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La cognizione del peccato originale

di Giuseppe Galasso - 16/10/2011

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Così la riflessione sui progenitori dell'umanità ha formato l'etica


In che modo peccarono Adamo ed Eva, facendosi così cacciare dal paradiso terrestre, e condannando noi poveri e innocenti loro discendenti al rischio della dannazione eterna, la donna alle doglie del parto, l'uomo alle sue sudate fatiche, e chi vuole riguadagnare il paradiso (questa volta, celeste) a una disciplina di purezza del pensiero e delle opere? Fu il molto umano peccato del congiungimento carnale tra uomo e donna?
Non sono quesiti peregrini e oziosi. Vi si arrovellarono spiriti e intelletti cristiani ed europei tra i maggiori, e le relative risposte hanno formato una parte rilevante delle nostre idee religiose e morali. A quasi ottant'anni dal suo apparire nel 1933, il libro di Antonello Gerbi, Il peccato di Adamo ed Eva, ora riedito, a cura del figlio Sandro, da Adelphi, lo riconferma.
Il libro nacque nella scia del precedente studio di Gerbi sulla politica del romanticismo. Qui egli aveva notato che per un modesto scrittore libertino olandese, Adriaan Beverland, il peccato originale era consistito nella «voglia di copulare» e nell'attuarla; e che questa tesi aveva trovato eco in pensatori importanti, e perfino in Kant, influenzando il pensiero romantico, specie nelle sue «miscele di sensualità e religione». Poi Gerbi studiò anche gli sviluppi dell'«ipotesi beverlandiana» fin dagli inizi del cristianesimo, e ne nacque questo libro, in cui il concetto di colpa è visto come «quasi un nesso tra la religione e la morale», e ne è seguita la progressiva «umanizzazione».
Dopo Beverland, i significati metafisici e teologici del «peccato originale» vennero superati, affermando e giustificando il «peccato» come implicazione naturale della condizione umana, e vanificando l'idea di colpa. Le condanne di Adamo ed Eva (l'amore naturale come peccato, il lavoro come pena) e le idee connesse di male e di dolore furono ridotte a fatti di natura. Cadde la tradizione antica della miseria e infelicità della condizione umana, bisognosa, per il suo vizio d'origine, di comprensione e di perdono, di grazia e di redenzione. Emergevano integre la natura e l'esperienza terrena dell'uomo, non più condizionate dalla maledizione inflitta ai due progenitori, né dal pessimismo che da san Paolo e sant'Agostino a Pascal l'aveva sempre connotata.
Questo il giudizio di Gerbi, che vedeva, quindi, completarsi col romanticismo quella rivalutazione della condizione umana che, malgrado tutte le revisioni, resta un significato essenziale dell'umanesimo. Beverland si trasformava, da modesto (e anche osceno) scrittore su problemi più grandi di lui, nel casuale starter di una grande rivoluzione morale e culturale, acquisendo nella storia del pensiero europeo un posto tuttora ben poco riconosciuto.
È una tesi ardita, che spiega perché su di essa i recensori del libro, pur apprezzandone la dottrina e l'acume, avanzarono corpose riserve. Per Alberto Pincherle, ad esempio, la tesi del peccato originale come causa del male nell'uomo e nell'universo non c'è più nella nostra cultura; il cristianesimo aveva forzato in senso drammatico il testo biblico su quel peccato; dall'umanesimo in poi ci siamo allontanati dalle concezioni paoline e cristiane.
Queste critiche dovettero avere effetto su Gerbi, che continuò a raccogliere materiali sul suo tema, pensando di riscrivere il libro, come dimostra il figlio, che utilizza per la nuova edizione schede e note del padre riportate nel testo. In effetti, Gerbi aveva chiara la modesta statura di Beverland. «Occorre a volte (scrisse poi) uno scrittore di basso rango per sconsacrare e ravvivare un tema d'alta portata». Poco geniale, l'olandese aveva, tuttavia, diffuso «la sacrilega "ipotesi"» e l'aveva fatta circolare e agire anche «su menti e in ambienti chiusi» ad alte disquisizioni teoriche.
Il dubbio, tuttavia, sull'effettivo ruolo di Beverland resta, ma il merito del libro di Gerbi trascende questo punto. Egli individuò bene il grande problema filosofico adombrato nel mito del peccato originale. Un mito in cui emerge, a mio avviso, l'essenziale della vita e della storia: il non potere, cioè, mai riposare nelle braccia, per liete che siano, del presente, dell'ordine vigente delle cose. Una spinta incoercibile spinge ad andare oltre, in meglio o in peggio si vedrà poi. Ha un alto significato, sempre a mio avviso, che questa spinta (diabolica già nella Bibbia) sia affidata alla curiosità e all'iniziativa della irrequieta Eva contro il pigro e timorato Adamo. Forse pensava a questo Raffaele Mattioli, che, ricevuto il libro di Gerbi, gli rispondeva con un epigramma spiritosissimo: «nessun dalla testa mi leva/ che il pomo d'Adamo/ fosse il c...o di Eva». Si possono dire cose essenziali anche così, e si può indicare un sentiero importante di riflessione storica e teorica anche seguendo, come fa qui Gerbi, la pista di un modesto Beverland.