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La sofferta domanda del comandante Langsdorff attende ancora una risposta

di Francesco Lamendola - 05/10/2011




Nella notte fra il 19 e il 20 dicembre 1939 un colpo di pistola risuonò nei corridoi di un albergo di Buenos Aires: il comandante Hans Langsdorff della Marina tedesca, già veterano della prima guerra mondiale e poi comandante della leggendaria corazzata “tascabile” «Admiral Graf von Spee», si era tolto la vita con la sua pistola d’ordinanza.
Prima di affrontare il supremo passo, si era drappeggiato il corpo nella vecchia bandiera della Marina imperiale e non in quella del Terzo Reich: Langsdorff non era un nazista e, con quel gesto, voleva rimarcare la propria distanza dal regime di Hitler. Era nato nel 1894 e, dunque, aveva appena quarantacinque anni.
Era stato un uomo cavalleresco, esperto e coraggioso: in soli tre mesi aveva portato il terrore sulle rotte commerciali alleate, spingendosi fino al Canale di Mozambico, nell’Oceano Indiano, e affondando nove mercantili nemici, per un totale di oltre 50.000 tonnellate di stazza; ma aveva trattato i marinai prigionieri con tale umanità e cortesia, da meritarsi tutta la loro stima e perfino la loro ammirazione. I suoi uomini, poi, lo adoravano.
La «Graf Spee» era un autentico gioiello della tecnologia navale: moderna, veloce, efficientissima e bene armata, possedeva tutte le caratteristiche per affrontare una lunga crociera oceanica senza mai poter contare su di un porto amico; aveva beffato ben otto squadre navali messe alla sua ricerca, cinque britanniche e tre francesi, che invano le avevano dato la caccia lungo tutto l‘Atlantico e parte dell’Oceano Indiano.
All’alba del 13 dicembre - si era all’inizio dell’estate australe - essa entrò casualmente in contatto con la squadra inglese del commodoro Harwood, formata dall’incrociatore pesante «Exeter» e dagli incrociatori leggeri «Ajax» ed «Achilles», che navigava al largo del Rio de La Plata: ne nacque un combattimento a distanza ravvicinata, tanto che gli Inglesi, più volte, tentarono di colpire la corazzata tedesca con i siluri, senza peraltro riuscirvi.
Dopo un paio d’ore di fuoco, l’«Exeter», in fiamme e con una cinquantina di cadaveri a bordo, fu costretta ad allontanarsi zoppicando, dirigendosi verso Port Stanley nelle Isole Falkland; gli altri due incrociatori britannici, invece, seguitarono a battersi e misero anche a segno alcuni colpi fortunati, pur restando a loro volta gravemente danneggiati; solo dopo essere stati più volte colpiti dai grossi calibri tedeschi si portarono fuori tiro, riprendendo però a seguire la nave nemica a prudente distanza, non appena questa virò di bordo per allontanarsi.
Il comandante Langsdorff, a quel punto, cadde in un fatale errore di valutazione: pensò che tanto incredibile coraggio da parte dei due piccoli incrociatori inglesi, inizialmente scambiati per dei cacciatorpediniere, derivasse dal fatto che essi costituivano soltanto l‘avanguardia di una forza ben più consistente, senza dubbio qualche corazzata o qualche portaerei; per cui, invece di puntare verso il mare aperto, diresse verso il porto di Montevideo, ove gettò l’ancora verso la mezzanotte, con trentuno morti fra l’equipaggio.
In sostanza, il commodoro Harwood, imbarcato sull’«Ajax», aveva puntato su un “bluff” e vi era pienamente riuscito: una volta imbottigliata nel Rio de La Plata, la nave tedesca non avrebbe più potuto uscirne senza affrontare i cannoni inglesi; altre potenti unità della Royal Navy stavano puntando a tutta forza in quella direzione, ma non sarebbero giunte in tempo, se Langsdorff fosse ripartito subito. Questo, però, egli non lo sapeva: era certo di aver a che fare con una formazione nemica poderosa e di non poter riguadagnare l’alto mare senza doverla affrontare.
Ora, la sua nave aveva subito danni più gravi di quel che poteva apparire a prima vista. L’armamento era sostanzialmente intatto e le munizioni erano ancora abbondanti, poiché ne restavano circa il 60% del quantitativo iniziale (mentre  agli Inglesi ne rimaneva appena il 20%); però alcuni colpi avevano causato danni gravissimi al sistema di filtraggio del carburante, alla cisterna d’acqua potabile e alla cucina per l’equipaggio.
In altre parole, la «Graf Spee» non era più in grado di disporre né del carburante per i suoi nuovissimi motori Diesel, né di acqua e cibo per i suoi marinai: in tali condizioni, tentare di riguadagnare la Patria lontana, affrontando le onde del Nord Atlantico in pieno inverno, appariva impossibile. Uscire e affrontare il nemico, del pari, sembrava a Langsdorff un sacrificio inutile: era un uomo coraggioso, ma aveva troppo rispetto per la vita dei suoi uomini per metterla a repentaglio in uno scontro senza speranze.
Convinto di essere stato imbottigliato da una grossa squadra nemica, avrebbe avuto bisogno di almeno due settimane per riparare i guasti a bordo e, poi, tentare di affrontarla; ma il Ministro degli Esteri dell’Urugay, il filobritannico Alberto Guani, non gli concesse che tre giorni, nonostante le proteste dell’ambasciatore tedesco, Langmann. Secondo la Convenzione dell’Aia, una nave di un Paese belligerante non poteva trattenersi in un porto neutrale per più di ventiquattr’ore, pena l’internamento; la commissione tecnica che aveva ispezionato la «Graf Spee» era forse rimasta anche ingannata dalle frettolose operazioni di restauro, più di facciata che sostanziali, ordinate direttamente da Berlino, affinché la corazzata non apparisse ridotta a mal partito, ciò che avrebbe ridotto il prestigio della Germania.
La posizione di Langsdorff, quindi - come osserva lo scrittore Michael Powell nel suo libro «Graf Spee ultimo atto» - era decisamente paradossale: gli ordini del suo Ammiragliato erano di non far vedere quanto gravi fossero stati i danni provocato dalla battaglia; però, al tempo stesso, di ottenere un congruo lasso di tempo dalle autorità locali per completare le riparazioni. La pressione congiunta dei ministri di Francia e Gran Bretagna, che giunse al punto di ritardare perfino l’invio dei materiali per i lavori più urgenti a bordo, fece il resto.
A quel punto, Langsdorff si trovava in una vicolo cieco: la sua bella nave, orgoglio della Marina germanica, era finita in una trappola, da cui non avrebbe mai più potuto uscire.
Così, allo scadere del termine di 72 ore concesso da Guani, la sera di domenica 17 dicembre, egli la portò fuori dal porto e la fece autoaffondare con delle cariche di esplosivo, dopo aver trasbordato in salvo tutto l’equipaggio. E tuttavia la «Graf Spee» era una nave talmente robusta e ben progettata che, dopo essersi posata sui bassi fondali dell’estuario, continuò a bruciare per tre interi giorni, sinistra fiaccola che brillava all’orizzonte.
Il mercantile tedesco «Tacoma» trasportò l’equipaggio a Buenos Aires, capitale di uno Stato più favorevole ala Germania di quanto non lo fosse l’Uruguay; dove, infatti, esso venne internato con modalità assai blande. Ma Langsdorff non poteva darsi pace. Aveva parlato per l’ultima volta con Berlino, forse con Hitler in persona, la sera di sabato, 16 dicembre: che cosa si dissero esattamente, non lo sapremo mai; di certo furono concordate le modalità dell’autoaffondamento e della mossa successiva, vale a dire il trasbordo dei marinai in territorio argentino.
Per un uomo di mare come Langsdorff, cresciuto nella severa disciplina e nel fiero patriottismo degli anni precedenti la prima guerra mondiale, e che aveva partecipato alla battaglia dello Jütland (dello Skagerrak per i Tedeschi), combattuta fra il 31 maggio e il 2 giugno 1916, la conclusione della vicenda era stata intollerabile. Nella battaglia del Rio de La Plata egli, pur disponendo di una indiscutibile superiorità in fatto di armamento e velocità, aveva subito l’iniziativa del nemico ed era andato a cacciarsi in trappola da solo.
Il suo senso dell’onore non poteva ritenersi soddisfatto dalla consapevolezza di aver sempre agito nel modo che aveva ritenuto migliore, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello umano. La Patria gli aveva affidato una delle sue navi più belle e potenti ed egli, a meno di quattro mesi dall’inizio della seconda guerra mondiale, l’aveva perduta: per giunta, l’aveva perduta in un modo inglorioso, non sotto il fuoco del nemico, ma conducendola egli stesso all’autodistruzione. E questo, nonostante tutto, non riusciva a perdonarselo.
Langsdorff era un uomo coraggioso. Su questo non ci sono dubbi, le testimonianze sono unanimi. E non era un debole di nervi: aveva saputo mostrare una perfetta padronanza di sé durante l’intera crociera della «Graf Spee», durata tre mesi e mezzo (aveva lasciato il Weser il 13 agosto ed era stato raggiunto dalla notizia che la Gran Bretagna e la Francia avevano dichiarato guerra alla Germania mentre si trovava già al largo del Brasile).
Il ministro Alberto Guani, che ebbe due colloqui con lui durante la permanenza della nave tedesca a Montevideo, lo descrive come un uomo dallo sguardo coraggioso, ma sconcertato, come se gli fosse capitato un fatto incredibile, di cui ancora non riusciva a capacitarsi.
Michael Powell si compiace di rappresentare l’Urugay come una piccola nazione neutrale che seppe tener testa alla’arroganza della potente Germania nazista, ma le cose stanno altrimenti: nel 1939, fuori d’Europa, era la strapotenza marittima alleata, e specialmente quella britannica, a dettare le regole del gioco internazionale e a fare il bello e il cattivo tempo presso le nazioni neutrali. E, se gli interessi britannici lo richiedevano, la Royal Navy non esitava a violare quelle stesse norme internazionali che, ora, il rappresentante inglese a Montevideo, Eugen Milington-Drake, si mostrava così solerte nel vedere applicate, con l’internamento preventivo della «Graf Spee» o, in alternativa, con la riduzione al minimo del permesso di rimanere in porto per le riparazioni.
Ad esempio, nel marzo del 1915 tre incrociatori inglesi avevamo assalito a cannonate l’incrociatore tedesco «Dresden», unico superstite della battaglia delle Isole Falkland del dicembre precedente, benché si trovasse in acque neutrali cilene, precisamente davanti all’isola di Mas a Tierra (oggi Robinson Crusoe), nell’Arcipelago Juan Fernandez. Si possono ancora vedere i segni lasciati dalle artiglierie inglesi sulle rocce dell’isola, nella Baia di Cumberland.
Particolare curioso: il «Dresden» apparteneva alla Squadra navale del vice-ammiraglio Maximilan von Spee, quegli stesso cui era stata dedicata la corazzata “tascabile” (ufficialmente, un incrociatore pesante) del comandante Hans Langsdorff; e la fine di quest’ultima ebbe luogo anch’essa nelle acque sud-orientali del Sud America, a una distanza relativamente breve dal teatro della distruzione e dell’affondamento degli incrociatori di von Spee, l’8 dicembre 1914.
Langsdorff, dunque, si sentiva in colpa, pur non avendo nulla da rimproverarsi. Oggi, con il senno del poi, possiamo dire tranquillamente che la sua decisione di entrare a Montevideo per le riparazioni fu errata; ma, allora, egli aveva motivo di supporre che il commodoro Harwood avesse osato attaccarlo con tanta insistenza, solo perché aveva alle spalle una forza navale schiacciante, per esempio composta dalla portaerei «Ark Royal».
Un aereo da ricognizione nemico, infatti, non aveva smesso di evoluire sopra la «Graf Spee» durante la battaglia, fino a che questa non l’aveva abbattuto (il pilota venne poi recuperato incolume dagli Inglesi); e che cosa avrebbe potuto fare Langsdorff contro un attacco aereo, a migliaia di chilometri da casa, ovunque circondato da nazioni ostili? E, soprattutto, come avrebbe potuto risolvere il problema del filtro al combustibile irreparabilmente danneggiato, della mancanza d’acqua e di viveri per i suoi uomini?
Aveva sbagliato, dunque, anche se cercando di agire per il meglio. Era troppo rispettoso della vita umana, come avevano constatato anche i suoi ammirati prigionieri, per mandare incontro alla morte quei marinai, già tanto provati, in uno scontro privo di speranze. Non era nel suo stile, né nel suo codice etico, immolarli tutti in una sorta di sacrificio collettivo, solo per avere la soddisfazione di poter affondare con le bandiere al vento.
Però, nemmeno la soluzione adottata poteva lasciarlo a posto con la sua coscienza. Un comandante non deve sopravvivere alla distruzione della propria nave: questo impone il codice d’onore di un vero ufficiale della marina militare. Era un codice non scritto, e tuttavia non per questo meno cogente. Von Spee aveva avuto il privilegio di scomparire nei flutti dell’Antartico insieme alle sue navi, sulle quali erano imbarcati anche entrambi i suoi figli; mentre a lui, Langsdorff, era toccato il destino più amaro: quello di dover autoaffondare la propria nave su di un basso fondale, e inoltre di doversi preoccupare della salvezza dell’equipaggio che lo aveva tanto fedelmente servito.
Però, adesso che l’equipaggio era in salvo e gli ordini di Berlino erano stati eseguiti, egli tornava libero di disporre di se stesso.
Internato in un Paese neutrale seppure amico, e, pertanto, impossibilitato a ritornare in patria per continuare a servirla nel drammatico frangente della guerra, non gli restava che salvare il suo onore, di cui era geloso custode.
O, almeno, così ritenne di dover fare.
Fu una decisione giusta?
O fu la seconda decisione sbagliata, dopo quella di essere entrato con la sua nave nel porto di Montevideo?
È una domanda difficile, che attende ancora adesso una risposta.
Certo, non la si può dare con la mentalità odierna.
Certo, si può criticare una scelta come la sua; ma non vi è dubbio che essa non nacque dallo scoraggiamento, né da un momento di debolezza, ma che fu una decisione pienamente ponderata: la decisione di un uomo che, a differenza di quanto si vede così frequentemente al giorno d’oggi, ritenne di non poter continuare a vivere, dopo aver dovuto sopportare un’onta così grave al proprio onore di soldato.