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Dalla Brianza al mondo: lo scrittore Eugenio Corti.

di Andrea G. Sciffo - 04/10/2011

 



 

 

L’incontro fra Paese Reale e Paese Legale

L’occasione offerta dal fatto che le parole e le opere di Eugenio Corti giungano oggi all’attenzione delle Istituzioni e in particolare della Camera dei Deputati ha il significato di un incontro tra Paese Reale e Paese Legale: in altri termini, avviene qui e ora il contatto tra un’opera d’arte “nazionale” e il suo destinatario politico “nazionale”.

Sì perché le milleduecento pagine del romanzo maggiore di Corti, Il Cavallo Rosso e almeno le due prove narrative che lo precedono e lo seguono (il diario di guerra I più non ritornano e Gli ultimi soldati del re), esprimono ancora oggi la vox populi di un’Italia che è uscita dalle dure prove del Dopoguerra, della Ricostruzione, del Miracolo Economico e degli Anni di Piombo. In un certo senso, a parlare, nei romanzi di Corti, è un’altra Italia cioè quella che di fronte ai drammi e alle sfide del secondo Novecento ha proposto un modo di vivere “civile”, mite e operoso, a volte inconsapevole e generoso: un modo di vivere che ha soretto la società e le istituzioni sino alle soglie degli anni Ottanta.

Quando cioè uscì Il Cavallo Rosso, questo epico romanzo dal titolo enigmatico, semiclandestinamente pubblicato nel 1983 da un piccolo editore controcorrente; da allora, si sono susseguite ventisette riedizioni e traduzioni in molte altre lingue. Ma soprattutto è diventato un caso di “letteratura popolare” nell’epoca contemporanea, nel tempo cioè dei best-seller: è accaduto che persone di qualunque ceto e istruzione apprezzassero l’opera, consentendone la diffusione quasi in un passaparola. È questo il metodo “democratico” della letteratura cortiana: cioè di un insieme di scritti la cui forza politica è aver dato voce a chi non ha avuto voce in mezzo secolo di vita civile nazionale.

Si verifica finalmente oggi, qui e ora, quell’incontro tra Paese Reale (impersonato dalle migliaia di lettori entusiasti) e Paese Legale auspicato per decenni da Giacomo Noventa, il pensatore irregolare che osava definire alla pari fascismo e antifascismo in Italia, leggendo il primo come un “errore della cultura” e non “contro” la cultura idealistica del primo Novecento.

Ma l’occasione odierna è gravida di tanti altri auspici: bisogna fare il nome se non altro di Augusto Del Noce, che proprio qui fu senatore dal 1983 tra gli indipendenti della DC, e che fu il filosofo della politica che vide nella storia italiana “il suicidio della rivoluzione” costruita dalla mentalità moderna. E poiché si è fatto il nome di Noventa e di Del Noce, è chiaro che la questione di cui si tratta, di fronte all’opera di Eugenio Corti, è la questione lasciata in sospeso persino da Maritain: ovverosia, la natura della democrazia in Europa nel XX secolo.

 

La domanda di Pierello

La Mostra che oggi s’inaugura è un percorso di interpretazione dell’opera cortiana che tiene conto di tutta questa profondità di apporti: è in un certo senso un lavoro “corale”. Non solo perché i lettori si possono riconoscere nelle immagini allegate ai testi (spiccano le rare foto di Don Carlo Gnocchi cappellano delgi alpini) e non soltanto perché un gruppo di studenti del Liceo Don Gnocchi di Carate Brianza (qui presenti) ha contribuito, con il proprio studio, alla realizzazione dei materiali.

È proprio la pretesa di risposta alla questione centrale del nostro tempo, che differenzia per natura Il Cavallo Rosso da altri romanzi di testimonianza, di reduci, di militaristi e anti-militaristi: qui si tratta di capire da dove viene il ‘900 e come fare per uscirne. È la domnda che si pone, tra sé e sé, il personaggio Pierello quando si chiede “cosa diavolo stava succedendo in fin dei conti…? Dopo la guerra, il benessere di tutti era cresciuto, il popolo, gli operai […]” (pag.1254).

Ecco perché nel presente lavoro sono coinvolti i massimi teorici della filosofia e della cultura novecentesca (i già citati Noventa, Del Noce), però vi sono coinvolti assieme a degli adolescenti, gli studenti di liceo di cui sopra, che si sentono premere dalle medesime domande degli illustri maestri. E che hanno oscuramente capito che la letteratura non è intrattenimento, e non è fine a se stessa: la letteratura serve.

 

Una via d’uscita certa

Ci sono due pagine de Il Cavallo Rosso che illustrano, pur parlando del passato, il nostro presente attuale: nella prima, c’è un dialogo tra l’ufficiale Manno e i suoi soldati, in addestramento, subito dopo lo sbandamento dell’esercito italiano l’8 settembre 1943. I quali gli dicevano:

 

      “Ma alla fine di questo corso” gli obiettava con amarezza qualche allievo “noi non sappiamo neppure se riceveremo la nomina a sottotenente o no. (…) Signor tenente: noi a volte ci chiediamo se il nostro studiare non sia semplicemente inutile.”

 

Per niente scoraggiato dalla liquefazione del grosso delle forze militari, Manno rimane inquadrato e si dà a istruire gli allievi ufficiali di complemento a Murgiano rispondendo loro così:

 

      “No. Non fosse perché, rifiutando di studiare, favorireste per quanto vi riguarda questo tremendo caos in cui stiamo sempre più sprofondando. Ci sono dei momenti, a volte periodi di pochi mesi, in cui si gioca il futuro di un popolo per molto tempo. E noi ci troviamo in uno di tali momenti, come non ve ne rendete conto?” (pp.679-680)                                                                                              

Questa è la proposta culturale e politica di Eugenio Corti: una ricostruzione della nazione italiana a partire dalla libera adesione del popolo al sacrificio comune connesso a qualunque progetto di ricostruzione, di uscita dalla crisi.

L’altra pagina mirabile è al termine del colloquio tra un personaggio, un frate missionario in procinto di partire per l’Africa equatoriale nel 1955 e i suoi anziani genitori, industriali brianzoli di estrazione popolare e in quel momento assediati dai debiti delle loro aziende. La tribolazione economica trova anch’essa il suo senso, nelle parole che padre Rodolfo (questo è il nome del personaggio) rivolge ai propri genitori:

 

      “questa grossa prova è voluta da lui, a fin di bene. Vi impedirà, a tutti, di diventare ricchi, come c’era effettivamente il pericolo (...). Il pericolo c’era: che prendessimo gusto alla ricchezza, che attaccassimo il cuore all’abbondanza materiale”.

 

Mi sembra superfluo, e offensivo, aggiungere qualunque commento. Questa è la tempra della narrativa di Corti, questa la direzione del suo andare dalla Brianza al mondo, questa la sua politica “poetica” e morale: la prospettiva è evidente a quegli adulti e a quegli studenti che davvero vogliono costruire, domani. Come scrisse l’autore stesso sul finale del suo libro:

 

“Aveva messo mano a una grande opera narrativa… per quelli che, domani,. Dovranno pur accingersi a ricostruire” (p.1256)