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Il perdono è l’atto fondamentale nel processo della crescita spirituale

di Francesco Lamendola - 04/10/2011




Che cosa vuol dire perdonare?
La parola italiana deriva dal latino medievale ed è attestata dal X secolo; essa indica il fare atto di donazione per eccellenza.
È significativo il fatto che essa non derivi né dal greco, né dal latino: ciò attesta l’origine recente del concetto ed evidenzia la sua connessione con la diffusione della mentalità cristiana.
Nel mondo antico l’idea e la pratica del perdono esistevano, naturalmente, ma erano limitate alla sfera della volontà individuale: non discendevano da un valore acquisito e universalmente riconosciuto nella sfera dell’etica.
In greco esisteva il verbo «aphiemi», usato anche da Omero, che significa sciogliere, mettere in libertà, rinunciare a qualcosa; designava dunque un atto di generosità libero e spontaneo che la società greca antica, nel suo complesso, non poneva certo al vertice dei suoi comandamenti; e lo stesso vale per il latino, in cui troviamo il verbo «ignoscěre» ed il sostantivo «venia» (quest’ultimo sopravvissuto nell’aggettivo «veniale» e nell’espressione «chiedere venia»), che hanno però entrambi una pregnanza assai minore rispetto al nostro «perdonare».
Le parole acquistano forza quando acquista forza il concetto che esse esprimono: e in tutto il mondo antico, sia in quello semita, sia in quello indoeuropeo, il concetto forte non era quello del perdono, ma quello della vendetta; e ciò non solo, come è facile immaginare, nel contesto delle società guerriere, come l’assira o la greca o la romana, ma anche presso quelle agricolo-pastorali,  come lo era l’ebraica.
Nell’Antico Testamento il concetto di perdono è adoperato quasi esclusivamente per indicare la bontà di Dio che condona all’uomo le sue colpe, non nelle relazioni fra uomo e uomo; qui vige, al contrario, la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente, vita per vita.
La vera rivoluzione del perdono è quella aperta dal Nuovo Testamento, ove il termine «aphiemi» è usato quasi centocinquanta volte ed è affiancato a un altro verbo greco, «hilaskomai», che indica l’azione di espiare, di placare Dio, di chiedere misericordia.
Gesù Cristo ne ha fatto un punto capitale del suo insegnamento: a Pietro che gli domanda se si deve perdonare fino a sette volte, numero simbolico che indica “molto”, risponde che si deve perdonare non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette, cioè sempre.
Egli ritorna più volte sul tema ed evidenzia che gli uomini saranno perdonati da Dio nella misura in cui sapranno perdonare il proprio simile: «… e rimetti a noi i nostri debiti, così come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Con la parabola del re e del debitore insolvente, al quale ultimo tutto viene condonato, ma che è poi gettato in carcere perché non ha voluto fare altrettanto con il proprio fratello, egli ribadisce il concetto che la nostra capacità di perdonare sarà la misura del giudizio di Dio verso di noi.
Alcune parabole, inoltre, affrontano il tema collaterale della gelosia verso chi viene perdonato (il figlio prodigo, i lavoratori della vigna); che, per la mentalità veterotestamentaria, doveva essere centralissimo, in quanto il perdono divino, così come lo insegnava Gesù, urtava frontalmente l’idea di Dio concepito soprattutto come Giustizia e solo secondariamente come Amore.
Tutta la dottrina di Cristo sul perdono è poi riassunta e mirabilmente trasformata in pratica concreta nelle ultime parole che egli pronuncia mentre già gli aguzzini lo stanno inchiodando alla croce, che è una sublime preghiera rivolta a Dio misericordioso: «Padre, pedona loro, perché non sanno quello che fanno».
Il perdono è anche al centro della teologia paolina; nella Lettera ai Romani, il testo dottrinale più importante del Nuovo Testamento, l’apostolo parla del perdono sia come atto gratuito di Dio nei confronti dell’uomo, sia come dovere dell’uomo verso il proprio simile.
In 4, 7-8, infatti, afferma: «Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate e i peccati sono stati ricoperti; beato l’uomo al quale il Signore non mete in conto il peccato!»; e poi, in 12, 14, aggiunge: «Chiedete a Dio di benedire quelli che vi perseguitano; di perdonarli, non di castigarli»: dove però, a guardar bene, non è l’uomo che perdona il proprio fratello peccatore, ma è sempre Dio che perdona, su preghiera dell’offeso che intercede a favore dell’offensore. Questo è un punto di capitale importanza; ci ritorneremo più avanti.
San Francesco d’Assisi, il quale, nel Medioevo, è stato poco meno che un rifondatore pratico del cristianesimo, mette il perdono dei fratelli proprio nel mezzo del «Cantico delle creature», dicendo: «Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore» e mostrando di coglierne perfettamente la portata rivoluzionaria e, al tempo stesso, la dimensione normativa.
La centralità della dottrina del perdono non si trova né nell’ebraismo, né nell’islamismo; nell’induismo, e soprattutto nel buddismo, essa è compresa nel più ampio concetto di “compassione”, che non è essenzialmente un relazione con un “tu” concreto, quanto una relazione cosmica e, perciò, impersonale.
In alcuni Paesi a maggioranza musulmana, ad esempio nell’isola di Sumatra, le piccole minoranze cristiane sono molto apprezzate appunto perché possiedono il concetto e la pratica del perdono, unico rimedio alla violenza infinita delle faide tribali, per cui vengono spesso richieste di fare opera di mediazione. Nella cultura islamica tradizionalista, infatti, la vendetta è un valore molto più sentito del perdono; e ciò comporta una oggettiva difficoltà a disinnescare le dinamiche distruttive del conflitto.
Storicamente, dunque, l’idea del perdono, così come noi la possediamo, è figlia del cristianesimo, piaccia o non piaccia alla cultura laicista; è vero che taluni filosofi moderni, come il Nietzsche, vi hanno visto la trappola di una forma sottile di malignità, consistente nell’esercitare un potere invisibile sul proprio offensore o, addirittura, un risentimento dissimulato, ma non per questo meno aggressivo e potenzialmente distruttivo, da parte di colui che perdona.
Questa critica ci porta dal terreno storico al terreno etico e ci suggerisce un approccio diretto alla questione del perdono, facendo astrazione, per quanto possibile, dal suo retroterra culturale: posto che l’idea che si DEBBA perdonare è di matrice cristiana, è essa valida in se stessa?
Non ci soffermiamo sulla sterile discussione se metterla in pratica sia cosa facile o difficile: molto più interessante è stabilire se sia giusta e necessaria; se lo è, allora non ha senso vezzeggiare la propria debolezza dicendo che essa è difficile da attuare; se non lo è, il discorso cade in partenza e noi saremo dispensati da qualunque sforzo in tal senso.
Del resto, che essa presenti un certo grado di difficoltà possiamo darlo benissimo per assodato: sia perché chiunque ne abbia esperienza, anche limitata e imperfetta, lo sa bene; sia perché, se il cristianesimo si è sforzato di imporla quale fondamento di una morale dell’uomo nuovo rispetto all’uomo antico, amante della guerra e legato al “dovere” della vendetta, ciò significa che non si tratta di un impulso naturale e quindi, automaticamente, che non è facile da attuare.
Qui potrebbe insorgere una difficoltà preliminare: se l’attitudine a perdonare non fa parte della natura originaria dell’uomo, ciò non vuol forse dire che la volontà di perseguirla impone alla natura un peso che non le è, appunto, connaturato? E non si dice sempre che ciò che è secondo natura è bene, mentre ciò che vi si oppone è male?
Partiamo dal secondo interrogativo. È certamente vero che ciò che è secondo natura, è bene; ma si tratta, appunto, di riconoscere cosa sia realmente secondo natura: il che, nel caso dell’uomo, non può ridursi agli istinti animaleschi, a cominciare da quello della vendetta, perché la natura dell’uomo è varia e complessa e, in essa, il piano del naturale è incluso nel piano del soprannaturale e non viceversa.
Se si nega questo fondamento ontologico; se si nega, cioè, che nella natura umana sia presente un elemento soprannaturale (lasciamo impregiudicata, in questa sede, la domanda se tale elemento non possa darsi anche negli altri esseri viventi, perché ci porterebbe troppo lontano dal nostro assunto), e ovviamente si è padronissimi di farlo, la si mutila però, a nostro avviso, in maniera irreparabile e si smarrisce il senso complessivo del suo essere nel mondo.
Sia come sia: è impossibile affermare cosa in essa sia presente in modo originario e cosa non lo sia, proprio perché l’uomo, così come noi lo conosciamo, non è soltanto natura, o almeno non lo è più, ma anche e soprattutto cultura; perciò dovrebbero essere molto cauti i materialisti, allorché sostengono di sapere quali siano i veri istinti dell’uomo.
Poniamo il caso che, nella natura umana, vi sia l’istinto della vendetta piuttosto che quello del perdono; è possibile: ma da ciò non deriva che dare libero corso all’istinto della vendetta sia cosa preferibile al perdonare; per fare ciò, bisognerebbe anche avere la certezza che la vendetta sia un bene per l’uomo e non un male, rispetto al perdono: che è appunto quanto vorremmo capire e non possiamo, pertanto, dare per dimostrato.
Quel che vogliamo dire è che, nella natura umana, vi sono certamente degli istinti che ci indurrebbero a compiere tutta una serie di azioni, le quali però, palesemente, si ritorcerebbero contro di noi: per esempio, quello di mangiare per pura avidità, oltre il limite del necessario, fino a star male; ne deriva che tali istinti, pur essendo naturali, vanno comunque tenuti sotto controllo, ciò che la natura umana, essendo anche razionale, può e deve fare, per non danneggiare il proprio organismo.
E non si obietti che il desiderio di mangiare oltre la misura del necessario non è un istinto primario, ma un fatto culturale indotto dalla “civiltà”, con il facile argomento che non lo si osserva negli animali. Infatti, a parte che non ne sappiamo abbastanza sul comportamento animale verso il cibo, specialmente in tempi di penuria alimentare, resta il fatto che noi, uomini “civili”, non siamo più in grado di dire quali istinti fossero primari e quali no, perché ne abbiamo smarrito la memoria e ciò a livello di specie e non già di singoli individui.
Quel che è lecito dire, intorno alla natura umana, è che taluni istinti, o impulsi, o comunque li si voglia chiamare, vanno controllati; perché, diversamente, l’organismo ne risentirebbe gravemente e la sua stessa sopravvivenza potrebbe trovarsi in serio pericolo. Ora, può darsi benissimo che l’istinto della vendetta sia uno di questi e che il suo contrario, ossia la capacità di perdonare, sia invece tanto indispensabile alla sopravvivenza della specie, quanto al benessere interiore del singolo individuo.
Di fatto, gli antropologi hanno osservato che le società basate sulla pratica di vendicare nel sangue le offese vivono in uno stato di tensione permanente, con i singoli membri terrorizzati all’idea di poter essere uccisi in qualsiasi momento e con l’interro gruppo esposto al pericolo concreto della distruzione totale o della disgregazione strisciante, perché in esse la minaccia non viene soltanto dal di fuori, ma è presente anche all’interno e non vi è mai sicurezza, da nessuna parte.
Non si creda che sia necessario andare presso qualche tribù di tagliatori di teste del Borneo o delle Isole Salomone per trovare casi del genere.
È stato calcolato che, in una piccola regione montagnosa dell’Albania settentrionale, dal 1991 ad oggi sono state uccise, in una faida tra famiglie, non meno di 1.000 persone: il tutto è iniziato quando un uomo ne uccise un altro, in una osteria, dopo che quest’ultimo aveva insultato la famiglia del primo. La spirale distruttiva è stata così violente e inarrestabile che decine e centinaia di bambini sono stati tenuti segregati in casa dalle rispettive famiglie, per mesi ed anni, talvolta senza mai frequentare la scuola, per il timore che venissero uccisi.
Ma ora lasciamo perdere i casi documentati di vendetta implacabile, dei quali, purtroppo, sono piene anche le nostre cronache quotidiane, talvolta per motivi assurdamente futili, e torniamo a porci la domanda in termini non storici, ma filosofici, cioè generali: è cosa buona e giusta perdonare le offese?
E, comunque, è cosa migliore del suo contrario, cioè il praticare la vendetta o, quanto meno, sognarla e accarezzarla, pur senza abbandonarsi materialmente ad essa?
Il vocabolario ci aiuta a riflettere sulla questione; la definizione che esso dà dal verbo perdonare è (Devoto-Oli): «Dimostrare indulgenza e generosità d’animo nei confronti di chi ha procurato un danno o recato un’offesa, rinunciando a qualsiasi proposito di vendetta, di punizione o di rivalsa; condonare parzialmente o totalmente una punizione; nel linguaggio devoto, indica la remissione dei peccati da parte di Dio».
Se così stanno le cose, è evidente che chi perdona è la vittima e chi viene perdonato, che domandi egli perdono oppure no, è l’offensore; ma qui sorge immediatamente una difficoltà pressoché insormontabile: chi può dirsi vittima totalmente innocente?
Alla quale, poi, ne seguite subito un’altra, se possibile ancora più ardua: siamo sicuri che la vittima, per il fatto di essere vittima, non goda già di un risarcimento morale agli occhi della società e che non sia tentata di sfruttare questo vantaggio - un vantaggio paradossale, certo: ma l’essere umano non si comporta sovente in maniera paradossale? - per prolungare oltre i limiti del lecito la sua pretesa di giustizia, magari rifacendosi su chi non c’entra per nulla, ad esempio gli eredi o i successori di quanti le recarono danno od offesa?
Lo sappiamo bene: questo è un discorso duro e sgradevole e nessuno vorrebbe farlo; pure, è necessario affrontarlo ugualmente: non si può ignorare il fatto che, talvolta, anche la vittima abbia la propria parte di responsabilità nel danno o nell’offesa che ha ricevuto; e, più ancora, non si può ignorare che ella tende a rivalersi oltre i limiti del giusto e dell’umano e a pretendere, quanto meno, una sorta di risarcimento morale permanente, consistente nell’eterna condanna dell’offensore e nell’eterno ricatto verso la società intera, accusata, magari, di essere stata complice, e sia pure passiva, dell’azione dannosa o dell’offesa che è stata perpetrata.
È un discorso sgradevole, lo ripetiamo e preferiremmo non farlo; pure, è necessario: non è forse vero che sovente, ad esempio, una persona che è stata investita da un automobilista sfrutta più che può la situazione per estorcere alla propria controparte giudiziaria, ossia all’investitore, somme sproporzionate di denaro, talvolta mandandolo letteralmente sul lastrico, e ciò al di là di ogni ragionevole risarcimento? Vi sono sentenze di tribunale che stabiliscono il pignoramento della casa dei genitori dell’investitore e ciò, ci sia lecito dirlo, corrisponde alla forma più bassa e più vile di vendetta: quella che pretende di trasformare la condizione di vittima in professione e quasi in rendita vitalizia, che consente di vivere a spese degli altri, senza dover lavorare e anzi sentendosi perfettamente dalla parte del giusto.
Una cosa, invece, ci appare chiara: tutti gli uomini subiscono ferite e parimenti le infliggono: non vi è, sotto il cielo, un solo essere umano che non sia stato ferito da qualcun altro, talvolta involontariamente, talvolta, invece, con piena consapevolezza e con malignità. Dunque, tutti sono vittime e offensori al tempo stesso; nessuno è mai solamente vittima e nessuno, probabilmente, è mai solamente offensore.
Questo non significa che le ferite siano tutte della stessa entità, questo è evidente: non c’è neppure bisogno di precisare che una cosa è infliggere una ferita lieve, nel corpo o nell’anima di un proprio simile (limitiamoci, per ora, al regno umano, molto però si potrebbe dire anche delle sofferenze inflitte ai viventi non umani) e un’altra cosa, e ben diversa, è infliggere ferite gravi o gravissime; e tuttavia, a costo di venire accusati, come qualcuno certamente farà, di relativismo e peggio, ossia di voler confondere i rispettivi ruoli dei carnefici e delle vittime, siamo convinti che, da un punto di vista superiore, tutti gli uomini sono tanto dei carnefici, quanto delle vittime, sebbene in diversa misura e con differenti responsabilità.
D’altra parte, è giusto tener conto che la risonanza di una ferita può essere imprevedibile e dipende, in larga misura, dalla struttura psicologica e spirituale della vittima; non sempre colui che l’ha inferta intendeva provocare un male così grande, forse pensava solo di reagire a una provocazione o di difendersi da una minaccia. Il confine tra vittima e aggressore è più sottile di quel che non si creda, perché raramente il Bene e il Male, nel mondo umano, sono totalmente distinti e separati; accade molto più spesso che siano intrecciati inestricabilmente.
Tuttavia, per amore di chiarezza, immaginiamo il caso più semplice: quello in cui la differenza di ruolo fra vittima e offensore sia nettissima e inequivocabile; e, inoltre, in cui il secondo abbia agito con piena premeditazione, cercando di infliggere il massimo danno alla prima. Ebbene: chi è l’uomo per rifiutarsi di perdonare qualcun altro? Più ancora: chi è mai per concedere ad altri il proprio perdono, come se in lui non vi fosse alcuna traccia di colpa?
Se è vero che solo il perfetto innocente può perdonare, allora è cosa certa che nessun essere umano si trova in una posizione tale. Ricordiamo le parole di San Paolo: quel che l’uomo può fare, davanti ad un torto ricevuto, è di chiedere a Dio di perdonare colui che glielo ha inflitto, di benedirlo e di risparmiargli il meritato castigo.
Presumere di più, significherebbe, per l’uomo, trascendere la propria misura e farsi Dio egli stesso, Dio di se medesimo: che è stato appunto il peccato originario, secondo il racconto biblico, del primo uomo e della prima donna, provocato dal desiderio di non morire mai e di acquisire uno statuto ontologico superiore a quello della semplice creatura.
Naturalmente, vi sono anche delle ragioni di ordine pratico per concedere il perdono a coloro che ci hanno offeso o danneggiato in vario modo; o, per dir meglio, per chiedere a Chi sa e può perdonare, di farlo al posto nostro.
La più importante di tali ragioni è di ordine, se si vuole, strettamente utilitaristico: il perdono genera la pace dell’anima, mentre il desiderio di vendetta la allontana irrimediabilmente da noi e la sostituisce con l’ansia, la rabbia, l’amarezza. Vi sono persone che si ammalano, fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, per l’incapacità di rimettere le offese e per la caparbia, implacabile volontà di accarezzare pensieri di vendetta.
Si dirà che è possibile negare il perdono a qualcuno, pur senza desiderare vendicarsi; che, cioè, si è disposti ad abbandonare l’idea della rivalsa, ma non la rabbia, il risentimento, l’amarezza verso colui che ci ha fatto del male e che, magari, è una persona alla quale volevamo bene o nella quale avevamo riposto la fiducia.
Si tratta di un sofisma: il desiderio di vendetta desidera il male dell’altro e, se non arriva a perseguirlo materialmente, è solo perché ne teme le conseguenze o perché aborre di scendere sullo stesso terreno dell’aggressore; ma il desiderio rimane, come una sete implacabile, e avvelena i pensieri e la vita interiore dell’offeso: anzi, il suo persistere senza che venga soddisfatto, alla lunga genera una vera e propria cancrena dell’anima.
Per parlare più propriamente: chi parla a quel modo vorrebbe vendicarsi, ma non ne ha il coraggio oppure teme di sporcarsi moralmente: ma è comunque prigioniero del proprio desiderio di vendetta, che, per il fatto di non potersi sfogare, imputridisce ed intossica tutta la sua vita interiore, rendendola simile a un inferno, l’inferno del rancore e del risentimento.
Può sembrare incredibile, ma vi sono persone che coltivano tali sentimenti negativi, per la semplice ragione che non hanno il coraggio di affrontare il presente; preferiscono ripiegare sul passato, in cui alimentano con sempre nuovo combustibile le fiamme del loro risentimento: è una ben misera forma di gratificazione, eppure, per esse, tutto sommato appare meglio di niente, il niente che sarebbe la loro vita se non avessero dei ricordi dolorosi da rimestare e dell’odio da attizzare in continuazione.
Perciò non si tratta di vedere se perdonare sia facile o difficile; ammesso e non concesso che perdonare dipenda da noi e non da qualcun Altro, tutto quel che dovrebbe interessarci è se convenga alimentare in se stessi le fiamme del desiderio di vendetta oppure se non sia meglio, per noi, placarle e spegnerle una volta per tutte, ricominciando a guardare avanti.
Due ultimi interrogativi: si può perdonare chi non mostra segni di pentimento? E si può perdonare chi ha fatto del male non a noi, ma ad altri, per esempio a delle persone a noi care?
Per rispondere ad essi bisogna rifarsi alle considerazioni generali sopra sviluppate e ci si accorgerà che è possibile rispondere affermativamente ad entrambi: né l’uno, né l’altro caso, infatti, contraddicono le linee generali del nostro ragionamento.
Fatta sempre salva la premessa religiosa del nostro discorso: se la natura umana comprende una dimensione soprannaturale, allora non è l’uomo, propriamente parlando, ma la grazia divina che è in lui, a concedergli la capacità di domandare a Dio che perdoni chi ha compiuto il male; e se Dio perdona, chi è mai l’uomo per rifiutarsi di farlo a sua volta?