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Perché Terza Linea?

di Stefano Moracchi - 11/10/2011

Fonte: terzalinearossobruni

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Se è vero che l’egemonia statunitense ha continuamente ripensato la sua strategia mondiale, allora ne deriva che anche le formazioni sociali particolari che ne hanno subito direttamente le conseguenze, hanno assunto nel tempo delle caratteristiche specifiche.

Questo vale, ovviamente, sia per gli stati che per i rapporti sociali all’interno degli stati.

Le ideologie che hanno attraversato il novecento si sono infrante definitivamente contro l’occupazione del nostro paese da parte degli Usa con la fine della Seconda Guerra Mondiale, le cui basi militari, apparati di sicurezza e controllo dei servizi, sono tuttora in funzione.

Queste forme ideologiche, non potendo più essere indirizzate contro la nuova forma statale messa in piedi, trovarono nella Carta Costituzionale del nuovo “stato democratico” il loro formalismo.

Le forme partitiche ebbero la grande funzione di “normalizzare” il paese attraverso gli opposti estremismi, guardandosi bene dal rivolgere lo scontro contro l’occupante.

La Seconda Guerra Mondiale consentì, quindi, agli Usa di guidare l’intero corso del capitalismo, fino all’implosione dell’Unione Sovietica, attraverso l’abile gestione delle forme assunte dagli opposti estremismi funzionali al nuovo progetto imperialista.

Il discorso sullo scontro tra pubblico e privato che caratterizzò gli anni novanta, a dimostrazione o meno dell’influenza della visione socialista, e sul quale si sono imbastite lotte, discussioni infinite e una vasta letteratura, era anch’esso un discorso utile per traghettare la transizione verso la normalizzazione, in quanto non era, come non è, determinante se una data azienda sia in mano pubblica o privata, ma se il pubblico o il privato fanno riferimento ad uno stato sovrano, cioè se la politica aziendale che portano avanti sia nell’interesse del proprio paese. Se fossimo, ad esempio, un paese sovrano non si sarebbe permesso alla Fiat di espatriare negli Usa, ma la si sarebbe ricondotta d’imperio sotto controllo italiano.

Il crollo del Muro di Berlino chiaramente ha aperto una voragine sul formalismo degli opposti estremismi, in quanto l’antifascismo in assenza di fascismo e l’anticomunismo in assenza di comunismo, diventano semplici espressioni settarie. Che poi, questi scontri assumano l’aspetto delle opposte tifoserie, è una prova ulteriore di quanto appena detto. Mentre l’aspetto ridicolo della vicenda è riassunto dall’incontro a braccetto del “fascista” Fini con il grande “antifascista” Rutelli, comica espressione di un paese bloccato sulle false contrapposizioni.

Oggi, grazie all’entrata devastante della cosiddetta “crisi”, che molti hanno giustamente individuato la causa nel progetto egemonico statunitense, la necessità di riaffermare la sovranità statale è sicuramente un fatto positivo, ma insufficiente.

L’insufficienza dipende dall’affermazione di una visione teorica complessiva che tenga insieme le varie anime che si riconoscono in una corretta impostazione antimperialista (perché di antimperialisti filo-imperialisti ve ne sono molti).

Una visione teorica nasce o da un’elaborazione filosofica oppure da una scientifica. In questa fase, per una serie di questioni, sono entrambe insufficienti. La questione filosofica rischia, ogni volta, di assumere l’aspetto teologico, positivistico o materialistico, insomma sempre di visione idealista si tratta quando va bene, quando va male si giunge nel campo minato dell’utopismo.

La visione scientifica, estromettendo le visioni ideali dell’uomo, del mondo e di Dio, per forza di cose deve dare importanza ai campi di forza presenti sulla scena terrena, non perché non voglia considerare importanti quelli di debolezza, ma perché ritiene che solo dallo scontro tra dominanti possa aprirsi una prospettiva per i dominati.

Siccome non si può fare a meno di elaborare il “concetto”, bisogna pure considerare l’opportunità di prendere in considerazione il fenomeno che da quel concetto deriva.

Allora, quando si indaga il concetto di antimperialismo, non si può fare finta che sia del tutto ininfluente il fenomeno della formazione sociale particolare, dal quale dovrà scaturire la spinta prima, per la ritrovata libertà poi.

Che si indaghi giustamente i modi e le forme che la dominazione assume è cosa doverosa, ma che non si faccia altrettanto sulla formazione sociale scaturita da questo progetto imperialista, è sicuramente una debolezza teorica, come pure una forma di ambiguità da sciogliere.

Rivolgersi in modo indifferente a tutti gli strati sociali, facendo unicamente leva sull’interesse generale, significa ripercorrere la strada del formalismo sotto diverse spoglie.

L’eguaglianza formale è una forma di mascheramento di quella materiale, da cui bisogna uscire per definire un percorso in grado di superare tutti i limiti giuridici che ne permettono la riproduzione.

Come la filosofia pone il concetto come orizzonte d’indagine, e la scienza il fenomeno, dovrà essere la fenosofia a ricomporre i due piani di studio e lo può fare soltanto individuando il luogo per eccellenza dove far partire il “processo attuativo”.

Dai vari capitalismi in lotta possono derivare delle opportunità per i dominati, ma bisogna prepararsi a questa eventualità, per nulla certa, e qualora anche lo fosse, dai tempi sicuramente incerti (il che equivale a nessuna certezza), attraverso l’individuazione del soggetto sociale di riferimento in grado di svolgere questo compito anche in situazioni oggettivamente non favorevoli.

Se, al contrario, si pensa di poter influire sulle scelte dei vari competitori capitalistici (stati), senza alcun riferimento alla formazione sociale scaturita già dalla politica della formazione sociale egemone (stato dominante e gruppi di potere insediatisi nello stato dominato), sicuramente si fa una grande opera d’informazione ma priva di qualsiasi valore politico reale.

In questa fase dominata dalla “crisi” scaturita dal progetto politico dello stato dominante (Usa), è del tutto evidente che il classico conflitto capitale/lavoro è insufficiente a determinare qualsiasi azione specifica, in quanto il conflitto è attraversato da una miriadi di lotte tra loro separate in gruppi sociali determinati da un comune interesse del tutto particolare.

Questo tipo di lotte sono tra loro separate per via della mancanza di un progetto politico che le indirizzi, non verso la rivendicazione di un più alto tenore di vita (in tempi grassi), o di pura sopravvivenza del posto di lavoro (in tempi magri), ma dall’uscita dall’attuale sistema.

Compito che nessun sindacato può svolgere, in quanto interno allo stesso orizzonte degli imprenditori, la cui conflittualità è sempre caratterizzata dal reciproco riconoscimento.

Non deve quindi scandalizzare come, in questa fase, le rivendicazioni dei sindacati siano le stesse della Confindustria, mentre la fuoriuscita di alcuni imprenditori da questo orizzonte politico segna l’avvio del sopravvento effettivo, e quindi della conclusione della fase di transizione, del nuovo progetto dominante la cui crisi ne era il sintomo.

Per questo i sindacati, con il loro ruolo, come tutti i soggetti che lo hanno promosso e accettato, sono in pratica responsabili del buon esito della transizione.

Parlare di “rivoluzione”, facendo leva su questo tipo di scontro, è veramente stucchevole e non può essere imputato solo ad una cattiva teoria, quanto piuttosto ad una malafede.

Pertanto, se è vero, come è vero, che al momento i giochi decisivi sono tutti all’interno delle sfere dei dominanti, è altrettanto vero che senza un certo indirizzo da parte di soggetti che svolgono il ruolo dei paladini dei lavoratori, della propaganda dei media, degli intellettuali con grandi elucubrazioni condivisibili e allo stesso tempo di appoggio ai reazionari, il progetto dei dominanti non potrebbe riuscire o essere messo in atto politicamente, quantomeno ritardato.

Lo abbiamo visto con la Libia quanto sia importante preparare l’opinione pubblica con narrazioni particolari, effetti scenici e ricostruzioni ambientali. I dominati sicuramente non decidono nulla, ma se non li si prepara adeguatamente, i progetti dei dominanti vanno all’aria.