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Primavera araba?

di Alain de Benoist - 04/10/2011

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Nessuno aveva previsto la "primavera araba", ma sono stati in molti a commentarla. Si è chiosato sulla «caduta delle dittature», sull'aspirazione alla libertà di popoli finalmente ridiventati padroni del proprio destino. Si è insistito sull'importanza delle questioni economiche e sociali, sulle quali gli occidentali fino a quel momento erano rimasti ciechi. Si è predetto un «ritorno alla democrazia», naturalmente concependola in base al modello occidentale. Si è detto, infine, che gli americani sarebbero ormai obbligati a prendere nella debita considerazione la "piazza araba", di cui sino ad oggi si sono fatti beffe. Tutto ciò resta da verificare.
Quel che è vero è che i tunisini e gli egiziani non sopportavano più il saccheggio dello Stato da parte dei cartelli e dei clan familiari al potere, il dispotismo e l'autoritarismo senza limiti dei dirigenti politici, la corruzione generalizzata e il dirottamento dei beni comuni. Ma è stato davvero il popolo l'attore principale di queste manifestazioni di collera?
Le rivolte sono state fortemente cittadine e borghesi, poco operaie o contadine. Sono stati piuttosto «moti dettati dalla frustrazione», come li ha definiti Olivier Roy, quelli ai quali abbiamo assistito. Ed il fattore decisivo è stato il sostegno dell'esercito, un appoggio così netto che ci si può chiedere se le "rivoluzioni popolari" non siano state anche dei colpi di Stato militari mascherati.
Non ci si devono nascondere neanche le profonde differenze di situazioni che continuano ad esistere nel mondo arabo. Il fatto più significativo è la scomparsa dei movimenti che si richiamavano ad un nazionalismo laico, alla maniera del socialismo nazionale di un Gamal Abdel Nasser o del baathismo siroiracheno. Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli Stati Uniti, che erano preoccupati per le loro posizioni "filosovietiche", si sono impegnati a farli arretrare a profitto di movimenti islamisti considerati meno pericolosi. Il sostegno offerto agli estremisti islamici all'epoca dell'occupazione russa dell'Afghanistan, poi l'attiva promozione del salafismo e del wahabismo saudita da parte delle monarchie petrolifere del Golfo, infine l'eliminazione del regime laico di Saddam Hussein, hanno rappresentato le tappe principali di questa politica. Successivamente, in alcuni casi, gli islamisti si sono rivoltati contro i loro protettori, ma il nazionalismo laico non è riapparso.
Neanche il vecchio islamismo, tuttavia, ottiene grandi consensi. D'altro canto, contrariamente a quanto taluni predicevano, gli islamisti non sono stati alla testa del movimento della scorsa primavera. Certo, nelle società arabe l'affermazione identitaria rimane profondamente legata alla pratica religiosa ed alla dimensione sociale dell'islam. Ma queste fanno ormai riferimento ad un islam differente. Un islam liberato sia dal vocabolario allucinato della speranza escatologica del jihadismo, sia dal letteralismo wahabita. La nuova generazione non vuole tanto un islam politico, quanto piuttosto una islamizzazione conservatrice della società. Resta fermamente musulmana ma ha anche constatato l'insuccesso del neofondamentalismo, tanto in Arabia Saudita quanto in Iran. Da tempo ormai Bin Laden non, è più un modello e gli stessi Fratelli musulmani, in Egitto, sono dei conservatori-liberali, adepti di valori conservatori e di un "islam di mercato".
Dato che il concetto di Stato islamista non è più all'ordine del giorno, a profilarsi all'orizzonte è la via turca. Il paese che ser ve da punto di riferimento è ormai infatti la Turchia di Erdogan, e con essa il partito islamico moderato che dirige questo paese da otto anni. Vicina nel contempo alla Russia e all'Iran, la Turchia, il cui peso in Medio Oriente non ha mai cessato di crescere da quando ha preso le distanze dagli Stati Uniti d'America e mostrato la propria ostilità nei confronti della politica israeliana, appare oggi un esempio di matrimonio riuscito fra islam e democrazia, mentre il riposizionamento "neo-ottomano" («turaniano») della sua diplomazia, oggi uscita dall'antica tutela militare, inquieta le cancellerie occidentali. Gli Stati Uniti si interessano innanzitutto alle ricadute del risveglio arabo sull'ordine geopolitico. Hosni Mubarak era, insieme ad Israele, un pilastro della loro politica regionale da trent'anni a questa parte. La Tunisia di Zine el-Abbidin Ben Ali era, loro favorevole, così come il regime di Saleh in Yemen. Si tratta adesso, per loro, di ritrovare i mezzi per controllare la regione, e il problema consiste nell'essere certi che i nuovi gruppi dirigenti non rimetteranno in discussione l'alleanza con Washington, il sostegno agli accordi di Camp David del 1978 e neppure la opposizione al regime di Teheran.
Stati Uniti ed Unione Europea ci proveranno nella maniera che è loro abituale: acquistando i propri alleati. La volontà esibita dal G20 di "accompagnare" le riforme in corso tramite un aiuto finanziario è, a tale proposito, eloquente: l'obiettivo è fidelizzare una nuova clientela a colpi di dollari e di euro. E in questo contesto che va interpretato anche il sostegno americano all'assurda guerra contro la Libia, questa guerra senza obiettivi definiti covata sin dal novembre 2010 da francesi e britannici, che ha condotto gli occidentali ad immischiarsi in una disputa tribale — tra la Tripolitania e la Cirenaica — nessuno dei cui protagonisti costituiva per loro la benché minima minaccia, senza dimenticare le operazioni di destabilizzazione del regime siriano e la repressione da parte delle truppe speciali saudite dei moti popolari sciiti nel Bahrein.
Per riconquistare la regione, gli Stati Uniti dispongono di due alleati di peso: Israele e l'Arabia saudita (in particolare, fra i sauditi, i gerontocrati del clan Sudairi). Ma il paese-chiave è ovviamente l'Egitto, il più popoloso, epicentro strategico del mondo arabo. Basterà che l'Egitto scivoli in un senso o nell'altro e l'intera regione ne sarà coinvolta. E quel che preoccupa Israele. Lo Stato ebraico ha a lungo potuto contare sul sostegno di fatto di quelle due grandi potenze regionali che sono l'Egitto e la Turchia, ma la Turchia ha virato di bordo e l'Egitto, il cui futuro è incerto, potrebbe succedere all'Iran come principale fonte di incubi per gli israeliani.
La vera questione, adesso, è quindi, per riprendere le parole di Georges Corm, «capire come gli attuali movimenti potranno resistere alle strumentalizzazioni d'ogni genere, o addirittura alle controrivoluzioni». Diceva Saint-Just a proposito della Rivoluzione del 1789: «Si osò fino alla fine, perché si era osato subito». Ma i rivoluzionari francesi sapevano quantomeno quello che volevano. L'anonima "primavera araba", che per il momento non ha fatto emergere nessuna idea nuova, nessuna figura in grado di riempire il vuoto di potere, nessuna classe intellettuale capace di teorizzare le proprie aspirazioni, oserà "fino alla fine"? E lecito dubitarne. Le rivolte consentiranno a nuove generazioni di accedere al potere, non necessariamente di cambiare regime.
Il mondo arabo moderno è nato nel 1916, quando le popolazioni del Vicino Oriente si sono sollevate contro i Turchi ottomani, signori della regione dalla fine del XVI secolo. Da quel momento le "primavere arabe" si sono susseguite ma l'indipendenza" proclamata il 5 giugno 1916 alla Mecca è sempre rimasta un sogno. Si attende ancora che possa concretizzarsi.