Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Mettere l’altro sul piedistallo è un espediente per non lavorare su se stessi

Mettere l’altro sul piedistallo è un espediente per non lavorare su se stessi

di Francesco Lamendola - 21/10/2011




È comodo, mettere l’altro su di un piedistallo.
Apparentemente si tratta di una forma di ammirazione per lui (o per lei), un tributo che noi rendiamo a chi ci sembra migliore di noi e quindi, indirettamente, anche un segno di umiltà, un riconoscimento della nostra imperfezione e della nostra piccolezza.
Quelle persone che, al termine di una conferenza, si stringono intorno all’oratore, lo sguardo adorante, per stringergli la mano e per esprimergli la loro intima soddisfazione; quegli innamorati che, davanti alla loro bella, si metterebbero in ginocchio e non chiederebbero che poterla ammirare dal basso, consci della propria insufficienza; quei fedeli che, davanti a un santo uomo di Dio, non domanderebbero altro che potergli sfiorare la veste, deporre una pena nel suo orecchio, ricevere una parola o un gesto di cnforto, sentendosi, davanti a lui, meno di niente: tutte queste categorie di persone condividono lo stesso meccanismo psicologico, quello di caricare l’altro di ogni possibile perfezione, per dispensare se stessi da ogni serio lavoro su di sé.
Si tratta, in fondo, di un meccanismo semplicissimo, per non dire banale: se io trasferisco su di un altro la mia sete di perfezione, allora mi svuoto anche del dovere morale di perfezionarmi; lo scarico su di lui, così da poterlo adorare incondizionatamente, e intanto mi sollevo da ogni responsabilità: infatti, sono rimasto talmente povero di me stesso, che non mi avanzano davvero le energie per rimboccarmi le maniche e cercare di migliorarmi.
Ed ecco che quello che sembrava un atto di umiltà, un riconoscimento del proprio limite, della propria piccolezza, si rivela, invece, per quello che realmente è: un atto di vigliaccheria, una comoda fuga da se stessi, una strategia per esimersi dalla responsabilità di guardarsi dentro, di riconoscersi, di impegnarsi per migliorare.
La cosa è particolarmente evidente quando si parla di contenuti spirituali, quando si tratta del cammino verso la consapevolezza interiore: tutti vorrebbero arrivarci, ma pochissimi sono disposti a sobbarcarsi, quotidianamente e in silenzio, la propria fatica, diciamo pure la propria croce: no, molto più facile riversare la propria aspirazione sulla figura di un altro e poi stargli intorno come degli ammiratori adoranti.
Che se, poi, per caso, ci si accorge che quella persona non è proprio così perfetta come avevamo creduto o come le avevamo imposto di essere, nelle nostre fantasticherie originate dalla cattiva coscienza di noi stessi, allora insorge lo scandalo, ci sentiamo raggirati, persino traditi; ma come, proprio noi che avevamo dimostrato una tale fiducia, una tale ammirazione incondizionata: rimanere delusi così, non ce lo meritavamo proprio…
Il vero ricercatore spirituale è certamente una persona umile, ma non fino all’auto-annullamento; è, al contrario, un coraggioso, che, pur consapevole di quanto egli sia imperfetto e di quanta strada debba ancora fare per avvicinarsi anche solo alla lontana al livello di chi si è messo prima, o forse con maggiore impegno, sulla stessa via, nondimeno possiede la volontà e l’energia per lavorare seriamente su di sé e per avvicinarsi alla meta ideale cui aspira.
Il fatto è questo: tutti abbiamo le nostre debolezze, le nostre imperfezioni, le nostre fragilità: l’unica differenza è fra quelli che ne sono consapevoli, le accettano in sé e negli altri, pur sforzandosi, personalmente, di superarle o almeno di limitarle; e quelli che non ne sono consapevoli, oppure che, pur essendone consapevoli, non vogliono prendersi il disturbo di lavorare su di esse, ma trovano più semplice riversare le loro velleitarie aspirazioni di consapevolezza sulla figura di un altro essere umano, caricandolo di ogni perfezione e imponendogli, per così dire, di essere perfetto anche per loro, al posto loro.
Inutile dire che un essere umano di questo genere non esiste e che quindi, periodicamente, quelle persone sono costrette a trasferire la loro cieca ammirazione da un soggetto ad un altro, sempre ripetendo, con stucchevole monotonia, questo gioco delle parti; così come è inutile dire che l’idolo infranto viene fatto oggetto, di volta in volta, di tanta esecrazione, quanta prima era stata la pia venerazione.
Non è un bel gioco; eppure, quanti lo fanno?
Ripetiamolo ancora una volta: tutto parte dalla volontà e dalla disponibilità a conoscere se stessi, a guardarsi dentro con occhio limpido e trasparente.
Se non ci si sa guardare dentro in modo onesto e leale, non si potrà mai incominciare un percorso di consapevolezza; perché la prima forma di consapevolezza è questa: «conosci te stesso», senza finzioni e senza narcisismo, ma anche senza eccessi di auto-svalutazione.
Ci sono due modi di barare con se stessi: dipingersi molto migliori o molto peggiori di come si è in realtà; nel primo caso non occorre far niente, perché si è già perfetti; ma anche nel secondo caso non c’è proprio niente da fare, perché si è irrecuperabili.
Sono due strategie che sembrano opposte, e invece conducono allo stesso fine: dispensare dalla vera ricerca di sé, dal guardarsi dentro in maniera limpida e onesta.
Il narcisista tutto gonfio di sé, che non vede gli altri perché si considera troppo al di sopra di loro e il vittimista che si disprezza e che non osa alzare lo sguardo sugli altri, perché si sente al di sotto di tutti, non sono due tipi umani opposti e inconciliabili, ma sono quasi due fratelli gemelli: in loro cambia solo la direzione dell’auto-inganno, non l’attitudine di fondo.
L’uno e l’altro hanno trovato il modo di vivere senza fare troppa fatica: il primo con i suoi complessi di superiorità e il secondo con i suoi complessi di inferiorità; il primo ammirandosi continuamente allo specchio e facendo la ruota come un pavone, il secondo incapace di trovare il coraggio di guardarsi allo specchio, senza provare imbarazzo e vergogna di sé: ed entrambi dicendo a se stessi che non c’è nulla da fare, niente da cambiare.
Ecco perché così spesso, nella vita, questi due tipi si incontrano e diventano amici, se non addirittura amanti: sono complici dello stesso delitto verso la loro parte più autentica e si completano alla perfezione l’uno con l’altro; sembrano nati per accoppiarsi e in effetti, ad uno sguardo superficiale, possono realmente apparire come una coppia felice.
In realtà, sono così bene assortiti come potrebbero esserlo il sadico e il masochista; non c’è dubbio che, fino ad un certo punto, questo genere di coppia “funzioni”: ma al prezzo che entrambi i suoi membri rimangano perennemente fermi e bloccati nella propria evoluzione spirituale, sempre uguali a se stessi, imprigionati in un ruolo totalmente rigido, simile a una maschera che, a un certo punto, non è più possibile levarsi dal viso, quand’anche lo si desiderasse.
Sul lungo periodo, questo genere di coppie vanno ineluttabilmente verso il collasso ed un vero e proprio corto circuito emozionale, affettivo, esistenziale: tutto quello che i due membri possono darsi reciprocamente è la ripetizione, sempre più stanca, della loro maschera fissa, senza mai socchiudere nemmeno uno spiraglio di autenticità su se medesimi, senza mai una boccata d’aria pura che li aiuti a progredire, a evolvere, a maturare.
Perfino delle persone fondamentalmente immature finiscono per stancarsi di un simile gioco; sena contare il fatto che sia il narcisista che il vittimista vanno incontro inevitabilmente, a lungo andare, a situazioni psicologiche pesantissime, cacciandosi in altrettanti vicoli ciechi: perché la vita è mutamento, fantasia, creatività e, quindi, capacità di reinventarsi, di trasformarsi, di progredire, pur imparando dal passato e pur restando fondamentalmente fedeli a se stessi.
Ma chi è l’io, il nostro io, al quale dobbiamo rispetto e fedeltà?
Non è una maschera pietrificata, un feticcio immobile e inespressivo, un dato stabilito una volta per tutte; ma è un processo, vale a dire un insieme di eventi e situazioni in continuo movimento, in cui noi cambiamo insieme ad essi: se così non fosse, vorrebbe dire che non sappiamo imparare niente dalla vita e che ci stiamo isolando da essa, perché le esperienze che facciamo solo altrettante occasioni per capire, per crescere, per rimettersi continuamente in gioco.
Nessuno può dire di essere arrivato, nessuno può esimersi alla fatica di continuare ad imparare dalla vita, ancora e sempre, fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo respiro.
Qualcuno pensa che non sia poi così importante cambiare e maturare, che basti volgere le spalle agli eventi e alle situazioni negativi: il mondo è grande, che bisogno c‘è di confrontarsi con le cose che ci deludono, che ci sfidano, che ci provocano sofferenza? Basta andare un po’ più in là e ricominciare daccapo, senza darsi troppo pensiero per tutto il resto.
Questo modo di pensare assomiglia a quello di coloro secondo i quali, allorché avremo finito di inquinare e devastare il nostro pianeta, basterà spostarsi a bordo di astronavi e andare alla ricerca di una nuova patria da colonizzare: ma soltanto per ripetervi, evidentemente, le stesse dinamiche distruttive.
Non possiamo ignorare il fatto che la vita è anche sofferenza, sfida, delusione: e che tali esperienze non ci vengono date perché noi le scansiamo, ma perché le affrontiamo; e perché le affrontiamo nel modo giusto. Vale a dire che quelle sofferenze, quelle sfide e quelle delusioni che non possiamo evitare, le dobbiamo ATTRAVERSARE: dobbiamo passarvi in mezzo e cercar di imparare da esse, costi quello che costi.
Lo dobbiamo fare perché, diversamente, sarebbe come permettere che il nostro giardino di casa se ne vada in malora, poco a poco; che vi crescano le erbacce sempre più fitte e che vi si accumulino sassi taglienti, ove non sarà mai possibile veder sbocciare un fiore.
E adesso torniamo al nostro assunto iniziale.
Fino a quando cercheremo la soluzione dei nostri problemi fuori di noi, fino a quando seguiteremo a idealizzare alcune persone e a metterle su un piedistallo, inevitabilmente andremo incontro a una serie di amare delusioni: e non per colpa loro, ma per colpa nostra. Siamo noi che avevamo voluto imporre ad esse una maschera di nostro gradimento; e lo avevamo fatto per la meno nobile delle ragioni: ossia per proiettare comodamente su di esse quel lavoro faticoso ma necessario, quello scavo, quell’opera di dissodamento e di bonifica che avremmo dovuto fare nel giardino trascurato della nostra anima.
Gli altri non hanno colpa delle nostre proiezioni mentali, delle nostre aspettative esagerate, del transfert che continuamente facciamo su di loro; al contrario: quella che commettiamo verso di essi è una autentica ingiustizia, perché corrisponde ad una forzatura delle cose e, quindi, ad una forma di sotterranea violenza.
È violenza il voler imporre all’altro una maschera di perfezione e pretendere che egli vi si attenga in maniera impeccabile; è violenza, perché noi lo stiamo usando e lo stiamo costringendo a svolgere quella parte che noi non abbiamo avuto il coraggio di interpretare, pur sentendo, in qualche oscuro recesso di noi stessi, che ciò era necessario, anzi, indispensabile.
Dietro alla nostra ammirazione, alla nostra venerazione, alla nostra adorazione verso l’altro c’è una grossa carica di aggressività latente, che si manifesta in una pretesa semplicemente assurda: che l’altro sia come le nostre fantasie lo vorrebbero, che rimanga sul piedistallo su cui l’abbiamo posto e che non ne scenda mai, che trattenga addirittura il fiato e che non faccia il più piccolo movimento, fosse pure quello di soffiarsi il naso, per non disturbare la perfetta pace della nostra contemplazione estetica.
Eh, sì: siamo proprio dei gran furboni.
Ma dei furboni che, per troppa furbizia, finiscono per comportarsi come degli autentici sciocchi: perché è da sciocchi demandare ad altri quel lavoro di scavo e di chiarezza interiore che dovremmo fare, invece, su noi stessi, per il nostro equilibrio e per il nostro bene.
Non è un furbo, ma uno stolto, colui che, trovandosi ammalato, invece di prendere la medicina, la fa trangugiare ad un altro, che magari è più sano di lui.
Quando ci decideremo ad imparare qualcosa dalla vita?
Quando capiremo che prendersi cura di se stessi non è un di più, ma un atto fondamentale e indispensabile del nostro percorso umano; e che bisogna farlo con assoluta onestà morale?