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L'ombra cinese sul capitalismo. Mercato e dispotismo non sono soluzioni. Meglio la crescita lenta

di Sergio Bocconi - 05/10/2011

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«I fondamenti di un'economia diversa dal capitalismo, e non anticapitalista, sono il dono, e una minore crescita. Il capitalismo abbisogna della crescita non solo per retribuire col profitto il capitale. L'ossessione della crescita dipende dal fatto che quanto è finto e malvagio, se conosciuto, diminuisce, ecco allora l'urgenza di rinnovarlo senza fine. Il male, se conosciuto, diminuisce; il bene invece conosciuto s'accresce. Ai buoni basta poco».
Geminello Alvi è un economista in fondo abituato a stupire. Ma la conclusione della sua ultima «fatica» scientifico-letteraria, Il capitalismo. Verso l'ideale cinese (Marsilio), da ieri in libreria, è quasi disarmante, nella sua apparente semplicità. Perché il suo elogio della sobrietà è conseguenza diretta del lungo e complesso cammino che svolge nella trilogia iniziata con Le seduzioni economiche di Faust (Adelphi), proseguita con Il Secolo Americano (Adelphi) e che si conclude qui. In quel riferimento all'uomo buono e frugale che idealmente «supera» il capitalismo o che, sarebbe forse meglio dire in modo quasi ingenuo (dove l'ingenuità è, come la bontà, una forma dell'essenza individuale), «vive diversamente».
Sarebbe sbagliato leggere il libro come un sistema chiuso. Alvi, che procede per immagini, citazioni, quasi aforismi in una concatenazione che affascina, ma ogni tanto smarrisce, si domanda in sostanza per quali ragioni il capitalismo si manifesti oggi nel suo esito cinese. E il risultato è che in realtà aveva ragione John Stuart Mill quando, nel 1895, scriveva che «l'Europa sta avanzando risolutamente verso l'ideale cinese di rendere simili tutte le persone». Omologazione e statalismo, dunque. Perché «il capitalismo non è riconducibile, come mostrano i paradossi cinesi, alla venalità individuale ma richiede, in dosi crescenti, complicità statali. Consiste d'individualissima invidia, persegue il lusso del superfluo, ma richiede lo Stato in guerra o in stampa di banconote». Produzione costante di superfluo come artificiale percezione della crescita: ecco perché poi la conclusione di Alvi sui fondamenti di un'economia diversa si basa sul dono e su un rallentamento che poi significa il «poco bastante».
La Cina è dunque l'esito in un circuito di complicità. Lo Stato dispotico ottiene «la crescita a due cifre che meraviglia l'Occidente» perché può «collezionare rapidamente enorme ammontare di capitale e usarlo ad arbitrio». Salva le banche con un costo per il contribuente di 620 miliardi di dollari, pari al 28 per cento del Pil cinese. E solo in apparenza può ricattare Washington grazie alla quantità di titoli di Stato americani nelle sue riserve: questa è «solo la metà di una partita di giro più ipocrita e complicata. Il boom di Wall Street», prima della grande crisi del 2008, «ovvero il capitale fittizio creato dalla politica monetaria insensata di Greenspan, per due settenni di fila ha infatti soccorso di investimenti diretti la Cina». Un «gioco delle parti» che continua e che è vischiosa complicità fra sistemi omologanti. E quanto fosse omologante il capitalismo, sottolinea Alvi, lo aveva già capito Alexis de Tocqueville, quando osservava come i francesi si somigliassero molto di più nel passaggio di una sola generazione.
Come paradigma dell'omologazione, Alvi cita controcorrente Internet. O meglio, il ragno di Internet: «Per quanto la rete si dia e pretenda solo elogi, la rete rimanda al ragno che la tesse e collosamente vi rigira le vittime che poco alla volta divora. Eppure, miliardi d'ingenui sono deliziati d'essere avvinti nei nessi di questo ragno che, tanto per iniziare, ha già divorato un'alta espressione della parola: la lettera». Ma prima di Internet l'omologazione è passata attraverso l'ipnosi della tv. Risulta che «il 98 per cento degli statunitensi possieda una tv e vi trascorra davanti in media 1.700 ore all'anno. Equivalgono al 58 per cento della vita desta».
Immagini per descrivere la prigione del camuffamento che cela la sostanziale coerenza dell'esito cinese del capitalismo, cioè dell'economia del superfluo e dell'omologato che ha crescente bisogno dello Stato e della creazione di moneta (e qui sono sorprendenti le pagine sul «vento dell'euro», «che è del Sud-Est e non del Nord» e l'analisi anticipata - perché di un anno fa - della crisi greca). Ma la ricerca di Alvi, nel suo percorso verso la conclusione «sull'economia diversa», non può che diventare etimologica: così il termine capitalismo «venne usato la prima volta da William Makepeace Thackeray: in The Newcomes, romanzo del 1854. Il primo uso fu quello di chi aveva scritto La fiera delle vanità». E la parola economia: Alvi la rintraccia in Omero. «Ogni atto economico nell'Odissea rimanda al pastorale nomòs, cura di un gregge, da parte di un pastore, nomeus. È il pastore ammirato da Omero per la sua generosità, di là di ogni parsimonia, persino in circostanze difficili, come resta a indicare l'agire del pastore Eumeo, per il quale Omero userà appunto il verbo nemo, distribuire».



Geminello Alvi
IL CAPITALISMO. VERSO L’IDEALE CINESE
Marsilio pp. 336, € 21