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Libia: La NATO fornisce le bombe; i “progressisti” l’ideologia

di Pierre Lévy - 09/10/2011

Fonte: aurorasito



Lo scorso aprile, l’ex direttore di Le Monde Diplomatique Ignacio Ramonet ha pubblicato (su Mémoire des Luttes) un testo intitolato “La Libia, il giusto e l’ingiusto.” La guerra era iniziata qualche settimana prima, inaugurata da aerei francesi che hanno avuto l’onore di far cadere le prime bombe su Tripoli (Bengasi. NdT). Il 19 marzo, “un’ondata di orgoglio attraversò il palazzo dell’Eliseo“, Le Monde ha segnalato. Al momento, gli esperti e i commentatori non hanno avuto dubbi sul fatto che entro pochi giorni o poche settimane al massimo, il paese si sarebbe liberato del “tiranno” grazie alla anticipata sollevazione popolare, facilitata dalla coperta aerea della coalizione, rivestita dell’aura del saggio Bernard-Henri Lévy.
A dire il vero, nel suo testo Ignacio Ramonet ha preso le distanze dalla NATO. Egli ha tuttavia dichiarato fin dall’inizio: “Gli insorti libici meritano l’aiuto di tutti i democratici”. Dio sia lodato! I democratici non erano certo avari con il loro aiuto: in cinque mesi, oltre 15.000 attacchi aerei hanno sganciato diverse migliaia di tonnellate di bombe, per non parlare dei missili di ultima generazione, delle forze speciali a terra sotto forma di istruttori, un dono vietato in linea di principio, ma l’amore è cieco. Solo il risultato conta: la vittoria totale.
Il gioco di parole è facile, ma inevitabile, soprattutto perché Libération ha pubblicato la lettera in cui il Consiglio nazionale di transizione (CNT) ha promesso di concedere il 35% delle concessioni al colosso petrolifero francese Total, “in cambio” (il termine usato) dell’impegno militare francese (un documento che naturalmente ha innescato una frettolosa negazione dal Quai d’Orsay). La lotta per la libertà è un tale nobile causa. L’autore, tuttavia, ha concluso il suo articolo prendendo atto del “forte odore di petrolio che incombe su tutta la faccenda.
Infatti. Ma comunque, il suo approccio non era diverso da quello di tutti i leader e dei media occidentali. In particolare, ha accettato l’analisi della rivolta libica come parte attiva della “primavera araba“. Raggruppando gli eventi insieme, in questo modo s’ignora la realtà di ogni singola nazione. E in questo caso, è addirittura il contrario della verità.
In Tunisia e poi in Egitto, dei movimenti popolari, che certamente non erano identici, hanno condiviso alcuni punti importanti. In termini di politica interna, la mobilitazione ha visto la convergenza delle classi lavoratrici, con quelle che vengono chiamati le “classi medie“, in un movimento sociale, le cui richieste erano inseparabili dagli obiettivi democratici, in ciascuno di questi due paesi, le lotte e gli scioperi dei i lavoratori, negli ultimi anni – duramente represse – hanno costituito una base essenziale per lo sviluppo del movimento, il tutto in un contesto di povertà di massa.
In termini di politica estera, Zine el-Abidine Ben Ali e Hosni Mubarak sono stati, senza dubbio, dei burattini dell’Occidente, di cui sono sempre stati parte integrante, geopoliticamente, economicamente e ideologicamente.
La situazione libica era del tutto diversa. Sul piano sociale, per cominciare, il paese è stato di gran lunga il più avanzato in Africa, secondo l’Indice di Sviluppo Umano (HDI). A tale proposito, è sorprendente consultare le statistiche fornite dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), per l’aspettativa di vita (74,5 anni – prima della guerra), l’eliminazione dell’analfabetismo, la condizione della donna, o l’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione. Lo standard di vita e protezione sociale erano sostanzialmente molto agevolati. Non c’è bisogno di appartenere al club dei fan di Muammar Gheddafi per ricordare questi fatti.
Inoltre, con la sua storia, Gheddafi difficilmente può essere messo nella stessa categoria dei suoi due ex vicini. Infatti, Ignacio Ramonet giustamente osserva che attorno al 2000, ha fatto innescare un graduale ravvicinamento con i leader occidentali, che hanno finito per stendere un tappeto rosso per lui, business is business. Tuttavia, non l’hanno mai considerato come “uno di famiglia“, era sempre troppo imprevedibile, e soprattutto non ha mai abbandonato il tono “terzomondista” dei suoi discorsi, in particolare nell’ambito dell’Unione africana, in cui interpretava un ruolo molto speciale.
Eppure, le privatizzazioni e liberalizzazioni intraprese negli ultimi anni, non hanno mancato di impattare sulle relazioni di classe. Una certa categoria della popolazione si è arricchita, a volte troppo, con l’adozione dell’ideologia liberale. Proprio alcuni di coloro ai quali la “Guida” ha affidato la “modernizzazione” del paese e che avevano legami privilegiati con l’alta finanza internazionale (e le sue connessioni universitarie, in particolare negli Stati Uniti) realizzarono che, in questo contesto, lo storico capo era più un ostacolo che una risorsa per il completamento del processo. Parte delle classi medie e della gioventù dorata, specialmente a Bengasi per ragioni storiche, costituirono quindi una base sociale per la ribellione – una ribellione armata fin dall’inizio, e non costituita da una folla pacifica.
Le innumerevoli relazioni e interviste con i giovani “anti-Gheddafi” sono illuminanti. Le Monde cita queste giovani donne dorate che gridavano “niente latte per i nostri figli, ma armi per i nostri fratelli“. Uno slogan che probabilmente ha stupito i manifestanti egiziani. … e che in ogni caso illustra l’assurdità di considerare alla stessa stregua, questi eventi.
In breve, l’assenza di rivendicazioni sociali e anche la presenza di una domanda di “più libertà economica“; e (non sistematica, ma comunque frequente e ora più forte), invito a una più rigida applicazione della “legge islamica“; i leader del CNT strettamente legati al mondo degli affari occidentali o anche addestrativi, e un movimento che è stato in grado di vincere solo grazie ai bombardamenti della NATO – tutto ciò che non è esattamente noto  come una rivoluzione. Simbolicamente, la “nuova” bandiera libica è la vecchia bandiera del re Idris I, rovesciato nel 1969. A questo punto il termine che viene in mente sarebbe piuttosto la contro-rivoluzione.
Su questa ipotesi – anche se solo come proposta di dibattito – le cose sembrano un po’ diverse. Naturalmente questo non significa che gli insorti che vogliono liquidare Muammar Gheddafi siano tutti agenti occidentali, molti sono sicuramente sinceri. Ma lo erano anche molti Chouans durante le guerre della Vandea. Molti di loro furono massacrati comunque – a volte in modo cieco, ma necessario per salvare la giovane rivoluzione.
E quando si tratta di “massacri“, i pupilli delle Potenze alleate non sembrano avere bisogno di molte lezioni, per non dire altro. Ciò vale in particolare per il vero e proprio pogrom che ha avuto luogo – e può essere ancora in corso – contro i civili dalla pelle nera. Presentati come “errori deplorevoli” dai media occidentali, quando non potevano essere totalmente ignorati, sembrano essere stati molto più diffusi di quanto ci hanno detto. Soprattutto,  indicano un razzismo di classe, dal momento che, se libici o immigrati, i neri costituiscono le fila principali di quello che potrebbe essere chiamato, a grandi linee, la classe operaia, non proprio nelle grazie degli insorti, meno di tutti in Cirenaica.
In ogni caso, la “protezione dei civili” non è solo un punto alto dell’ipocrisia da parte dei leader occidentali. Soprattutto, ciò costituisce il pretesto per l’intervento, assolutamente contrario al principio fondante della Carta delle Nazioni Unite: la sovranità e l’uguaglianza davanti alla legge di ciascuno Stato.
E’ questo principio eminentemente progressivo, che altri leader di Cuba, del Venezuela e molti latino-americani, giustamente difendono, per il dispiacere di Ramonet. Quest’ultimo denuncia quindi il loro “enorme errore storico” nel rifiutare di schierarsi dalla parte dei ribelli. Al contrario, adottando quella posizione, stanno dando il più grande contributo che si possa immaginare all’emancipazione sociale e politica dei popoli. E’ vero che, quando si tratta dell’idea di un intervento, quei leader latino-americani sono stati vaccinati dalla sollecitudine storica degli yankees verso i loro vicini meridionali.
Caracas, L’Avana, e altri sono accusati da Ramonet di praticare una Realpolitik in cui gli Stati agiscono secondo i propri interessi. Grazie al cielo! L’interesse di Venezuela, Cuba, e altri Stati latino-americani (la maggior parte, in particolare, quelli progressisti) è infatti  difendersi contro la “legalizzazione” dell’intervento, il cui unico scopo è giustificare le potenze imperialiste a badare agli affari degli altri.
Ignacio Ramonet loda la risoluzione ONU 1973 che ha autorizzato l’uso della forza contro Tripoli. Vede una dose supplementare di legittimità nel testo  approvato preventivamente dalla Lega Araba. Strano modo di vedere le cose: l’organizzazione, la cui sottomissione al leader occidentali non è un segreto, non aveva fino ad allora fatto un nome essa stessa, nella sua devozione attiva alla libertà dei popoli (e del popolo palestinese in particolare). Dominata da grandi attori progressisti come l’Arabia Saudita, che è un indiscutibile punto di riferimento quando si tratta di promuovere la democrazia. …
Ramonet aggiunge che “le potenze musulmane, che erano esitanti in un primo momento, come la Turchia, hanno deciso di partecipare alla operazione“. Dobbiamo capire che una potenza musulmana ha una legittimità particolare nel benedire i voli dei cacciabombardieri Rafale e Mirage? Ciò dovrebbe rendere felici i curdi.
Infine, per tacciare Chavez, Castro, o Correa, Ramonet ricorda che “molti leader latinoamericani avevano giustamente denunciato la passività o la complicità delle grandi democrazie occidentali in materia di violazioni commesse contro le popolazioni civili, tra gli anni ’70 e ’90, da parte delle dittature militari in Cile, Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay.
Ricordiamoci ciò che l’autore conosce, così come chiunque altro: come la “passività” o “complicità” delle “democrazie occidentali“, in realtà era con la loro diretta istigazione e la loro collaborazione attiva, che i golpe sanguinosi furono effettuati. Ma anche così, nessuno ha mai sentito dire che, al momento, i democratici di quei paesi avessero chiesto raid aerei su Santiago o incursioni di commando a Buenos Aires. E’ da loro stessi – e non dall’esterno – che i popoli ottengono la loro libertà.
Al di là del caso della Libia, che è il punto più essenziale, ciò che merita di essere discusso tra tutti coloro che aderiscono al diritto dei popoli a decidere del proprio destino – è ciò che era chiamato antimperialismo.
Usato per essere? In realtà, era così fino alla caduta dell’URSS e del Patto di Varsavia, che ha aperto la strada alla riconquista di tutto il pianeta da parte del capitalismo, del suo dominio e delle sue rivalità imperiali. E che non lasciava ai paesi altra scelta se non allinearsi ai canoni dei “diritti umani“, del “dominio della legge” e della “economia di mercato” – tre termini che sono diventati sinonimi – altrimenti si trovavano sotto il fuoco dai cannoni dei poliziotti planetari, che spudoratamente si fanno chiamare “comunità internazionale“.
A proposito, una scena interessante si è svolta a Bruxelles in occasione del vertice europeo degli scorsi 24 e 25 marzo. Erano quasi le 01:00 del mattino. Il presidente francese rotolò in sala stampa. Interrogato in merito ai bombardamenti iniziati cinque giorni prima, si rallegrò: (…) “E’ un momento storico quello che sta accadendo in Libia, è la creazione di una giurisprudenza, è un punto di svolta nella politica estera della Francia, (…) dell’Europa e del mondo“.
In realtà, Nicolas Sarkozy ci ha rivelato quello che è probabilmente il meno visibile, ma più importante obiettivo di questa guerra. Quella mattina, anche il consigliere speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite descrisse come “storica” la risoluzione che metteva in pratica la “responsabilità di proteggere” per la prima volta dopo l’adozione di tale temibile principio, nel 2005; Edward Luck aggiunse: “Forse il nostro attacco contro Gheddafi (sic!) è un avvertimento agli altri regimi.”
Certo, quando si tratta di un intervento armato contro uno Stato sovrano, la cosiddetta “comunità internazionale” non è un principiante. Ma è la prima volta che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha esplicitamente dato il via libera, e che il suo segretario generale, Ban Ki-moon, ha svolto un ruolo attivo nello scatenare le ostilità. Tutte le implicazioni di una tale situazione devono essere soppesate: la brutale sfida alla sovranità degli Stati è stata legalizzata – anche se non legittimata. Le oligarchie planetarie dominanti, il cui orizzonte finale è la sconfinata “governance mondiale“, hanno così segnato un punto importante: l’interventismo (“preventivo“, secondo Luck) può ormai essere la regola.
Questa concezione, che contraddice espressamente la Carta delle Nazioni Unite, è una bomba a orologeria: è scalza le fondamenta stesse su cui era scritto e potrebbe significare un ritorno alla vera e propria barbarie nelle relazioni internazionali.
La difesa intransigente del principio di non intervento non deriva da nessun ristretto, arcaico e fondamentalista culto, ma soprattutto da un principio fondamentale: spetta soltanto a ciascun popolo fare le scelte che condizionano il suo futuro. In caso contrario, la nozione stessa di politica perde il suo significato – per quanto drammatici siano i percorsi che si devono affrontare.
E’ esattamente lo stesso intervento con la tortura. In linea di principio, le persone civili sono contro il suo uso – ma qualcuno può sempre essere trovato ad insistere sul fatto che “in casi estremi“, si dovrebbe essere in grado di fare un’eccezione (“per evitare attacchi omicidi”, è quello che hanno detto durante gli “eventi” algerini; “evitare il massacro di civili” è la giustificazione oggi all’Eliseo e altrove). Ora, le prove  mostrano che, una volta che una eccezione è concessa, subito dieci, poi cento altri saranno consentiti, nel sordido dibattito viene accettato che sia soppesata la sofferenza inflitta ad una persona torturata, con quello che può essere ottenuto in questo modo, sempre presentato in termini umanistici. E’ la stessa cosa con il rispetto della sovranità: una sola eccezione porta alla eliminazione della regola. Non c’è – per nulla! – una circostanza che giustifica l’intervento. Supponiamo che Nicolas Sarkozy persegua una politica totalmente contraria agli interessi del suo paese e del suo popolo (ipotesi assurda, naturalmente) – ciò non avrebbe in alcun modo giustificato un bombardamento aereo libico – o bengalese, o ghanese – sugli Champs Elysées.
E ciò che esprime la dichiarazione secondo cui “l’Unione europea ha una responsabilità specifica. Non solo militare. Deve pensare alla prossima fase del consolidamento delle nuove democrazie che emergono da tale regione vicina“? Non si può non notare che Ramonet riecheggi, parola per parola, le ambizioni visualizzate da Bruxelles. Lasciamo da parte il “non solo militare“, che indica, se le parole significano qualcosa, che l’UE avrebbe motivo di intervenire anche militarmente. Ma questa “responsabilità specifica” che i leader europei costantemente dichiarano di possedere, chi gli lo ha dato? Una “benevolenza” naturalmente attribuita ad una grande potenza e dai suoi vicini? Tale è appunto la descrizione di un impero, anche se in gestazione.
E’ difficile evitare di pensare al discorso tenuto a Strasburgo dall’attuale presidente della Repubblica, nel gennaio 2007, quando stava, sempre in campagna elettorale, cercando di confermare il suo impegno come “europeo convinto“. In quell’occasione, ha glorificato “il sogno infranto di Carlo Magno e del Sacro Romano Impero, delle crociate, del grande scisma fra cristianesimo orientale e occidentale, della gloria decaduta di Luigi XIV e Napoleone…” Allora, continuava Nicolas Sarkozy: “L’Europa è oggi l’unica forza capace di portare avanti un progetto di civiltà.” Ha continuato, concludendo: “Voglio essere il presidente di una Francia che porterà il Mediterraneo nel processo di riunificazione (sic!) … Dopo dodici secoli di divisione e di conflitti dolorosi … America e Cina hanno già iniziato la conquista dell’Africa. Quanto tempo aspetterà l’Europa per costruire l’Africa di domani? Mentre l’Europa esita, avanzano gli altri“.
Non volendo essere lasciato indietro, Dominique Strauss-Kahn, intorno allo stesso periodo, ha espresso il suo desiderio di una Europa che si estende “dal ghiaccio freddo dell’Artico, a Nord alla calda sabbia del Sahara, a Sud (…) E che l’Europa, credo, se continua ad esistere, avrà ricostituito il Mediterraneo come un mare interno, e avrà riconquistato lo spazio che i Romani, o Napoleone più recentemente, hanno tentato di consolidare.” E a proposito, la più alta onorificenza conferita dall’UE è stata battezzata  “Premio Carlo Magno” – un accenno di ciò che l’integrazione europea è stata fin dalle sue origini, e che non ha mai cessato di essere: un progetto necessariamente ed essenzialmente imperiale e ultra-liberista.
Il punto allora non è se il colonnello Gheddafi è un tizio innocente del coro  esclusivamente preoccupato della felicità dei popoli, ma piuttosto quale domani gli piacerà: la libera scelta di ogni popolo di decidere del suo futuro, o l’accettazione di un intervento come norma, senza dubbio travestita da “diritti umani“?
Vi è infatti una verità ovvia che non dovrebbe mai essere dimenticata: l’intervento non è mai stato, e non sarà mai, altro che l’intervento dei potenti negli affari dei deboli. Il rispetto per la sovranità nelle relazioni internazionali, equivale al voto nella cittadinanza: di certo non garantisce in assoluto, anzi, ma è una risorsa importante contro la legge della giungla. Questo, è ciò che potrebbe benissimo occupare il palcoscenico mondiale. Se tutto ciò sembra troppo astratta, torniamo alla storia recente della Libia. Dopo anni di embargo e trattamento da paria, il colonnello Gheddafi ha intrapreso l’avvicinamento, di cui sopra, con l’Occidente, che in particolare ha preso la forma, nel dicembre 2003, della rinuncia ufficiale ad ogni programma di armamenti nucleari, in cambio di garanzie di non aggressione, promesse appositamente da Washington. Otto anni dopo, non c’è niente da fare riguardo al fatto che l’impegno è durato solo fino al giorno in cui sentivano di avere buoni motivi per non calpestarlo. Improvvisamente, nei quattro angoli della terra, ognuno può misurare il valore della parola data dai potenti e quanto valore hanno gli impegni che prendono. I leader della Corea del Nord (Corea del Nord) si sono così pubblicamente congratulati con se stessi per non aver ceduto alle pressioni per abbandonare il loro programma nucleare. Avevano ragione. Sarebbe logico trarre le ovvie conclusioni a Teheran, a Caracas, a Minsk, e molte altre capitali. Sarebbe perfettamente legittimo.
Appena pochi mesi prima della Libia, vi era la Costa d’Avorio – un altro punto di orgoglio per Sarkozy, cui già il Consiglio di sicurezza dell’Onu aveva dato la sua benedizione alla diplomazia delle cannoniere, con il solo pretesto di accuse di irregolarità elettorali – le prime!
E già gli occidentali lucidavano le loro  armi (militari e ideologiche) per le loro successive avventure. Così Paddy Ashdown, che in particolare ha trascorso quattro anni come Alto rappresentante dell’UE in Bosnia-Erzegovina, confidò al Times che d’ora in poi dovrebbero adottare e abituarsi al “modello libico” d’intervento, in contrasto con il “modello iracheno” di invasione massiccia, che ha mostrato le sue inadeguatezze.
Da parte sua, il Segretario generale della NATO ha fatto un appello il 5 settembre, agli europei. Per meglio riunire i loro mezzi militari in questo periodo di restrizione di bilancio. Per Anders Fogh Rasmussen, “come la Libia ha dimostrato, non possiamo sapere dove la prossima crisi arriverà, ma arriverà.” Almeno questo è chiaro.
Stando così le cose, ha davvero alcun senso analizzare la crisi siriana come la rivolta di un popolo contro il “tiranno” Bashar al-Assad? Al contrario, si può essere perdonati nel pensare che egli è solo il prossimo sulla lista nera dei governi occidentali. In questo caso, non c’è davvero nulla di più urgente da fare, anche in termini di causa dell’emancipazione dei popoli, che allinearsi con questi ultimi, anche involontariamente?
Per quanto riguarda le posizioni assunte da Ignacio Ramonet, non lo insulto assimilandolo alla “sinistra“, che ha da tempo perso la memoria delle lotte. Ma si è costretti a notare che, in questo caso, si ritrova trascinato con quest’ultima, che ha scelto senza esitazione la sua parte nella vicenda libica. Dimostrando ancora una volta il paradosso triste della nostra epoca: le forze del capitalismo globalizzato e dell’imperialismo rinvigorito, d’ora in poi trarrano le relative essenziali munizioni ideologiche dalla “sinistra” – dai “diritti umani” all’immigrazione, dall’ecologia al globalismo (che è l’esatto opposto dell’internazionalismo). Ma questo è un altro discorso.
Oppure sì?

Pierre Lévy è un giornalista francese. Ex-direttore de L’Humanité (1996-2001) ed ex membro di CGT-Metallurgie. Ora è direttore di Le Nouveau-République-Bastille-Nations. L’articolo originale “Contre la banalizzazione e la normalizzazione dell’ingerenza” è stato pubblicata su Le Grand Soir, il 28 settembre 2011. Traduzione in inglese, di Diana Johnstone.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora