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Le pedine dello scacchiere siriano

di Michele Paris - 05/10/2011



Le proteste che stanno attraversando la Siria da parecchi mesi, oltre a minacciare il regime di Bashar al-Assad, rischiano di infiammare la violenza settaria in un paese strategicamente cruciale per gli equilibri mediorientali. Con il ricercatore iraniano Maysam Behravesh abbiamo parlato della natura della rivolta, delle prospettive di sopravvivenza del regime di Damasco e delle implicazioni della crisi siriana per la stabilità dell’intera regione. Di stanza a Teheran, Behravesh scrive per la rivista di geopolitica e-International Relations (www.e-ir.info) e svolge attività di ricerca sulle relazioni tra l’Iran e l’Occidente e sulla politica mediorientale in genere.

Le proteste in Siria vengono descritte dai media occidentali come una rivoluzione democratica spontanea, mentre il regime di Assad insiste nel definirla una cospirazione orchestrata dall’estero nella quale gli estremisti islamici sunniti giocano un ruolo fondamentale. Qual è la sua opinione al riguardo?

La situazione in Siria è avvolta da un alone di ambiguità e complessità; in particolare ciò è dovuto al divieto imposto dal regime di Assad ai media stranieri di entrare nel paese. Ci sono resoconti conflittuali sulla rivolta che si susseguono pressoché quotidianamente: alcuni descrivono una rivoluzione popolare che intende dar vita ad un regime democratico, mentre altri mettono in guardia da una cospirazione straniera in atto contro il governo Ba’athista. A mio parere entrambe le tesi possono spiegare la natura dei disordini in Siria.

La posizione ufficiale di Damasco, secondo la quale la causa delle violenze è l’azione di gruppi sunniti Salafiti, terroristi e gang armate, è da respingere, anche se non appare del tutto falsa. Questo atteggiamento del governo è per lo più un modo di proiettare sulle potenze straniere il malcontento verso il regime e la sua reazione violenta alle proteste di piazza. Per quanto mi riguarda, non credo alla tesi che le migliaia di morti avvenute finora siano da attribuire unicamente a estremisti armati che prendono di mira i civili e le forze di sicurezza. Se così fosse, e l’azione del governo secondo la versione ufficiale, è rivolta soltanto a proteggere la popolazione dai terroristi, non si capisce perché ai giornalisti sia impedito di entrare nel paese per raccontare ciò che accade. Dopotutto, il regime non avrebbe nulla da temere se avesse la coscienza pulita.

Tutto ciò non significa, tuttavia, che estremisti sunniti sostenuti da potenze straniere non abbiano alcun ruolo nella rivolta o che quella in corso in Siria sia puramente una insurrezione democratica contro la tirannia. In effetti, la maggior parte dei regimi autoritari del Medio Oriente, in particolare Arabia Saudita e Giordania, hanno tutto l’interesse a veder crollare il regime di Assad e a rimpiazzarlo con un regime sunnita meglio disposto nei loro confronti. Come principale incubatore dell’estremismo islamico, infatti, Riyadh ospita ideologi Salafiti e Wahabiti i quali, con il sostegno del governo centrale, alimentano i sentimenti settari tra l’impoverita maggioranza sunnita delle città siriane, dove in larga misura stanno avendo luogo i disordini.

È sufficiente dare uno sguardo al network Al-Arabiya, finanziato dal governo saudita, per rendersi conto di come il re Abdullah e il suo entourage interpretino e desiderino rappresentare la crisi in Siria. I sauditi, d’altra parte, non hanno fatto mistero di aver inviato i propri soldati in Bahrain, e con ogni probabilità anche in Yemen per reprimere le rivolte democratiche, a riprova di come Riyadh cerchi di giocare un ruolo attivo per mantenere lo status quo laddove i suoi interessi sono minacciati dalle richieste di cambiamento.

La domanda più importante circa la crisi siriana è però la seguente: perché le principali città del paese come Aleppo e Damasco sono rimaste relativamente pacifiche? Perché non sono state teatro di massicce rivolte simili a quelle documentate in centri urbani più piccoli, come ad esempio Dar’a? Per rispondere a questo interrogativo, è necessario tenere presente che tra la popolazione siriana ci sono sia sostenitori che oppositori di Bashar al-Assad. Dare per scontato che i siriani siano pressoché totalmente ostili al regime, come stanno facendo in gran parte i media occidentali, porta ad una rappresentazione univoca della situazione nel paese.

A suo parere, è possibile che Assad riesca a rimanere al potere e, al di là della sorte del presidente e del suo regime, quale sarà il sistema politico siriano di qui a qualche mese?

È molto difficile prevedere le prospettive future del regime Ba’athista in Siria. Se Bashar al-Assad sopravvivrà alla rivolta o se sarà invece la rivolta a sopravvivere ad Assad dipenderà, a mio parere, da quanto il suo governo riuscirà a resistere, ad adattarsi e ad assorbire il cambiamento e la condivisione del potere. Una cosa è certa, in ogni caso: più il regime impiega metodi violenti contro i civili, più si espone all’instabilità e al caos. In un’atmosfera così esplosiva dal punto di vista emotivo e religioso, nella quale le rivalse trovano terreno fertile e le proteste tendono a radicalizzarsi, l’uso della violenza si imprime in maniera indelebile nelle menti dei manifestanti, spingendoli verso posizioni sempre più estreme. Questa dinamica è apparsa evidente in Libia e, sia pure a un livello inferiore, in Yemen. La violenza sistematica come risposta al dissenso pacifico può spingere il regime verso un punto di non ritorno.

In qualsiasi caso, Assad deve muoversi molto rapidamente nell’implementazione di riforme strutturali nel paese, così da consentire maggiore partecipazione politica, concedere libertà civili, aprire la strada al progresso economico, all’eguaglianza sociale, ecc. Tuttavia, tutto questo a mio parere non è ancora sufficiente. Assad dovrà soprattutto condividere il potere con la legittima opposizione nel paese, anche se non con i Salafiti sostenuti dall’Arabia Saudita, i quali considerano il sistema democratico come una blasfemia e che andrebbero al contrario contenuti.

Personalmente non sono ottimista riguardo la crisi in Siria e ritengo che questa crisi non potrà essere risolta a breve. Anche se la situazione tornerà alla normalità e l’ordine verrà ristabilito con la forza, la Siria non sarà più quella che era prima dell’inizio della rivolta, dal momento che il fuoco continuerà a covare sotto le ceneri. Il popolo non sarà più disposto a rinunciare al cambiamento, per questo il regime dovrà evolversi per evitare di essere rovesciato.

Dal momento che la Siria occupa una posizione strategica, come cambierebbe lo scenario del Medio Oriente se il regime di Assad dovesse crollare nel prossimo futuro?

La fine del regime di Assad provocherebbe dei cambiamenti molto importanti negli equilibri geopolitici mediorientali. Tutto quello che accade in Siria influisce infatti significativamente sulle altre potenze della regione. Tanto per cominciare, la posta in gioco è molto alta per l’Iran, poiché la Siria è il suo principale partner arabo e rappresenta inoltre il tramite con i movimenti di resistenza di Hezbollah in Libano e di Hamas in Palestina; ma anche per la Turchia, il vicino settentrionale preoccupato per le aspirazioni separatiste della minoranza curda in Siria nel caso si dovesse andare verso una guerra civile nella quale a dominare sarebbe l’instabilità; per l’Arabia Saudita, desiderosa di promuovere un regime sunnita a Damasco al posto di quello Alauita [un ramo dello Sciismo] di Assad, così da contenere la propria nemesi iraniana ed estendere la propria influenza nella regione; per Israele, che non aborrirebbe un Assad ulteriormente indebolito, più cauto e facilmente controllabile, come peraltro si è spesso già dimostrato nei confronti di Tel Aviv.

Anche per l’Iraq, infine, le implicazioni sarebbero notevoli, soprattutto in un momento in cui il governo è già in apprensione per il ritiro, sia pure non totale, delle forze armate americane dal proprio territorio. Con ogni probabilità, la caduta di Assad alimenterebbe i timori di un possibile contagio dell’instabilità e dei rigurgiti estremisti provenienti dal vicino occidentale.

Una Siria sconvolta dall’insicurezza e dall’anarchia si trasformerebbe probabilmente in un serbatoio di attività terroristiche con serie conseguenze per tutta la regione e non solo. In un tale scenario, la Siria potrebbe inoltre diventare un terreno di scontro tra le varie potenze regionali e internazionali - in parte come in Libano - che cercherebbero di far avanzare i rispettivi interessi nazionali in un paese così strategicamente significativo. In termini geopolitici, c’è dunque una grossa posta in palio e ciò contribuisce forse anche a spiegare perché i paesi emergenti BRICS [Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa] si oppongono alla politica interventista di Stati Uniti e Unione Europea per risolvere la crisi, prediligendo invece negoziazioni pacifiche che possano contribuire a mantenere lo status quo.

La Siria è il principale, per non dire l’unico, alleato dell’Iran nel mondo arabo. Alla luce di questa situazione, quali sono più precisamente le implicazioni della rivolta siriana per la Repubblica Islamica? Inoltre, come valuta le recenti dichiarazioni del presidente Ahmadinejad nelle quali ha chiesto ad Assad di porre fine alla repressione violenta e di avviare colloqui con l’opposizione?

Di fatto, la Siria è il solo partner strategico arabo dell’Iran nella regione. Ciò significa che la possibile perdita di Assad comporterebbe conseguenze enormi per la posizione della Repubblica Islamica sia a livello regionale che internazionale. Innanzitutto, l’Iran risulterebbe ancora più isolato in un ambiente relativamente ostile, dove paesi come Arabia Saudita, Israele, Giordania, Emirati Arabi - tutti alleati, in un modo o nell’altro, degli USA - giocano un ruolo di primo piano. Per Teheran, ciò significherebbe un maggiore isolamento strategico, minori spazi di manovra e maggiori pressioni per scendere a compromessi sulle questioni che toccano le proprie ambizioni nazionali.

In secondo luogo, il possibile collasso del regime di Assad priverebbe l’Iran di un sicuro e affidabile canale di comunicazione con Hezbollah in Libano e con Hamas a Gaza. Uno scenario simile comprometterebbe l’influenza e il controllo di Teheran su queste organizzazioni e, di conseguenza, il loro appoggio ai piani dell’Iran per riguadagnare una posizione di potere in Medio Oriente. Una simile evoluzione potrebbe anche spingere Hezbollah e Hamas a rivedere le loro strategie, fino ad assumere posizioni più indipendenti intorno alle questioni regionali di maggiore rilievo.

Le recenti dichiarazioni fatte dai leader politici iraniani e da alcuni membri del Parlamento (Majlis), i quali hanno più o meno apertamente criticato il regime Ba’athista chiedendo moderazione, dimostra la crescente preoccupazione di Teheran per la situazione in Siria e la progressiva presa di coscienza del prezzo da pagare, dal punto di visto morale, per l’appoggio ad Assad. Uno dei punti centrali su cui ha puntato la diplomazia iraniana nella regione, incoraggiata dall’esplosione delle rivolte popolari in Medio Oriente e in Africa Settentrionale (MENA), è stato precisamente lo sforzo di presentarsi come un soggetto rivoluzionario che sta dalla parte delle popolazioni oppresse.

L’appoggio incondizionato offerto dall’Iran a Damasco di fronte alla crescente brutalità con cui vengono affrontati i manifestanti e i civili, tuttavia, compromette questa strategia e complica il già difficile tentativo di conquistare “i cuori e le menti” delle popolazioni della regione. Il diverso atteggiamento di alcuni esponenti di spicco dell’establishment iraniano nei confronti del regime di Assad rivela anche le crescenti riserve e i dubbi che stanno affiorando circa le sue possibilità di sopravvivenza. In definitiva, ritengo che, viste le circostanze, nei rapporti con Damasco, franchezza e imparzialità sarebbero più utili agli interessi di Teheran.

Quali sarebbero infine le conseguenze della fine dell’era Assad per le altre potenze mediorientali, come Turchia, Israele e Arabia Saudita?

Come ho accennato in precedenza, la Turchia teme profondamente la destabilizzazione di una Siria che ospita un’ambiziosa minoranza curda alla ricerca di maggiore autonomia, così come suscita preoccupazioni ad Ankara la possibile degenerazione di un conflitto per le “sfere d’influenza” giocato a Damasco tra le potenze regionali e internazionali. Naturalmente la Turchia desidera piuttosto dei vicini stabili e sicuri ma, come potenza emergente con ambizioni di leadership nel mondo musulmano, non può rimanere in silenzio di fronte alle crescenti violenze messe in atto dal regime siriano contro i civili; questo è il motivo per cui Ankara ha protestato con forza per il modo in cui il governo di Assad sta fronteggiando la crisi interna.

Per quanto riguarda Israele, al contrario di quanto sostengono molti teorici della cospirazione in Medio Oriente, secondo i quali il caos in Siria sarebbe stato provocato dai sionisti per scardinare il movimento di resistenza nella regione, a mio parere Tel Aviv nutre delle forti riserve circa il rovesciamento del regime di Assad - il quale ha spesso dimostrato di essere sì un oppositore di Israele ma moderato, cauto e prudente - e la sua sostituzione con un nuovo governo.

La prudenza israeliana è dovuta alla grande incertezza che tuttora prevale sui contorni dell’eventuale futuro regime che potrebbe prendere il posto di quello guidato da Assad. Di certo Tel Aviv gradirebbe per la Siria un regime simile a quello saudita, cioè più tollerante e ben disposto verso la politica israeliana nella regione.

Tuttavia, quali saranno le conseguenze per Israele se in Siria dovesse emergere invece un governo come quello che ha preso il potere nell’Egitto post-Mubarak ? Oltretutto, a mio parere, quest’ultimo scenario appare il più probabile per la Siria nel caso l’attuale regime Ba’athista dovesse crollare.

È importante notare che la nascita a Damasco di un governo democratico, indipendente, anti-israeliano e filo-palestinese renderebbe Israele più vulnerabile che mai. Un simile nuovo governo in Siria potrebbe ad esempio non tollerare più l’occupazione israeliana delle Alture del Golan in maniera tutto sommato benevola come ha fatto finora Assad.

L’opposizione dell’Arabia Saudita ad Assad, infine, e i tentativi di alimentare i conflitti tra l’opposizione e il regime, come ho già detto, é largamente dettata dal desiderio di Riyadh di contenere il più potente rivale della regione, l’Iran, e di isolarlo, costringendolo in una posizione di debolezza.

Parallelamente, l’Arabia Saudita aspira a indebolire l’influenza sciita nella regione, esercitata in vari modi dalla Repubblica Islamica, dall’Iraq e, se vogliamo, dalla Siria e da Hezbollah. Quali vantaggi geopolitici potrebbe trarre Riyadh dalla caduta di Assad?

Un ruolo più influente nella regione, maggiore controllo del dissenso entro i propri confini, maggiore confidenza nel trattare con l’Occidente e una posizione di vantaggio nel mondo musulmano.

L’Arabia Saudita sarebbe in grado di prendere iniziative strategiche all’estero con maggiore intraprendenza, dal momento che le sarebbe garantita una certa stabilità e sicurezza all’interno. In definitiva, si tratta di una questione sia d’identità nazionale che di equilibri di potere nella regione.