Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Così al vento ne le foglie lievi…

Così al vento ne le foglie lievi…

di Francesco Lamendola - 16/10/2011

foto



DEDICATO ALL’AMICO ENZO

L’aria frizzante del primo mattino accompagna i passi nella dolcezza di questo autunno che non si decide ad arrivare e che indugia sul limite estremo dell’estate, con la vegetazione ancora verdeggiante come lo era due mesi fa.
Solo le foglie cadute, sul lato della strada, mostrano che l’ottobre è ormai inoltrato e che gli alberi già da tempo hanno incominciato a restituire alla terra tutte le sue spoglie; come dice il gran padre Dante (Inf., III, 112-14):

«Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che l‘ ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie».;

o, ancora (Par., XXXIII, 64-66):

«Così la neve al sol si disigilla;
così al vento, ne le foglie lievi
si perdea la sentenza di Sibilla».

Non sono ancora molte; più abbondanti ai piedi dei platani e dei pioppi, rosse e arancioni ai piedi degli aceri, tradiscono comunque l’avanzare della stagione, nonostante la temperatura insolitamente mite e l’assenza di vento e pioggia.
Sui rami, nel complesso, si nota appena la selezione operata dall’autunno; in controluce, per contrasto con il cielo azzurro e limpidissimo, solcato da qualche raro fiocco di nubi, spiccano le prime foglie gialle e brune, ma è necessario avvicinarsi per notarle; da lontano, l’insieme della chioma appare ancora, incredibilmente, vestita dei colori estivi.
L’amico Enzo mi parlava l’altro giorno del suo stupore, del suo incanto davanti allo spettacolo delle foglie autunnali; di queste creature che, figlie come noi del cosmo, nonostante la consapevolezza di doversi presto staccare dal ramo, non ci trasmettono tristezza e un senso di caducità, ma armonia, serenità e magnificenza, oltre a una certa qual fierezza, perché, pur essendo giunte al termine del loro ciclo, prevale in esse la coscienza della continuità della vita, attraverso nuove forme e nuove modalità di esistenza.
Un messaggio che noi umani, tutti presi dall’attaccamento alla dimensione materiale, stentiamo a recepire; quasi che in noi vi fosse meno saggezza che in loro, in queste foglie multicolori che oggi ci sorridono dall’alto delle fronde e che domani giaceranno a terra, esposte alla pioggia e al vento, mentre noi le calpesteremo con un lieve fruscio.
È incredibile quanta bellezza, quanta grazia e quanta perfezione si concentrino in queste fragili creature: nessun pittore potrebbe rivaleggiare con la loro semplice, e tuttavia regale magnificenza; ricordo che mio padre, una volta, con poche foglie cadute raccolte da terra, seccate e messe in cornice, ottenne il più bel quadro che si possa immaginare, pieno di vita e di luce.
È come se in esse si concentrassero tutto il succo, tutta la misteriosa linfa vitale che scorre anche nelle nostre vene, che anima gli alberi e gli uccelli, che muove le nubi nel cielo e guida i torrenti e i ruscelli nella loro corsa argentina verso i fiumi e la gran pace del mare.
Passeggiare sotto un viale alberato, in ottobre, è come sfilare lungo un giardino incantato, con i rami che si tendono e s’intrecciano sulla nostra testa, simili ad altrettanti archi di trionfo.
Nella fastosa fragilità delle foglie, nel loro languido declinare vi è qualche cosa di una bella donna matura di anni, ma ricca di esperienza e di fascino, che saluta con la mano e soavemente si allontana, portando con sé la nostalgia di una presenza che aveva riempito ogni cosa della sua fragranza e che ora sa accomiatarsi senza rumore, con sapiente discrezione.
Queste foglie d’autunno, oltre a rallegrarci la vista e il cuore con i loro colori incomparabili, ci suggeriscono anche una profonda lezione di vita: la saggezza del non attaccamento, del lasciarsi andare quando è giunta l’ora, del sapersi abbandonare alla corrente dell’armonia cosmica, dei cicli della natura che perpetuamente si rinnovano.
Dovremmo imparare da loro.
Invece non cessiamo mai di attaccarci alle cose, con la brama di possederle, con il timore di perderle, con l’ansia di dover sempre lottare per difendere quel che riteniamo nostra proprietà, mentre ci è stato dato solamente in usufrutto; e così noi facciamo esattamente il contrario di quel che fanno queste lievi, delicate, dignitose figlie dell’albero.
Non vogliamo capire che l’attaccamento è il prodotto dell’ego e che l’ego è il prodotto della mente: questa mente insaziabile, irrequieta, indomabile, che sempre vuole e vuole e vuole, né mai si accontenta di quanto le tocca in sorte, ma incessantemente desidera dell’altro, ancora e ancora, sempre di più, sempre più a lungo: come se la vita forse una eterna corsa per gli acquisti al supermercato, dove tutto è in vendita, perché tutto ha un prezzo.
Invece le cose di valore non hanno un prezzo; hanno, appunto, un valore, che è tutta un’altra cosa: non le si può vendere, non le si può comprare: si può soltanto cercare di meritarle, di esserne degni e custodirle fedelmente; e questo è tutto.
L’attaccamento è un prodotto della mente, dunque; e la mente, a sua volta, è piena di paura: paura di non raggiungere quello che brama e paura di perdere quello che già possiede; di conseguenza, se permettiamo alla mente di dominare i nostri pensieri e i nostri sentimenti, noi ci ridurremo ad essere i suoi schiavi, a servirla in ogni suo capriccio, a blandirla, assecondarla, servirla continuamente e lasciare che essa ci porti dove vuole lei, non dove vorremmo noi.
La foglia che, in autunno, quando il vento soffia dai monti, cessa di tenersi attaccata al ramo e si lascia cadere, ci dà una incomparabile lezione di saper vivere: non si intestardisce, non si afferra, non oppone una inutile resistenza, ma trasforma la propria caduta in una danza di impareggiabile dolcezza ed eleganza.
È più saggia di noi.
Cade al suolo, ma senza disperazione, anzi con soavità: sa che quello è il suo destino e sa che continuerà a vivere, in altre forme, in altri corpi, in altre stagioni; sa che il suo cadere è necessario perché, fra qualche mese, altre gemme sboccino sul ramo, altre foglie si dischiudano al tiepido sole primaverile, rallegrando il mondo con il loro verdeggiare.
I vecchi devono lasciare il posto ai giovani: è una legge di natura; chi ha fatto il proprio tempo, si distacca perché altre generazioni possano farsi avanti e vivere il loro momento; non vi è nulla di triste o di crudele in tutto questo, è un ciclo perenne che eternamente si rinnova e che trova in se stesso l’energia per perpetuarsi, assicurando stabilità e armonia all’insieme.
A che cosa servirebbe alla vecchia foglia rimanere attaccata al ramo, quand’anche lo potesse, sopravvivendo alla caduta di tutte le altre, se non ad occupare inutilmente lo spazio che darà vita e nutrimento ad una foglia nuova, quando l’inverno finirà e le piogge di marzo avranno ridato forza e vigore all’albero, rinnovando in lui il miracolo della fertilità?
Non si può vivere solo per se stessi; la nostra vita ha un senso ed un valore nella misura in cui è parte della vita cosmica, è un soffio della vita universale, che ovunque si manifesta e ovunque trionfa, anche nel gelo più crudo delle montagne innevate, anche nel calore torrido dei più riarsi deserti.
Una vita che bada solamente a se stessa, che si preoccupa solo di se stessa, che cerca di sostenersi a danno delle altre vite, è peggio che una vita inutile; è un perenne errore esistenziale, una sfida all’armonia della natura, un fardello che grava inutilmente sugli altri, come un angolo del giardino ove non batte mai il sole, non fiorisce mai la primavera, né mai si posa un uccello canoro.
Noi siamo parte della vita universale; la nostra anima è parte dell’anima universale; è una scintilla o un riflesso della incommensurabile luce divina: perciò non dobbiamo temere, non dobbiamo resistere, non dobbiamo aggrapparci.
Il nostro destino non è affidato al caso, ma ad un sapiente disegno di bene; non c’è motivo di aver paura, di angosciarsi, di disperare: il distacco dal ramo e la caduta non rappresentano la fine, ma la conclusine di un ciclo e l’inizio di un altro, di cui saremo sempre parte.
Tutto questo ci dicono le foglie gialle, brune e arancio dell’autunno; tutto questo ci dicono quando, sempre più deboli, ma splendide e variopinte, restano ancora unite al ramo e anche più tardi, quando cedono alla stanchezza di una vita intensa pienamente vissuta e smettono di fare presa, permettendo ad un lieve soffio di vento di portarle via con sé.
Hanno fornito ombra e riparo ai nidi degli uccelli; hanno avvolto e protetto la vita di tanti piccoli esseri, dagli scoiattoli alle formiche; hanno stormito al vento di primavera e alla brezza dell’estate, cantando la loro canzone sempre uguale e sempre nuova; si sono inzuppate di pioggia e asciugate nel sole caldo del mezzogiorno: ora possono andare serenamente, quel che dovevano fare l’hanno fatto, il loro compito è stato assolto.
Potessimo dir così anche noi, di noi medesimi: quel che dovevamo fare, l’abbiamo fatto; abbiamo assolto degnamente il nostro compito.
Potessimo avviarci all’ultimo giorno con animo sereno, come l’operaio alla fine della sua giornata, che torna al meritato riposo: stanco, ma soddisfatto di se stesso.
Questo è l’obiettivo che dovremmo darci: rispondere affermativamente alla chiamata dell’Essere; vivere la nostra giornata terrena con impegno, con generosità, con dedizione; lavorare incessantemente per raggiungere la chiarificazione interiore, la consapevolezza di noi stessi; rimanere fedeli alla nostra parte migliore e più vera: e, poi, mollare la presa e lasciarci andare alla grande corrente della vita cosmica, quand’essa ci chiamerà per altri lidi.
Siamo qui in maniera provvisoria; o meglio, una parte di noi è qui in maniera solo provvisoria; e quando tale parte provvisoria avrà completato il suo compito, allora l’altra parte, quella divina, potrà sciogliersi dalle limitazioni del tempo e dello spazio e ritornare a quella fonte dell’Essere dalla quale proveniamo, come ogni altra cosa esistente.
La foglia che si stacca dal ramo e cade a terra non cessa di esistere, ma ritorna nel grembo di colei che l’ha generata, e contribuisce alla nascita di nuove foglie, nuovi rami e nuovi alberi; così anche noi: quando consegneremo il nostro corpo alla terra, non cesseremo di esistere, ma ritorneremo a quel Grembo celeste dal quale siamo usciti.
Non ne siamo usciti per caso, non vi ritorneremo per caso; ma tutto risponde ad un disegno sapiente e benevolo, concepito prima che il mondo fosse.
Perché ancor prima che il mondo cominciasse a esistere, noi eravamo già stati pensati, voluti, amati: ogni cosa già esisteva nel seno dell’Essere, anche se, materialmente, non si era ancor manifestata nella dimensione del tempo e dello spazio.
Ma il tempo e lo spazio sono cose di quaggiù; non hanno esistenza reale: sono solo l’illusione prodotta dalla nostra mente che si crede separata, che si crede indipendente.
Quando questa illusione finirà, anche il tempo e lo spazio scompariranno: e allora ci apparirà il volto vero del reale, fatto solo di un eterno presente, di un eterno splendore.
Ma per giungere a ciò, bisogna che le foglie cadano a terra; bisogna che le cose contingenti non si aggrappino più, non oppongano resistenza, ma si lascino andare dolcemente.
Siamo come l’acqua del ruscello, che scorre all’ombra delle fronde mormoranti, fra chiazze d’ombra e scaglie di luce iridata: il nostro destino è quello di scendere a valle, di defluire verso la pianura, fino al mare lontano.
Finché non vi giungeremo, non saremo compiuti; non saremo perfetti.
La nostra perfezione è nel ritorno all’Essere: perciò dobbiamo imparare dalle foglie l’arte del non attaccamento, l’arte del lasciarsi andare con fiducia e con serenità.
Se la foglia rimane attaccata al ramo, non servirà più a nulla; ma se si lascia andare nel dolce grembo materno della terra, sarà feconda di nuova energia vitale e non sarà vissuta invano.