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La Libia tomba dei pacifisti: ma dove sono?

di Gian Micalessin - 14/10/2011


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Ve li ricordate? Si chiamavano pacifisti e nel segno dell’arcobaleno ne facevano di tutti i colori. C’erano gli scudi umani pronti a morire per Arafat e Saddam Hussein. C’erano Vauro e i suoi decisi a liberare Gaza dall’assedio israeliano. Per non parlare di Gino Strada sempre pronto ricordarci le vittime del conflitto afghano. O di quel vescovo deciso a non recitare mezza preghiera per Matteo Miotto, l’alpino colpevole di esser morto combattendo i talebani. E c’era tutta l’allegra brigata di Assisi, quella dei Vendola e delle Bindi, sempre felici di marciare nel nome della santa pace. Son tutti scomparsi. Si son tutti perduti nelle sabbie libiche.

Lì a due mesi dalla caduta di Gheddafi la Nato continua a bombardare. Lì uomini, donne e bambini senza acqua, cibo e cure mediche attendono che qualcuno faccia valere anche per loro la risoluzione votata dall’Onu nel nome della difesa dei civili libici. Ma Assisi non ne parla. Lì Bindi, Vendola e i loro amici inneggiano alle rivolte arabe, ma non sprecano mezza parola per la guerra di Libia. A raccontare quel dramma senza fine rimane solo la Croce Rossa Internazionale.

«La situazione all’interno dell’ospedale è caotica e inquietante - riferisce da Sirte il delegato dell’Icrc Patrick Schwaerzler - abbiamo trovato pazienti feriti dalle schegge e con gravissime ustioni. Alcuni hanno appena subito delle amputazioni. Altri sono in stato d’incoscienza tra gruppi di pazienti che continuano a implorare aiuto». Ma le pene dei libici non allineati con i principi della santa primavera araba non rientrano purtroppo fra quelle capaci di mobilitare i pacifisti nostrani. Guardatevi la prima pagina del sito di Emergency o di Peace Reporter, «la rete della pace». C’è un appello per la liberazione del volontario Francesco Azzarà, un richiamino ai 10 anni di guerra in Afghanistan, ma per la Libia manco mezzo titolo. Non che gli argomenti manchino.

Secondo un rapporto di Amnesty International, pubblicato dopo una visita a 11 centri di detenzione sparsi tra Tripoli e Misurata, nelle galere degli ex ribelli languono più di tremila prigionieri catturati dopo la caduta del regime. Per la maggioranza di loro non esisterebbero né prove, né capi d’imputazioni. E tantomeno la certezza di un processo o di una detenzione priva di abusi. «In alcuni casi – si legge - c’è la chiara evidenza di torture praticate per ottenere confessioni o per infliggere una punizione».

In una prigione i delegati di Amnesty trovano degli strumenti di tortura, in un altra ascoltano il rumore delle frustate e i lamenti dei prigionieri. Ma quel che più dovrebbe inquietare la grande tribù dei pacifisti scomparsi è la sistematica detenzione di africani accusati di essere dei mercenari di Gheddafi esclusivamente in base al colore della pelle.

«Gli africani originari delle regioni sub sahariane e i neri libici - scrive il rapporto - sono particolarmente soggetti ad arresti arbitrari a causa del colore della pelle e delle voci secondo cui le forze gheddafiane hanno usato combattenti stranieri per combattere le forze del Consiglio di Transizione... circa il 50 per cento dei detenuti sono africani, la metà dei quali lavoratori immigrati». Un tempo accuse di questo tipo avrebbero mobilitato non solo la grande tribù pacifista, ma anche la rete dei movimenti anti razzisti della sinistra italiana.

Oggi invece il sito di “Sos razzismo” l’organizzazione «sempre pronta a combattere le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza, alla cultura, alla fede professata» non gli dedica manco mezza riga. Difende l’immigrato Rudy Guedé - unico condannato del delitto Kercher -, chiede miglior accoglienza per i disperati di Lampedusa, invoca l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, ma non spende una parola per gli africani prigionieri del nuovo regime libico. Non sono figli delle primavere arabe. Non sono in linea con il pensiero alla moda. Si meritano guerre, torture e razzismo.