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Antonella Anedda, voce limpida e significativa

di Luca Manes - 11/10/2011


 
 
Dopo quasi venti anni, ricordiamo l’esordio letterario di Antonella Anedda. Una delle voci più limpide e significative della poesia italiana, e non solo, contemporanea. Uscì nel 1992 il “suo” Residenze Invernali (Crocetti editore, pag. 84, € 12,00). In ristampa nel 2008. E già dalla prima poesia si capisce che il poter sfogliare le pagine di questa raccolta non è un atto di semplice e normale lettura. Molto di più. Le parole della poetessa aprono, sin dal primo verso, a un viaggio dentro al buio e alla miseria. Dove l’oggetto e la parola resistono, inascoltati nella notte. E la poesia parla “al cestino con ancora una mela”. A ciò che si direbbe morto, e che invece è ancora vita: “Non parlavo che al cappotto disteso / al cestino con ancora una mela / ai miti oggetti legati / a un abbandono fuori di noi / eppure con noi, dentro la notte / inascoltati”.
Allora il corpo deve farsi spazio. Accogliere “l’angolo  di pietra”. Accettare il frammento. Aprirsi alla vita che resiste nel buio della notte, mentre tutto fuori muore: “Un faro / un solo raggio lontano / guida il traghetto che accoglie la bufera”. Quasi che sia necessario l’inverno, il gelarsi della vita che non è vita. E in questa miseria la poetessa ci indica il faro, la direzione verso ciò che trema, e non muore. Perché è proprio nella brevità della vita, quando la realtà si restringe e il superfluo è chiamato fuori, distante, che i corpi si fanno radici. Vita dentro il ghiaccio del dolore e della morte. “Di lato a ciò che muore / resta ferro / incrocio di àncora e chiodi / di spente navi da guerra”.
E che consolazione non essere soli! Come malati, guardarsi a bordo sulla nave. Che salpa e segue il faro. Una sorta di ospedale: dove “i vivi si chiamano come da barche lontane”. Compagni. Un luogo che Antonella Anedda identifica in una “pietroburghese residenza invernale”. Dentro la quale i malati, ancora vivi, si distendono come sabbia, nel silenzio, in attesa che l’onda si sollevi. Come marinai, in ascolto della vita: “Eppure, distesi sulla misteriosa rotta dei letti / noi siamo nello stesso splendore / della marea che si placa / vicinissimi al nodo che l’acqua finalmente distende. // La nave salpa e cammina / ed è un quieto santuario”. La residenza invernale è dove la vita continua. Dove, in frammenti, tra le crepe, lo squarcio di luce si fa durevole. Continuo. E noi possiamo conoscere il segreto dell’onda, il silenzio del suo distendersi. Con la gioia dei sopravvissuti, andare.
Al termine dell’inverno, tutto ritorna invisibile. Anche la quiete e la pace di quel luogo. Ora nuovamente distante. Non più l’uomo che si aggrappa a ciò che resiste. Scoprendosi. Ma “un cielo durissimo / senza scudo di nuvola”. L’uomo che, sotto questo cielo, si raccoglie. Attendendo il “primo vento autunnale”. In veglia.
E ritorna, l’inverno. Che sembra, però, questa volta, non bastare. “Tregua non luce”. L’uscita è un’altra: “Non basta la sua lunga / verticale attesa / occorre una diversa pausa / l’aria che si apre a ghianda / per uccelli e cinghiali / il varcare col pugno la vetrata. / Questo fa del corpo preghiera / della mente chiglia di spino”.
Anche se necessario, con la sua miseria, l’inverno avrà termine. Ancora vivi, ancora uomini ci scopriamo dopo il suo passaggio. E, nella radice di questa sopravvivenza – già vita!-, in questo “breve spazio”, si svela all’uomo la sua durata. Il suo continuare ad essere luce. Quando anche il ricordo si spegne, insieme all’affievolirsi degli oggetti, rimane soltanto la nostra voce. Una voce prima e dopo il linguaggio. Il grido dell’uomo che sopravvive. Sospeso. In questo grido c’è tutta l’umanità dell’uomo. Unite sono le “tegole di tetto splendente terrena bellezza”. Una voce che non si può non distinguere: terrena, umana. E che cosa tenga insieme questa “terrena bellezza” è un mistero. Che la poetessa non sa dire. E, forse, inspiegabile. A questo mistero, volto non detto, si eleva il grido e la voce dell’uomo. In tutta la sua “terrena bellezza” più grande: “Non so cosa tenga / la domenica unita / pezzo a pezzo. / (…) A voi pallide vetrate / alla purezza del legno e del cristallo / levo la preghiera di un umano. / (…) Ora terra e tela seccano insieme lontano dalle fonti / ora gli uccelli sono alti / nelle dense ali degli Angeli”.
E, con la poesia di chiusura, l’ammissione di un uomo che avverte che “in nessun luogo c’è bisogno di noi”. Perché tutto continua, viene dato: “Di lato c’era come un recinto / e lì duravano le cose”. L’inverno questo ha fatto. Segnalato ciò che dura. E Antonella Anedda l’ha visto. E scritto. Magari in una pietroburghese residenza invernale.