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Hillman detectve delle tenebre

di Giulio Giorello - 29/10/2011


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Ricordate Stephen Dedalus, il Telemaco dell'Ulisse di Joyce, che solitario sulla spiaggia della baia di Dublino medita sui confini dell'anima? Fin dove essa si estende? Forse, fino all'ultima stella che si scorge all'orizzonte.
Dunque, l'anima non è imprigionata dentro il corpo, come pretendeva molta filosofia — da Platone a Cartesio — ma è il nostro corpo che fluttua nell'anima. Questa tentazione antidualistica, che nell'Occidente ritroviamo nella filosofia della luce di Giovanni Scoto Eriugena (810-877 circa), come negli ultimi Cantos di Ezra Pound, attraversa la riflessione del grande eretico della psicoanalisi James Hillman, scomparso all'età di 85 anni. Hillman è stato accusato di aver «tradito» Carl Gustav Jung, a sua volta traditore di Sigmund Freud; per di più «l'eresia nell'eresia» di Hillman ha fatto irruzione nei campi dell'antropologia, della storia e persino della politica. Sul lettino viene ora «analizzata» l'intera società, con la miriade di relazioni che si stabiliscono tra quelle irripetibili singolarità che sono gli individui.
Se c'è un classico che mi viene in mente quando sfoglio un volume di Hillman, questo è il filosofo Giambattista Vico (1668-1744): l'anima del singolo individuo non è una sostanza ma un'attività, qualcosa che partecipa alla continua trasformazione dell'Anima del Mondo. Ma al Dio unico che come un monarca reggeva la compagine dei cieli, Hillman preferiva l'apparente caos del politeismo, con le sue tante divinità dalle mille facce. Gli antichi dèi non sono mai morti; al più si sono addormentati, e nel loro sonno continuano a sognarci come noi li sogniamo a nostra volta. Ed è un'illusione pensare che si possano esorcizzare riconducendoli con la stessa terapia psicoanalitica alla razionalità dell'esistenza diurna. Ermes ed Ercole, Apollo e Afrodite, il terribile Dioniso e il grande dio Pan si risvegliano nelle pieghe della vita di ogni giorno, nei tanti contrasti e conflitti che costellano la nostra società apparentemente così disincantata e tecnologizzata.
Ma anche il Disincanto, la Tecnica e la Psicoanalisi sono un intreccio di miti: Prometeo, Dedalo o Edipo non sono comparsi invano sulla scena delle idee. Per Hillman non è il mito che va spiegato, ma il mito è la spiegazione stessa. Come ebbe a scrivere in Saggi sul Puer (Raffaello Cortina, 1988): l'esploratore dell'anima cerca «un'apertura nella trama del fato», che è anche «un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più complicato o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l'apertura nei fili dell'ordito al momento giusto, perché il varco ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre esso resta aperto». Così il setting psicoanalitico si tramuta in una incessante investigazione, aperta a tutti coloro che riescono a praticare l'arte di cogliere l'occasione.
Hillman ha saputo raccogliere in questo modo la sfida dell'oracolo di Delfi, che è anche quella della filosofia di Socrate: conosci te stesso. Soleva dire che «il mondo è come un giardino» che ci si offre con l'immediatezza «di un riflesso sul lago». Ma il giardino dell'anima può essere labirintico, e come quello dell'Eden ospitare... il suo Serpente. Il caos del politeismo produce anch'esso dell'ordine, ma è un ordine instabile pieno di fenditure: guai che qualcuno pensi di aver trovato la risposta definitiva alla domanda di Delfi. Conoscere se stessi è l'indagine più difficile, rischiosa e talvolta persino mortale. Nessuna formula pronta per l'uso è a disposizione. Nel libro di Hillman che ho amato di più, Il sogno e il mondo infero (Edizioni di Comunità, 1984; il Saggiatore, 1996; Adelphi, 2003), quel che impedisce all'ordine della mente di diventare odiosa burocrazia dello spirito è il meccanismo del revel/rebel. Una baldoria (revel) tutt'altro che innocua, ma che getta i semi dell'insurrezione dell'anima. Così i suoi confini ci sfuggono di continuo, e scopriamo che vana è la pretesa di illuminare in modo completo ciò che è dentro di noi. Ma questa non è una maledizione, bensì una grazia che ci viene dal «mondo infero», cioè dagli strati dell'inconscio che sottendono le avventure della nostra consapevolezza. Dopotutto — come dicono i mitici personaggi di Joyce — siamo «tenebra che splende nella luce».