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È stata proprio così gloriosa, la «Glorious Revolution» inglese del 1688?

di Francesco Lamendola - 25/10/2011


http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/07/William_III_of_England.jpg


La storia è scritta dai vincitori: lo si sa, ma si esita a trarne le debite conseguenze.
Chi ha scritto la storia d’Europa negli ultimi quattro secoli, ossia la storia dell’Europa moderna?
È possibile che a scriverla siano state quelle forze sociali, economiche, politiche e culturali che hanno combattuto con ogni mezzo possibile la tradizione, il cattolicesimo, il rifiuto dell’usura, per instaurare quello strapotere della Massoneria, delle banche, della finanza, che oggi domina non solo l’Europa, ma il mondo, e che stiamo vedendo particolarmente all’opera anche in questi ultimi mesi e in questi ultimi giorni?
Bisogna diffidare di quelle pagine di storia che una singola nazione pretende di scrivere da sé e che pretende di presentare al mondo in versione definitiva, circonfuse di splendore e di compiacimento, e domandarsi: gloria per chi e compiacimento da parte di chi?
Gli storici americani, per esempio, seguitano a parlare della guerra del 1898 contro la Spagna come di una «splendid, little war»: ma splendida per chi e piccola in rapporto a cosa? Non è forse il classico esempio di un vincitore che pretende di scrivere la storia a proprio uso e consumo, ammantandosi di gloria e facendo passare per valide le proprie ragioni, senza alcun vaglio da parte di un pensiero critico che sia “super partes”?
Anche gli storici francesi tendono a descrivere il regno di Luigi XIV come un’epoca di “grandeur”: ma grandezza per chi? Forse per la stragrande maggioranza del popolo francese che, nella seconda metà del XVII secolo e nei primi anni del XVIII, fu incessantemente tormentato da miseria, carestia, guerre e repressioni? Perché la “grandeur” del Re Sole e della corte di Versailles è una cosa; ma un’altra cosa, e ben diversa, è quel che vissero centinaia di migliaia di giansenisti, di ugonotti, di camisardi…
Oppure prendiamo il caso di quella che gli storici inglesi si ostinano a chiamare la “Glorious Revolution”, ossia la deposizione dal trono di Giacomo II Stuart e l’inizio della dinastia d’Orange, con la quale si afferma definitivamente la monarchia parlamentare. Così la chiamarono, sul momento, i vincitori, ossia i nemici di Giacomo II: Tories e Whigs, accomunati dalla stessa, implacabile avversione al cattolicesimo e all’assolutismo, al punto da sollecitare una invasione militare straniera - quella olandese di Guglielmo d’Orange, Stathouder dei Paesi Bassi dal 1672, e di sua moglie Maria Stuart, nipote di Giacomo II - pur di stroncare ogni speranza di ripresa dell’uno e dell’altro.
Ma fu proprio così gloriosa?
Ed è giusto che gli storici delle epoche successive continuino a chiamarla così, anche fuori dell’Inghilterra, per semplice forza d’inerzia?
Dove vanno a finire la tanto decantata scientificità della storia, la sua tanto sbandierata oggettività, se le parole d’ordine del vincitore di turno invadono così smaccatamente l’universo concettuale dei posteri e offuscano in maniera così spudorata lo spirito critico di questi ultimi?
Proviamo a riflettere.
Senza alcuna pretesa di condensare, qui, uno snodo decisivo della storia britannica del XVII secolo, la domanda cruciale che dovremmo porci è la seguente: davvero il re cattolico Giacomo II, sposato alla cattolica Maria Beatrice d’Este, sapendosi già nel mirino della maggior parte dei suoi sudditi e del Parlamento proprio a motivo della sua fede religiosa, poteva essere così stupido da voler restaurare l’assolutismo, come vorrebbero darci a intendere gli storici di parte anti-stuardista, dopo che suo padre Carlo I ci aveva già rimesso la testa sul patibolo, nel 1649?
E davvero era così irrimediabilmente stupido, così irrimediabilmente autolesionista, lui che stava appeso al trono per un capello, da volersi fare passivo strumento della politica estera di Luigi XIV di Francia, in un momento in cui l’opinione pubblica inglese temeva per l’indipendenza nazionale quasi quanto aveva temuto per essa ai tempi dell’Invincibile Armata, durante il memorabile scontro fra Elisabetta e Filippo II di Spagna?
Via: voler dare a intendere questo, significa offendere l’intelligenza dei lettori dei libri di storia; eppure è proprio quel che si continua a fare, da parte degli storici inglesi, da più di tre secoli in qua; e ancor più incredibile è il fatto che tale versione sia stata presa per buona e tramandata dagli storici del resto d’Europa e del mondo, come se si trattasse di verità inoppugnabile.
Come è noto, Giacomo II Stuart era salito al trono nel 1685, alla morte di suo fratello Carlo II, riconfermando nei loro incarichi la maggior parte dei ministri e dei membri del Parlamento e dichiarando di voler rispettare la libertà della Chiesa anglicana.
Scampato ad alcuni attentati contro la sua vita, Giacomo II dovette affrontare subito anche una duplice ribellione: quella del conte di Argyll, Archibald Campbell, e quella del duca di Monmouth, James Scott, il quale, in quanto figlio illegittimo di Carlo II, era anche nipote del sovrano. Entrambe vennero facilmente represse; eppure, a dispetto di ogni evidenza, la propaganda anglicana continuava a spargere voci secondo le quali non era il re a correre pericolo di vita, ma che era lui, d’accordo con la moglie e con il papa Clemente X, a progettare omicidi e violenze, per eliminare ogni opposizione interna e restaurare il cattolicesimo in Inghilterra.
Il clima era violentemente, istericamente anticattolico, specialmente dopo l’approvazione del Test Act, votato dal Parlamento durante il regno di Carlo II, con il quale venivano interdette le cariche pubbliche e governative a chi non fosse di religione anglicana: una legge diretta palesemente contro i cattolici e che rimase in vigore, nella “liberale” Inghilterra - ne prendano nota i suoi viscerali ed acritici ammiratori - fino al 1829, cioè per un altro secolo e mezzo.
La buccia di banana sulla quale scivolò definitivamente il traballante regno di Carlo II, comunque, fu, più ancora che la nascita di un figlio maschio ed erede al trono, con la prospettiva di una vera e propria dinastia cattolica sul trono d’Inghilterra, la Dichiarazione d’Indulgenza, con la quale si proclamava la libertà religiosa per tutti i sudditi del regno. Gli anglicani non l’apprezzarono per niente: del resto, il filosofo ufficiale della tolleranza religiosa, John Locke, aveva espressamente escluso dal numero dei meritevoli della libertà proprio i cattolici (cfr. Il nostro articolo: «Locke auspica libertà religiosa per tutti, ma invoca la persecuzione di cattolici islamici e atei», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 10/02/2011).
Ora, forse non molti sanno che la Dichiarazione d’Indulgenza non fu una subdola trovata di Carlo II per preparare la strada a una restaurazione cattolica, ma che essa gli era stata suggerita dal suo amico quacchero  William Penn, il fondatore della colonia della Pennsylvania, in quanto esponente di una minoranza protestante perseguitata dalla Chiesa anglicana: e fu questa mossa che non venne perdonata da quest’ultima al sovrano inglese.
Ecco in proposito l’opinione del filosofo e storico Mario Manlio Rossi nella sua monumentale e oggi ingiustamente dimenticata «Storia d’Inghilterra» (Sansoni, Firenze, 1966, vol. IV, p.p. 522-24), forse appunto per il suo anticonformismo concettuale:

«Le speranze di Giacomo II si provarono fallaci proprio perché gli interessi di TUTTI erano contro la tolleranza ed il cattolicismo ed il non-conformismo che avrebbero messo in dubbio le posizioni acquisite anche da tempo, fors’anco fino alla dissoluzione dei monasteri. […]
Non immaginiamo grande intelligenza da parte del Re. “Precorrere i tempi” non vuol dire capir più dei contemporanei: i posteri possono essere più stupidi dei contemporanei. È ben possibile che Giacomo II CREDESSE alla tolleranza proprio perché era limitato e fanatico: non vedeva che l’Aria dell’epoca puzzava ancora di inquisizione e di righi, ed era ben certo che il cattolicismo fosse giusto perché LUI, Sua Maestà, ci credeva. Ci credeva tanto da ritenere che bastasse istituire un regime (diciamo di libera concorrenza ideologica fra le Chiese perché, prima o poi, il cattolicismo trionfasse.
Dire che era tutto uno commedia, che egli volesse la tolleranza per poi, sottomano, far vincere i cattolici, è caratteristica stupidità per ragazzette dell’Ottocento [Si ricordi, osserva argutamente il Rossi, che fu Macaulay  a dire che scriveva in modo che il suo libro fosse letto dalle signorine invece dei romanzi; Macaulay che egli accisa di aver falsificato deliberatamente i fatti per portare avanti una tesi precostituita]. Aveva già ficcato 4 lord cattolici nel Consiglio Privato. Stava attaccando, e non senza successo,  l’università di Oxford. Del resto, aveva lasciato in perfetta pace la Chiesa anglicana: non aveva nominato che un solo cattolico a posti ecclesiastici. Ma come sovrano cattolico, aveva pur diritto (e per ora la giurisprudenza gli dava ragione) di nominare correligionari alle cariche LAICHE di sua fiducia.
Quindi, invece di fantasticare ritorti progetti, suoi o dei gesuiti arrabbiati che lo consigliavano, si pensi al cima freneticamente antipapista, decisamente conformista dell’epoca. Giacoo II voleva proprio quello che oggi, si chiamerebbe il “consenso popolare” alla tolleranza. E che in realtà, allora come oggi, era un impegno preciso assunto da quelli che erano, formalmente, gli esponenti del potere politico del paese. […]
Dire, ora, che il tentativo era sbagliato, è troppo facile. Spiegati i motivi [e cioè che Giacomo II voleva ottenere un’adesione parlamentare alla sua politica di libertà di coscienza religiosa], si vede bene che un successo avrebbe prodotto davvero un miglioramento della situazione – se un successo fosse stato possibile: se l’opinione delle caste dirigenti non fosse stata, decisamente, contraria alla libertà d coscienza e prevenuta contro il Re; se gli anglicani, credenti e miscredenti, non fossero stati quell’enorme maggioranza che erano, nelle “cliques” oligarchiche e nelle corporazioni elettorali.»

Non che meditare di reintrodurre, magari a viva forza, il cattolicesimo nel regno, o di reintrodurre l’aborrito assolutismo, Giacomo II sbagliò semmai per un eccesso di scrupolo costituzionale: perché volle il consenso parlamentare alla sua politica di tolleranza religiosa (ispirata da William e Penn, che non un cattolico, ma un quacchero!), conferendogli delle attribuzioni costituzionali che esso, formalmente, non possedeva ancora.
La verità è che l’Inghilterra, fin dai tempi dell’Atto di Supremazia di Enrico VIII (1534), era stata un laboratorio di progressivo agnosticismo religioso e di secolarizzazione a tappe forzate: dietro la maschera dell’anglicanesimo, questa insulsa contraffazione del cattolicesimo in chiave autarchica e riformata,e sotto la guida laica del sovrano inglese in persona (cosa che faceva inorridire il filosofo Thomas Hobbes, sostenitore del laicismo a oltranza), la società inglese venne gradualmente spogliata delle proprie tradizioni religiose.
Non c’era posto, in essa, né per i protestanti non conformisti, che dovettero emigrare in America in cerca di libertà, né, tanto meno, per il cattolicesimo, nel quale i re inglesi vedevano soltanto il cavallo di Troia del papismo per riconquistare il terreno perduto, nonché per reclamare i beni della Chiesa confiscati dal cinico e disinvolto Enrico VIII, quello che fece uno scisma religioso solo per poter sposare la sua nuova amante Anna Bolena e che mandò al patibolo il suoi consigliere migliore, l’umanista Thomas More, solo perché, come un tiranno orientale, non ne sopportava i rimproveri.
Sarà lo stesso Guglielmo d’Orange, una volta divenuto re d’Inghilterra ed essersi affrettato a sottoscrivere il Bill of Rights, con il quale la monarchia inglese diveniva parlamentare a pieno titolo, a scrivere all’elettrice Sofia di Hannover: «Questo Paese dove si discute sempre di religione, ma dove ce n’è certamente meno di quanto posiate immaginare». E non è affatto certo che lo dicesse con dispiacere: tutt’altro, vista la destinataria e visti gli sviluppi successivi della storia politica inglese.
Non è certo un caso che sia stata l’Inghilterra, nel 1714, a vedere la fondazione della prima Gran Loggia della Massoneria di tutto il continente, dopo che era salito al trono Giorgio I, primo re della dinastia di Hannover.
Ed è un fatto che nel 1701 il Parlamento inglese, approvando l’Act of Settlement, escluse dalla successione al trono inglese oltre cinquanta pretendenti alla successione di fede cattolica, spianando la strada alla vecchia intrigante Sofia di Hannover, di oltre settant’anni, ed a suo figlio, che diventerà Giorgio I d’Inghilterra (e, dal 1707, con l’Atto di Unione, del Regno Unito d’Inghilterra e Scozia).
Si ha l’impressione che la deposizione di Giacomo II, la feroce repressione della insurrezione irlandese (battaglia del Boyne, 1° luglio 1690, tuttora celebrata in tono becero dagli orangisti di Belfast per sfregio della popolazione cattolica), la salita al trono degli Orange e, poi, l’avvento degli Hannover: si ha l’impressione che tutto questo, passando per il Bill of Rights e la monarchia parlamentare, altro non sia stato che un vasto disegno da parte di quelle forze sociali impegnate a dare l’assalto al potere finanziario mondiale e convertire il mondo al nuovo Verbo massonico: che, con le belle parole d’ordine di “libertà, fraternità e uguaglianza”, mirava in realtà a sradicare dalla Gran Bretagna e dall’Europa il cristianesimo, ultimo baluardo al dilagare del capitalismo egoista e distruttivo dei banchieri della City.
Uno che di queste cose se ne intendeva, Benjamin Disraeli, due volte primo ministro britannico, avrà a dire, una volta, che l’opinione pubblica resterebbe sbalordita se sapesse chi sono i veri protagonisti della storia mondiale, dietro la facciata dei poteri ufficiali…