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L'Islam con gli occhi a mandorla

di Valerio Zecchini - 09/10/2011


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Da quando l’estremismo musulmano ha dichiarato guerra all’Occidente, si e’ fatto un gran parlare dell’Islam, analizzandolo in tutte le sue possibili declinazioni politico-religiose. Non molto pero’ si sa  dell’Islam per noi piu’ lontano, quello dell’estremo oriente.
La religione musulmana e’ religione ufficiale dello stato in  Malesia, Brunei, Indonesia (la nazione islamica piu’ popolosa del mondo: 250 milioni di abitanti), ma sono islamiche anche le tre province piu’meridionali della Tailandia, l’estremo sud delle Filippine (Mindanao) e la provincial cinese dello Xinjiang; quest’ultima vive una situazione repressiva del tutto simile a quella del Tibet, solo che se ne parla meno.
L’Islam fu inizialmente introdotto nel sud-est asiatico nel XIII secolo da mercanti arabi, poi seguiti da missionari che esaltarono la forza della verita’ scritta in un libro sacro, il Corano. Ma le precedenti pratiche e credenze indo-buddiste e animiste, consolidate da secoli, non furono rimpiazzate, bensi’ sussunte dall’Islam. In particolare la diffusa identificazione del sovrano quale “bodhisattva”, o illuminato. Dunque il potere inteso non come un attributo astratto o una mera manifestazione gerarchica, ma come energia cosmica. Secondo questa visione del mondo la ricchezza e il potere materiale coincidevano con la potenza spirituale, anzi i primi erano una conseguenza della seconda; c’e’ insomma un’equivalenza tra status materiale e status spirituale. L’Islam eredito’ tale mentalita’ fatalista, che e’ anche cio’ che lo rende profondamente diverso dal cristianesimo. Infatti, mentre per i cristiani da morti si e’ tutti uguali, le cariche e i titoli accumulati in vita dall’elite musulmana erano considerati effettivi anche dopo morti, permettendo di essere giudicati da Dio prima degli altri e in maniera piu’ benevola. E’ cio’ chef a diventare la lotta per il potere qualcosa di mistico e di spietato, la cui posta in gioco non e’ solo il prestigio o la ricchezza, ma anche la salvezza eterna.
Sta di fatto che questo “Islam con gli occhi a mandorla” e’ oggi piuttosto diverso da quello vigente in medio oriente o in Africa, e sicuramente piu’ libertario in tema di costumi. Le donne non sono sottoposte alle pesanti restrizioni del mondo arabo: la maggioranza di esse studia o lavora e non ha l’obbligo di indossare copricapi; nella scorsa decade una donna e’ stata per alcuni anni presidente della repubblica indonesiana (Megawati Sukarnoputri); secondo la legislazione indonesiana, la donna puo’ addirittura chiedere il divorzio. Tutto cio’ non vale pero’ per alcune province periferiche (Aceh in Indonesia e il Kelantan in Malesia) dove la sharia e’ legge.
Nella sua visita dell’anno scorso Barack Obama (che vi ha trascorso l’adolescenza) ha definito l’Indonesia ‘un esempio di tolleranza per il mondo musulmano”; la polizia ha infatti sgominato nel giro di pochi anni il gruppo terrorista filo Al-Quaeda responsabile tra l’altro del terribile attentato di Bali nel 2002. Ma, pur essendo da tempo membro del G20, questo rimane a tutti gli effetti un paese del terzo mondo.
In Indonesia l’industrializzazione e la globalizzazione non hanno seguito un andamento graduale come era stato per Giappone, Taiwan, Corea del sud. Si ha anzi la sensazione che qui la modernita’ sia stata imposta a forza dall’alto ( ai tempi del lungo regime di Suharto) e si sia poi stabilizzata come un ben strutturato ordine esterno fatto di lussuosi centri commerciali e fast food, di facebook e i voli low cost di Air Asia, di telenovelas di successo e le prediche televisive di Aagym, evangelista locale. Nel magma indistinto della postmodernita’, che e’ uguale ovunque, il discorso pubblico e’ un continuo remix di serieta’ e frivolezza, di intrattenimento e proclami edificanti.
A questo ordine esterno senz’anima si contrappone un ordine interno della tradizione comunitaria, che non e’ solo una tradizione, ma anche una strategia di sopravvivenza adottata dalla stragrande maggioranza della gente di questo paese, afflitto da sovrappopolazione e ingiustizia sociale.  In Indonesia questo sistema si chiama Gotong – Royong, ed esiste praticamente da sempre; e’ un sistema in cui i confini tra privato/personale e pubblico/comunitario tendono continuamente a diventare indistinti. La comunita’ protegge e tutela, ma chiede in cambio la rinuncia alla propria individualita’ (che, non dimentichiamolo, e’ un’invenzione occidentale), imponendo costrizioni e privazioni derivate da abitudini e costumi sociali ereditati. Cio’provoca una tensione che e’ ben documentata dall’opera degli artisti indonesiani di ultima generazione come  Melati Suryodarmo e F.X. Harsono (ammirati anche a Milano negli scorsi anni con due importanti mostre della galleria Marella). E’ una complessa lotta tra le aspirazioni individuali e il “dovere”  di appartenere a una comunita’ e la pressione delle sue gerarchie sociali; le sue usanze e l’insieme dei suoi valori annichiliscono le liberta’ personali a vantaggio dell’ordine sociale, esigendo alti livelli di sottomissione. La parola Islam significa proprio sottomissione, e da tutto cio’ capiamo come la fede musulmana abbia a suo tempo avuto gioco facile ad imporsi sui preesistenti culti animisti e induisti operanti in un contesto simile. Esistono quindi due mondi che faticano ad amalgamarsi, quello “esterno” dei consumi e della modernizzazione sgargiante, e quello “interno”  fatto di una quotidianita’ semplice, modesta, rustica. Il conflitto tra queste due realta’, incontro/scontro che si alimenta, a corrente alterna, di attrazione e repulsione, genera un’atmosfera di disordine. Non essendo immaginabile nessun ordine alternativo, questo caos cerca continuamente  di ricomporsi in armonia – ma un tale sincretismo forse e’ possible solo nelle sensazionali opere della new wave artistica indonesiana.  
La Malesia e’ uno stato multietnico: il 60 per cento della popolazione e’ malese,, il 25 per cento cinese e il 15 per cento indiano.
La maggioranza malese e’ tutta solidamente e stabilmente musulmana. Le carte d’identita’ malesi, oltre a riportare i dati anagrafici, certificano la fede religiosa. Chi porta scritto sulla carta d’identita’ “religione: Islam” e’ tenuto ad osservare un comportamento conseguente, ed e’ anche soggetto al controllo della polizia islamica (non in divisa, ma in abiti tradizionali), la quale opera di concerto con la polizia dello stato.  La notte dello scorso San Valentino, ricorrenza di recente importazione occidentale e malvista dalle autorita’ musulmane perche’ incoraggia “attivita’ viziose”, questa polizia morale  e’ entrata in azione in grande stile. I giornali del giorno dopo riportavano la notizia di incursioni in parchi pubblici e budget hotels a Kuala Lumpur e nelle principali citta’ malesi, e che piu’ di cento persone erano state arrestate, colte in flagrante. Io stesso ho visto a Kuching un ragazzotto che veniva trascinato in manette fuori da un hotel da questi zelanti vigilantes in borghese. Qui o a Kuala Lumpur i  fermati rischiavano una multa e un rimprovero o poco piu’, ma nelle regioni della Malesia dell’est come il Kelantan, governate con la legge della Sharia, potevano beccarsi anche due anni di galera. Si dira’: ma codesti disgraziati sono stati colti in flagrante a fare che? Nella stragrande maggioranza si trattava di adolescenti che pomiciavano, ignorando gli avvertimenti degli imam sulla “trappola immorale del giorno di San Valentino”, e tutta la vicenda puo’ apparire come la bravata di gruppi di fanatici  ai danni di qualche innocente sprovveduto.  A ben vedere pero’, una societa’ come quella musulmana che considera sacra la verginita’ femminile prima del matrimonio, non ha altro modo che questo, la repressione, per mantenere fermo tale principio. La repressione ha un rovescio della medaglia positivo: essa fomenta il desiderio erotico, anziche’ mortificarlo come ingenuamente pensano gli occidentali di oggi; regole e limitazioni eroticizzano mentre costringono, e le restrizioni possono essere cariche di erotismo cosi’ come ogni altra espressione del desiderio. A riprova di tutto cio’ si puo’ portare l’evidenza, innegabile, della caduta del desiderio nell’uomo occidentale, che ha facile accesso alla prostituzione e alla pornografia ed e’ sottoposto alla vista di culi e tette dalla mattina alla sera – e la reciproca evidenza della nevrosi cronica di cui e’ vittima la donna occidentale, sottratta al suo giusto destino di moglie, madre e custode della tradizione. La restrizione sessuale ha invece il merito di preservare nella donna le sue piu’ alte doti: pudore, tenerezza e grazia.