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James Hillman e gli insulti all'anima

di Elisabetta Confaloni - 29/10/2011

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In occasione della scomparsa dello psicanalista americano James Hillman (1926, Atlantic City), avvenuta giovedì nella sua casa di Thompson, Connecticut, ripubblichiamo un'intervista fattagli alcuni anni fa per il manifesto da Elisabetta Confaloni, durante un convegno a Venezia, nel periodo in cui Hillman stava dando alle stampe il suo libro più noto, "Il codice dell'anima".
(...)
Secondo il suo pensiero non è possibile individuare nella biografia delle persone un modello di sviluppo lineare. Come guarda, allora James Hillman alla propria storia? Forse ricercandovi il disegno di un mito personale?
Credo che l'unica possibilità per me sia offrire dei racconti, come se io fossi un romanziere, narrare cioè la stessa storia attraverso molteplici punti di vista. Il problema dell'autobiografia consiste nel fatto che è scritta da una persona soltanto e riguarda una esistenza singolare: è già una forma di monoteismo. Sotto un profilo mitico credo, come l'iranista Henry Corbin, che il compito principale, nella vita di un uomo non sia la propria individuazione, ma l'individuazione di un angelo o di un dèmone, la realizzazione cioè di una sorta di immagine del cuore che tende a riprodursi nella propria esistenza. Ma, per quanto mi riguarda non credo mi sia dato di sapere quale è l'immagine che devo realizzare. Certo possiedo degli indizi, delle tracce, ma mutano continuamente. E' l'angelo che ci conosce, non siamo noi a conoscere lui. Almeno lo spero...
Lei è nato in America, ma ha studiato in Europa, inoltre ha viaggiato molto. Quali sono le città europee che hanno contribuito maggiormente alla creazione del suo mondo immaginale?
Dublino, senza dubbio, con la sua mescolanza di letteratura, poesia e fantasticherie è la città che mi ha permesso di cominciare a dar forma al mio immaginario letterario. Zurigo, dove ho abitato più di vent'anni e dove ho studiato psicologia. E ancora, per il loro sfondo mitico, alcune città italiane come Roma, ad esempio e come le città della Sicilia. Tutta la Sicilia è stata molto importante per me a causa della presenza di forze della terra, forze ctonie che si manifestano lì con grande potenza. E poi il Sud della Francia per la sua luce, i colori e i sapori.
Queste sono dunque, alcune delle cordinate della sua geografia immaginale. Ma parliamo del suo rapporto con la tradizione. Al di là della filiazione della sua psicologia archetipica dal pensiero di Karl Gustav Jung, di cui si è sempre parlato molto, è possibile individuare altre tradizioni di cura con le quali lei si è misurato ?
Sembrerà strano, ma io amo molto la tradizione psichiatrica del 19° secolo, con i suoi resoconti e la sua casistica. Rappresenta un grande serbatoio di osservazioni, di fantasie, di attenzione per le persone, per il corpo. Una vera forma d'arte. Naturalmente mi riferisco ad un'epoca precedente a quella della nascita della farmacologia in cui la puntualità delle osservazioni psichiatriche aveva una forte valenza psicologica. Oggi in psichiatria la precisione viene applicata, per lo più, al dosaggio dei farmaci, alle quantità di antidepressivi o di psicofarmaci da somministrare ai pazienti.
Fin dai suoi primi libri lei ha sottoposto ad una critica serrata anche il linguaggio diagnostico della psichiatria e della psicologia, la sua freddezza e scientificità. Nel Mito dell'Analisi lei parla di un linguaggio malato che 'sterilizza le metafore' e 'insulta l'anima'. Quella che lei propone però, non è, una semplice sostituzione del linguaggio psicologica con la terminologia mitica. C'è qualcosa di più. Che cosa, esattamente?
E' vero. Non credo che si tratti semplicemente di rifiutare certe modalità di linguaggio psicologico, ma di riimmetterlo nel cuore della sensibilità, delle questioni del nostro tempo. Ad esempio, un termine come 'anoressico' oggi non può più essere riferito soltanto alle persone, ma deve parlare anche dell'architettura delle città. Oggi sono i nostri palazzi ad essere davvero anoressici, privi come sono di un nutrimento estetico. I sintomi delle persone, ormai, si sono spostati anche nel nostro mondo. Perfino le 'amnesie' non riguardano più soltanto il morbo di Alzheimer, ad esserne affette sono le città: dobbiamo parlare ormai di amnesie architettoniche.
Non crede che questa cecità del linguaggio scientifico sia da ricondurre a un processo che la cultura occidentale ha messo in atto ormai da molti secoli, e che consiste nella negazione di ciò che lei chiama "la base poetica della mente"? E quali sono, secondo lei, le strategie possibili nei confronti di questa aberrazione? Forse l'accoglimento della follia, la debolezza, il disadattamento rispetto alla norma che lei valorizza nei suoi libri?
Si, il problema vero è questo. Ma non mi chieda cosa si può fare. Non conosco la risposta. Non sono in possesso di alcuna idea di salvezza. Ma se ognuno si appoggia personalmente su una idea corretta della mente, è già un fatto. La trasformazione delle idee, la terapia delle idee è molto importante. Dobbiamo considerare le idee come qualcosa di autonomo, che non dipende da noi, come delle idee-forze che meritano tutta la nostra attenzione, con cui possiamo intrattenerci senza tradurle immediatamente in una applicazione pratica.
Questa mancanza di applicazione richiama l'idea di politica che lei ha espresso nel suo ultimo libro "Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio". Lei parla qui di politica come kenosis, svuotamento. Che cosa intende?
E' il concetto greco di vano, cavo, inutile. Nella teologia cristiana si riferisce a Cristo, alla sua rinuncia al potere divino per entrare come uomo nel mondo. La kenosis mi sembra oggi l'unico modo possibile di essere politici. Con una protesta vuota. Altrimenti si diventa dei fondamentalisti. Non so cosa sia giusto, non ho alcuna risposta, ma so che c'è qualcosa che non va. Per la maggior parte dei problemi politici non so cosa si dovrebbe fare, ma le mie viscere rabbrividiscono. La 'protesta vuota' è una via negativa, un modo non positivistico per entrare nell'arena politica, che si fida del risentimento, della rabbia, che dà valore al vuoto. Certo, non so se sia possibile pensare in questi termini anche da un punto di vista collettivo, di programmi politici. Ma sta a ognuno di noi trovare le proprie risposte.
Nei suoi libri lei sembra proprorre al singolo la interiorizzazione di una comunità in cui i confini tra il me e l'altro non siano definiti. Ma qual è concretamente la sua idea di comunità?
Comunità è una parola troppo organizzata, troppo pacifica. La comunità oggi non è più qualcosa di astratto, è concreta, locale. E' Roma, Calcutta, New York. In America è l'insieme dei gruppi terapeutici anonimi: degli obesi, degli alcolizzati, delle vittime dell'AIDS. E' l'insieme dei sintomi. Siamo tutti dei marginali, travolti da qualcosa che non comprendiamo, da una civiltà che ci fa violenza e che sta morendo, ma ne abbiamo soltanto una percezione subliminale. Questa è l'unica immagine di comunità che credo abbiamo a disposizione oggi.
Come crede si debba vivere questo tempo di declino della civiltà?
Non so dirlo, da parte mia sono un catastrofista, ma credo che ognuno debba trovare da sé il proprio sfondo.