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La decrescita dev’essere anticapitalista ed essere organizzata dal basso

di Enric Lloips - 04/10/2011





Nel 1978 nasce Aviat, la prima associazione ecologista della città di Valencia. Julio García Camarero -ingegnere tecnico forestale e dottore in Geografía- è uno dei suoi fondatori. Tre decenni dopo dedica buona parte del suo tempo a divulgare un’idea alla quale crede fermamente: la decrescita. Lo fa mediante incontri e conferenze, e con una trilogia di libri di cui ne ha già pubblicati due (“El crecimiento mata y genera crisis Terminal” (2009) e “El decrecimiento feliz y el desarrollo humano” (2010), entrambi pubblicati da “Los libros de la Catarata”) e sta lavorando al terzo: “El crecimiento mesurado y el desarrollo humano del sur”. García Camarero sostiene una decrescita compatibile con il marxismo, costruita in modo orizzontale e apertamente anticapitalista.

Quali novità comporta la decrescita rispetto all’ecologismo tradizionale?

Penso che il fondamento dell’ecologismo sia, in termini generali, osservare e denunciare i mali che si producono sulla natura, ma senza soffermarsi troppo a considerarne le cause, cioè lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, cosa che implica anche lo sfruttamento della natura da parte dell’uomo. Per questo motivo, perché contiene queste premesse, il marxismo mi ha sempre interessato. L’ecologismo ha criticato molte volte il marxismo per essere eccessivamente operaista e produttivista, a volte a giusta ragione. Ma personalmente difendo una decrescita correlata al marxismo, che elimini lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il lavoro alienato, il consumismo e il produttivismo. Queste idee si possono ritrovare nel pensiero di Marx.

Lei punta a una decrescita compatibile con il marxismo. Anche con la socialdemocrazia e con sindacati come le CCOO y UGT [Comisiones Obreras e Unione Generale del Lavoro, sindacati spagnoli, N. d. T.]?

Decrescita e socialdemocrazia non sono compatibili. La socialdemocrazia propende per il produttivismo. Quanto ai sindacati, potrebbero mettere in atto un grande lavoro per radicare le idee decresciste, ma se fossero dei sindacati che agissero in modo diverso rispetto alle CCOO e l’UGT. Penso che, invece di rivendicare aumenti salariali per aumentare il consumo, dovrebbero puntare a una riduzione dell’orario di lavoro, con l’obiettivo di trasformare il lavoro in un’attività volontaria e creativa. Il che avrebbe come fine la realizzazione personale e la qualità della vita delle persone. Ci vorrebbero dei sindacati che difendessero questi principi.

Alcune obiezioni alla decrescita. C’è chi sottolinea che non critica in modo sufficiente la proprietà privata dei mezzi di produzione.

È vero che ci sono correnti anglosassoni che mettono l’accento sul ritiro in campagna o nei villaggi, e mettono in evidenza anche strade di tipo mistico. Ma una parte significativa di autori invece fanno questa critica alla proprietà privata dei mezzi di produzione. La denuncia è implicita quando si indica che, come minimo, il 50% di quanto consumiamo sono pseudobisogni, dettati in buona misura dalle mode. E anche quando si critica l’obsolescenza programmata, cioè la produzione di oggetti deperibili a breve scadenza con l’unico fine di non far smettere di funzionare il meccanismo capitalista.

Si può anche obiettare che la decrescita può essere proposta nei Paesi ricchi (nei quali c’è crescita economica) ma non alla periferia del sistema.

In questo momento sto lavorando a un libro che ha per titolo “La crescita misurata”. Questo sarebbe il concetto giusto, che a mio parere dovrebbe essere applicato ai Paesi del sud. Una crescita che garantisca un livello minimo di qualità della vita senza ripetere gli stessi errori commessi in occidente. Si concretizzerebbe in centri educativi, ospedali e tutte quelle infrastrutture che mettano le basi per uno sviluppo umano.

In uno dei suoi libri ha sostenuto una “decrescta felice”. Su quali premesse?

In primo luogo, formulo una distinzione tra due tipi di decrescita, che definisco come “felice” e “infelice”. Quest’ultima è quella che vediamo oggi, con i tagli alla sanità, all’educazione e alle pensioni nel contesto dell’attuale crisi. Al contrario, la decrescita “felice” intende superare l’insoddisfazione prodotta dal consumismo e inoltre si lega allo sviluppo umano. Questa idea non è mia, la sviluppa Manfred Max Neef nel libro “Lo sviluppo a misura d’uomo”. Questo autore spiega fondamentalmente che la felicità consiste nel soddisfare le necessità di base dell’essere umano, e distingue: affetto, sussistenza, protezione, comprensione, partecipazione, ozio, creazione, identità e libertà.

Un concetto chiave per le teorie della decrescita è l’“impronta ecologica”...

È così. È il quoziente della divisione tra la superficie produttiva del pianeta e il numero di persone che lo abitano. Il risultato è di 1,8 ettari a persona. O, il che è lo stesso, l’“impronta ecologica” a persona che il pianeta è capace di sopportare. Se si supera, si produce un grave deterioramento della natura. E attualmente la media è di 2,2 ettari a persona. Orbene, l’“impronta ecologica” non si distribuisce in modo omogeneo: quella di un cittadino medio degli Stati Uniti è di 5 ettari; quella di uno spagnolo di 3 ettari, e quella di un indiano 0,8 ettari. In conclusione, c’è chi non è arrivato al limite mentre altri lo superano.

Nell’attuale contesto di crisi a sinistra si è soliti auspicare un keynesianismo basato sull’aumento della domanda. Come possono radicarsi le idee decresciste?

Credo che possano radicarsi spiegando alla gente l’impossibilità della crescita economica per tre ragioni. Primo, per l’impronta ecologica, che supera già la capacità del pianeta. In secondo luogo, sappiamo -per l’ applicazione del principio dell’entropia- che in ogni processo di produzione di energia si ha un residuo energetico che non è possibile riciclare. E infine rappresenta un’autentica chimera aspirare a una crescita illimitata a partire da risorse limitate.

È possibile una società basata globalmente sulla decrescita o questa idea sarebbe più applicabile in nuclei locali o piccoli gruppi autogestionari?

La decrescita è totalmente incompatibile con l’autoritarismo. Dev’essere costruita, pertanto, dal basso verso l’alto. Inoltre si tratta di un movimento di democrazia partecipativa e di azioni orizzontali, che possono essere molto diverse. Come ho letto una volta che dicevano alcuni indigeni d’America, “gente piccola facendo cose piccole in posti piccoli può cambiare il mondo”. Una riflessione molto saggia, senza dubbio.

Nelle tue conferenze insisti su un punto: non si tratta di andare contro il consumo, ma contro il consumismo.

È così. Negli anni ‘60, per l’influenza del maggio francese, venne formulata una critica radicale alla società del consumo della quale molti di noi siamo eredi. Ma più che contro il consumo, c’è da lottare contro il consumismo. Consumare è sano e indispensabile, anche prodotti sofisticati. E ci sono decrescisti che questo non lo hanno chiaro. Aspirano solo a una vita ritirata in campagna. A mio parere dobbiamo salvare il concetto del “vivir bien”, radicato nelle culture andine. E per questo è necessario consumare, questo sì, senza sprecare né dilapidare.

Nel frattempo, quali iniziative potrebbero aprire la strada in direzione della decrescita?

C’è una moltitudine di piccole cose che possono essere fatte. Per esempio, promuovere i mercati dello scambio, le cooperative di consumo, orti urbani, banche del tempo. Iniziative concrete che permettano di rifuggire dal denaro e, quanto più essenziale, uscire dal capitalismo. Non ci può essere decrescita senza uscire dal capitalismo. E per questo, insisto, dobbiamo abbandonare il consumo di pseudobisogni.

Articolo originale: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=136452