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Poesia come un albero

di Luca Manes - 11/10/2011


 
Quando nel deserto nulla appare allo sguardo, imbattere in un albero significa ritrovare la vita. Poterla nuovamente guardare, con la gioia della scoperta. Così accade con la poesia di Margherita Guidacci, riedita nell’antologia Poesia come un albero (Marietti editore. La sabiana, collana diretta da Davide Rondoni, pag. 131, € 15,00). L’albero è il radicarsi nella vita, come la poetessa scrive: “Ci sono le radici che affondano nella terra e c’è il fogliame che, invece, quanto più le radici sono profonde tanto più si può espandere verso l’alto. Questa immagine dell’albero già condensava tutto per me fino dalle mie prime prove poetiche”. Poetessa sempre ai margini del novecento italiano e europeo, intensamente religiosa e libera, non cercò né attese mai il successo. Scrisse semplicemente in dialogo con la vita, perché “tutto è risposta intorno a noi”.
“Nella vita ero entrata, per così dire, a ritroso, senza poter staccare lo sguardo dal termine che ci attende sulla terra, il disfacimento della carne. E quel termine mi riempiva di tanto terrore da esercitare su di me una specie di sinistro incantesimo”. Nata a Firenze nel 1921, conobbe la morte all’età di dieci anni, quando perse il padre amato. Da quel momento, la poesia divenne lo strumento con cui Margherita Guidacci riscoprì, verso dopo verso, la vita. La prima raccolta, apparsa nel ’46, “La sabbia e l’angelo”, fu, in fondo, il riconoscimento di una comunione tra i morti e i vivi. La visione di un proseguimento della vita dentro la morte. In una sorta di unione. Tentativo quasi necessario dopo “il devastante senso di morte che aveva gravato su di noi nei terribili anni della guerra”. Quello di Margherita Guidacci è un inginocchiarsi nel buio della notte, con un’assoluta fiducia e certezza, poiché una fiamma ci è stata data: il segno che giungerà l’alba. “ Non chiedere alla fiamma di salvarti dalla notte. / Nel cerchio d’ombra e d’ululati / il suo riflesso danzerà nell’occhio del lupo in attesa; / I torvi uccelli agitati / dal rosso che distrugge la falena / più folli sul tuo viso sbatteranno le ali. / Essa fu posta solo come un segno / per il tuo cuore: e tu con essa balza e trema / finché sia fatta l’alba”.
E’ troppo forte, tuttavia, il presentimento del termine. Come accade agli alberi in novembre, il tempo spoglia l’uomo. Lasciandolo nudo ai piedi di una perdita troppo grossa da sopportare: “L’acqua porta / via la terra dai monti, finché resti / nudo il macigno, il vento porta via / le foglie fino all’ultima secchezza / degli alberi. Non resta che sperare / il tempo in cui più nulla vi sarà / da perdere”. Un’angoscia per la morte, per il corpo che diverrà polvere, che portò la poetessa, tra il 1968 e il 1969, alla stesura della raccolta Neurosuite, apparsa nel 1970. Il vento, prima segno di vita, diviene qui una tortura e una pena graffiante. Il ribaltamento di un albero che non trova terra dove poter distendere le proprie radici. L’assenza di un amore. Ecco, il dubbio su Dio avviene nel non incontro di una fontana. La parola, a questo punto, diviene un grido, affinché si mostri. Affinché Dio si faccia a lei presente: “Vi sono gridi che s’innalzano / come colonne per puntellare il cielo / che, disfatto, minaccia di crollarci sul capo. / Gridi nitidi, rauchi, tronchi, aguzzi. / Ciascuno chiama gli altri e li contiene. / O forse è un solo grido / che continua nel tempo”.
Un grido che squarcia il tempo. Fino al 1983, quando esce la raccolta Inno alla gioia. Una gioia a cui la poetessa arriva dopo aver attraversato la notte. Dopo aver toccato e vissuto ogni tenebra. Che, tuttavia, anche è preludio di resurrezione: “Le stelle –splendore nel buio- sono insieme promessa figurale della luce piena, e evidenza che una luce già qui e ora esiste, come è (sulla scia di Platone) promessa e prova della pienezza dell’amore divino la già reale felicità dell’amore terrestre”. Questo ha scoperto Margherita Guidacci. La possibilità di un amore eterno già qui, nella vita. Una pienezza di amore, e gioia, possibile soltanto col farsi a lei incontro di un amore terrestre. Un’eternità che non è affatto superamento della vita, ma il suo essere principio già qui. Nella nostra umanità. Che mai avrà termine: “Alla fine dei secoli, quando / mi chiamerà un’altra voce / e proverò per la seconda volta / l’impeto di resurrezione / prego che come questa volta, quando sei stato tu a chiamarmi, / alzandomi stupita dalla fossa / con le ossa che sentono la carne / stendersi nuovamente su di loro, / con la carne che sente / in sé di nuovo penetrare l’anima - / io possa, in quel tremendo campo / dove avrà inizio l’eterno, / fissare il primo sguardo su di te, / ritrovarti al mio fianco”.