisti), verdi (islamisti) e rossi (comunisti). È una scelta editoriale, infatti, il mutamento del titolo del libro che in francese suona La face cachée de l’écologie. Quel caché, che significa nascosto, in italiano è diventato «oscuro», aggettivo decisamente più sulfureo e adatto alla bisogna. Saremo forse degli inguaribili ingenui, ma, da parte nostra, continuiamo a pensare che, a gioco lungo, le analisi con un minimo di fondamento restano a galla, mentre quelle abborracciate e approssimative sono destinate a fare naufragio. Il tempo è galantuomo. In ogni caso, anche se così non fosse, preferiamo situarci nel primo campo piuttosto che nel secondo. Con tutti i nostri limiti, proviamo allora a muovere qualche modesto passo in questa direzione, osservando, in primo luogo, che la furia anti-ecologista di Larcher è tale da fargli accumulare materiali eterogenei e contraddittori. Tutto fa brodo, insomma, pur di dire peste e corna dell’ecologismo. E pazienza se a soffrirne è la coerenza complessiva dell’impianto testuale.

Non ha molto senso, infatti, prendersela con il «catastrofismo verde», quando poi è lo stesso Larcher, come si è visto, a formulare previsioni catastrofiche. Sarebbe semmai molto più opportuno interrogarsi, in maniera radicale e senza nascondere la testa sotto la sabbia, sul perché di tali catastrofi.    

Non ha molto senso, da un lato, accusare gli ecologisti – sulla scia del successo internazionale del libro del sedicente ambientalista scettico Bjørn Lomborg (successo che, tra l’altro, smentisce la tesi di una grande e colpevole permeabilità alle idee ecologiste) – di essere degli impostori e dei contaballe, di diffondere una visione distorta della situazione del pianeta, che scoppierebbe di salute contrariamente a quanto sostengono gli ecologisti, e, dall’altro, richiamarsi al magistero della Chiesa cattolica, che invece fornisce non poche pezze d’appoggio a quanti sono responsabilmente preoccupati dell’impatto che le attività umane producono sulla Terra[ii]. Tra i tanti documenti che potremmo citare, ci limitiamo a segnalarne uno di Paolo VI, la lettera apostolica Octogesima adveniens, risalente al 1971 (appena quattro anni dopo l’articolo di White), nella quale il pontefice, soffermandosi sulle condizioni dell’ambiente naturale, osserva: «[…] attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, egli [l’uomo] rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione. Non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana». Anche Paolo VI era un catastrofista verde? Oppure rientra nel novero delle cassandre verdi? – altra etichetta gentilmente appioppata da Larcher agli ecologisti, dimenticando, tra l’altro, che Cassandra diceva la verità e che il suo torto fu di non essere creduta.   

Non ha molto senso attaccare a testa bassa White dal momento che sono gli stessi studiosi cattolici (quelli seri, ovviamente) a riconoscere in parte la fondatezza delle sue tesi. Quando era ancora cardinale, l’attuale papa, Benedetto XVI, pubblicò un saggio, Creazione e peccato (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987), in cui ascrive a merito della visione biblica ciò che lo storico americano le pone a carico, ossia l’aver secolarizzato, demitologizzato la creazione, liberandola dalla presenza del sacro. Per l’autore biblico, il sole e la luna sono solo lampade che Dio ha posto nel cielo per illuminare la terra. Nient’altro che questo. Il “vero” Illuminismo, afferma Ratzinger, quello non adulterato da pregiudizi anticristiani, non ha dovuto attendere il Settecento o la Modernità per manifestarsi, ma si trova già nell’Antico Testamento che fa del creato la manifestazione del Logos divino e della sua Parola. Sull’effetto secolarizzante della Bibbia sono, quindi, entrambi d’accordo. Ovviamente, il teologo tedesco e il professore americano divergono poi sulla valutazione da dare a questo fenomeno e sulle effettive responsabilità del cristianesimo. Per White (ma anche per altri autori come Eugen Drewermann e Carl Amery), la consegna del creato al “secolo” (la sua “sdivinizzazione” e “sdemonizzazione”, per dirla con Moltmann[iii]) ha favorito la comparsa e il radicarsi di una mentalità e di una prassi predatorie nei confronti dell’ambiente (anche se bisogna sottolineare che White distingue tra cristianesimo occidentale e orientale ed è più tenero rispetto a quest’ultimo). Questa mentalità di impronta cristiana avrebbe, come scrive Ratzinger riassumendo bene il capo di imputazione, «degradato le grandi potenze fraterne del mondo al rango di semplici oggetti d’uso e avrebbe così indotto ad abusare delle piante, degli animali, delle energie del mondo in generale, alimentando una ideologia della crescita, che pensa e si interessa solo di se stessa»[iv].

La teologia cristiana propende, invece, in larga misura, per una risposta negativa e ritiene che la Bibbia non autorizzi alcuna hybris da parte dell’uomo, il cui agire non può essere frutto di mero arbitrio, come dimostrano le storie della proibizione di mangiare dell’albero del bene e del male e della Torre di Babele: «L’uomo deve riconoscere che gli sono stati posti dei limiti e cercare, con ragionevole discrezione, di riconoscerli»[v]. La creazione, scrive ancora Ratzinger, ha una struttura sabbatica, è cioè finalizzata a liberare l’uomo e tutto il creato dalla schiavitù del fare per indirizzarli verso un mondo nuovo «in cui l’uomo, l’animale e la terra parteciperanno insieme fraternamente alla pace e alla libertà di Dio»[vi]. Sfortunatamente, continua il futuro pontefice, con il Rinascimento (con la secolarizzazione “cattiva”, per così dire) abbiamo scelto di assoggettarci proprio a questa schiavitù, credendo di trovare la libertà, sicché i moderni intellettuali laici, a partire dagli scienziati, possono dire: «Qualora la natura non risponda spontaneamente alle nostre domande e non disveli i propri segreti, la metteremo alla tortura e con un doloroso interrogatorio le strapperemo le risposte che non vuol darci di sua spontanea volontà»[vii]. Da qualunque parte ci si schieri, in questo e negli altri testi citati abbiamo comunque a che fare con un normale dibattito di idee e non con anatemi.       

Ma è quando si occupa di Alain de Benoist e del Grece che il pressappochismo di Larcher emerge appieno. È tutt’altro che un indizio di accuratezza analitica definire la rivista Nouvelle école una delle «case editrici» (sic!) dell’area neodestra o presentare la Nouvelle droite come «scuola ecologica». L’ecologia è indubbiamente uno dei temi più coltivati da questa corrente di pensiero, accanto però a molti altri, data la sua vocazione “enciclopedica”, sicché è a dir poco riduttivo (ma probabilmente funzionale all’approccio demonizzante fatto proprio dal giornalista cattolico) darne una caratterizzazione in senso ecologista. È poi semplicemente falso che le posizioni di Alain de Benoist «non sono per nulla lontane» da quelle di Arne Næss, considerato uno dei padri fondatori dell’ecologia profonda. L’intellettuale francese ha, certo, espresso apprezzamento per questa componente del mondo ecologista, ma ha anche fissato una serie di paletti che non è possibile ignorare, se si vogliono fare analisi plausibili e non “taroccate” – paletti che si possono ricondurre a questa osservazione: «Non introducendo alcun elemento di differenziazione all’interno del mondo vivente, ossia nel cosmo, essa [la Deep Ecology] tende in effetti a cancellare tutte le specificità umane per riversarsi o in un organicismo mistico ovvero un panteismo naif, o in una nuova forma di universalismo astratto»[viii]. All’ideologia della wilderness, poi, l’intellettuale francese rimprovera di avere la stessa concezione dualistica di Cartesio, con la sola differenza di trarne conseguenze diverse. La soluzione migliore, a suo avviso, è quella di «rifiutare l’idea di una rottura ontologica tra l’umanità e il resto dei viventi, riconoscendo tuttavia le differenze e la relativa autonomia dei componenti della natura»[ix]. Pur condividendo la concezione monistica della realtà (un monismo pluralistico, come egli stesso lo chiama), de Benoist è chiaramente consapevole che, quando entra in scena l’uomo, le cose cambiano, che tra l’uomo e gli altri viventi vi è una differenza di natura e non di grado, che l’uomo vive in un mondo che è anche storico e culturale e non, semplicemente, in un ambiente, che nella costituzione biologica dell’uomo vi sono delle qualità «emergenti» che gli consentono di prendere parzialmente le distanze dalla natura, pur restando radicato in essa. Consigliamo caldamente a Larcher, e ai militanti come lui, che non mancano nemmeno in Italia, di leggersi, a questo riguardo, quel piccolo gioiello di rigore intellettuale e di chiarezza espositiva che è Des animaux et des hommes. La place de l’homme dans la nature (Alexipharmaque), in cui de Benoist chiarisce bene i punti di divergenza, non secondari, che ne fanno più un osservatore critico che un sostenitore della Deep Ecology. Non potrà che trarne beneficio, sia perché avrà un quadro chiaro ed esaustivo della questione, sia perché ne potrà ricavare, sperabilmente, una lezione di metodo: capirà che cosa significa approfondire e sviscerare un argomento, senza nemmeno una punta di quel rancore, di quel risentimento e di quella amarezza che egli attribuisce, incredibilmente, agli intellettuali della Nuova destra che, secondo lui, sarebbero arroccati a difesa di «un passato di fantasia, attraversato dalla tensione elettrica del romanticismo tedesco». Ma forse ci illudiamo, perché è pur vero che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire o cieco di chi non vuol vedere.

Vi è, infine, un altro aspetto su cui ci sembra interessante soffermarci, ed è questo: continuare a ragionare, come fa Larcher, in termini di sinistra progressista e destra conservatrice, pur non essendo in assoluto arbitrario e sbagliato – in quanto, dopo la sua esplosione iniziale risalente, grosso modo, agli anni Ottanta, l’ecologismo si è fatto recuperare ed è rientrato nei ranghi della dialettica politica destra/sinistra – significa non aver capito che un discorso ecologista ridotto in questi termini non rappresenta un pericolo per nessuno e quindi non è il caso di scaldarsi tanto. Non c’è nessun Annibale verde alle porte. Un ecologista di destra, di sinistra o di centro è solo un attore in più del teatrino della politica politicante che nulla aggiunge e nulla toglie alla sostanza del quadro complessivo. Le vere potenzialità dell’ecologia, finora largamente inesplorate, stanno altrove, risiedono nella capacità di mettere radicalmente in discussione quel quadro elaborando, senza fanatismi ma con coerenza, insieme con altri soggetti culturali e sociali, anche cattolici, un nuovo paradigma all’interno del quale si possa costruire una realtà più degna dell’uomo. Al momento, questa scommessa risulta ampiamente perduta. È il caso, allora, di gettare la spugna? Se qualcuno lo facesse, non ce la sentiremmo di biasimarlo, ma lo inviteremmo a riflettere su ciò che scrive, con accenti arendtiani, Benedetto XVI nella Spe salvi, ossia che ogni uomo e ogni generazione rappresentano un nuovo inizio. Noi non ce l’abbiamo fatta, su questo non ci piove. Per la nostra generazione, alea iacta est; ma può darsi che ce la facciano altri, magari utilizzando qualche seme lanciato adesso da chi, pur tentato di abbandonare, ritirandosi in qualche oasi immaginaria o reale, trova chissà dove la forza di proseguire il viaggio in quel vasto “territorio comanche” che è il mondo globalizzato.        



NOTE

 

[i] La versione originale dell’articolo, «The Historical Roots of Our Ecologic Crisis», è stata pubblicata in Science, 10 marzo 1967, pagg. 1203-1207. Quella italiana si trova ne il Mulino, n. 2, marzo-aprile 1973. Più recentemente, una traduzione francese è stata proposta in Krisis, n. 15, settembre 1993, pagg. 60-71. L’articolo si chiude con la proposta di proclamare Francesco d’Assisi santo patrono degli ecologisti – cosa che Giovanni Paolo II fece nel 1979. Anche se forse dispiacerà a Larcher, almeno su questo punto White è stato preso in parola. Ovviamente, l’interpretazione della figura di Francesco data da White è molto diversa da quella della Chiesa cattolica.         

[ii] Stranamente, i giornalisti cattolici sembrano essere particolarmente versati in questo genere di esercizio. Dobbiamo, infatti, a due giornalisti di “Avvenire”, Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, un altro testo di denuncia delle presunte balle raccontate dagli ecologisti: Le bugie degli ambientalisti (Piemme, Casale Monferrato 2004).   

[iii] Cfr. Jürgen Moltmann, Dio nella creazione, Queriniana, Brescia 1986, pag. 45.  

[iv] Joseph Ratzinger, op. cit., pag. 30. Per uno sguardo globale sul tema, si veda AA.VV., Ecología y Creación. Fe cristiana y defensa del planeta, Universidad Pontificia de Salamanca, Salamanca 1991.     

[v] Cfr. Alfons Auer, Etica dell’ambiente, Queriniana, Brescia 1988, pag. 293.  

[vi] Joseph Ratzinger, op. cit., pag. 28.

[vii] Ivi, pag. 31.

[viii] Cfr. Alain de Benoist, Comunità e decrescita, Arianna, Casalecchio 2006, pag. 203. 

[ix] Ivi, pag. 205.