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La banalizzazione del corpo è il frutto di una erotizzazione esasperata che ottunde le emozioni

di Francesco Lamendola - 03/11/2011




Sarebbe un grave errore pensare che la ossessiva esibizione del corpo, propria della società edonista e permissiva, corrisponda ad un accrescimento dell’erotismo; al contrario, l’erotizzazione esasperata è quanto di meno erotico si possa immaginare.
Ma c’è dell’altro.
L’ostentazione insistita, ripetitiva, compulsiva del corpo, di un corpo il più possibile scoperto, ma artificiale, depilato, abbronzato, palestrato, dai capelli ossigenati e dai muscoli rifatti chirurgicamente, finisce per ottundere la capacità di suscitare emozioni, che sono qualcosa di più raffinato del puro e semplice istinto sessuale.
A sua volta, lo spegnimento della capacità emozionale corrisponde a una banalizzazione del corpo non solo da parte di colui al quale viene offerto, ma anche da parte di colui, o colei, che lo offre - che lo offre visivamente, s’intende, perché alla provocazione visiva (e olfattiva) non corrisponde una vera offerta di sé, una offerta completa: il che, fra parentesi, è causa di frequenti malintesi, generati dalla profonda ignoranza del linguaggio corporeo.
Ora, quando colui, o colei, che offre visivamente il proprio corpo, scoperto e artificiale, non è più capace di provare emozioni, sarà portato ad aumentare continuamente le dosi, diciamo così, di esposizione, proprio come il drogato che deve aumentare le dosi di sostanza stupefacente per poterne sentire gli effetti; e questo non fa che aggravare l’equivoco con l’altro, perché la maggiore esposizione corporea viene interpretata come una più esplicita offerta sessuale.
Una cultura ipocrita, in gran parte di matrice femminista, sostiene che l’esposizione generosa del corpo seminudo non implica alcuna offerta sessuale, ma che viene fatta per piacere a se stessi e per godere, tra sé e sé, di un maggiore senso di libertà; lasciamo che questi signori e queste signore continuino a lanciare il sasso e a nascondere la mano e che si raccontino tutte le favolette che vogliono, per l’incapacità di guardare onestamente dentro se stessi.
La verità è che l’esposizione del corpo nasce da un desiderio verso l’altro, comunque ciò si voglia chiamare e comunque lo si voglia camuffare; che, poi, un tale bisogno si intrecci e sovente si ingarbugli con altri bisogni, con altri impulsi, di matrice diversa e magari opposta, questo la dice lunga sull’inconsapevolezza delle persone: esse ignorano, o fingono di ignorare, le implicazioni verso l’altro del proprio linguaggio corporeo, perché ignorano ciò che loro stesse provano, ciò che sentono, ciò che desiderano.
Sta di fatto che all’offerta visiva non corrisponde, il più delle volte, una reale offerta sessuale: per cui non si tratta di erotismo, che sottintende sempre una disponibilità a mettersi in gioco, ma di un rituale sempre più stanco e sempre più banale di erotizzazione consumista; un rituale che, come dicevamo, tende a riflettersi negativamente anche su chi lo pratica.
La persona che si è abituata ad esporre visivamente, in dosi sempre più massicce, il proprio corpo seminudo e reso artificiale, finisce per instaurare uno strano rapporto con gli altri e con le sue stesse emozioni: con gli altri, perché pretende di eccitarli ma, al tempo stesso, di respingerli; con se stessa, perché finisce per smarrire la propria capacità di emozionarsi e di lasciarsi emozionare dalle emozioni, ci si perdoni l’apparente gioco di parole, che suscita nell’altro.
Ed ecco che una persona del genere finisce per accettare sguardi, gesti, parole e carezze sempre più intimi da parte dell’altro, restando però emozionalmente tiepida o indifferente e, quindi, lasciando seguitare il gioco, salvo, a un certo punto, meravigliarsi e quasi offendersi allorché la richiesta sessuale viene esplicitata da parte dell’altro.
È molto probabile che una persona siffatta si sia creata delle relazioni di amicizia, più o meno superficiali, con delle persone altrettanto fredde dal punto di vista emozionale, se non proprio sessualmente invertite: solo così si spiega la familiarità con cui si è abituata ad esporre il proprio corpo, a mostrarne anche le parti più intime, non solo senza imbarazzo, ma anche senza desiderio e senza aspettazione: così, cameratescamente, come si potrebbe fare con la propria madre o con il proprio fratello o la propria sorella.
È piuttosto penoso vedere delle persone adulte e vaccinate che si muovono nella più assoluta ignoranza dei segnali che stanno mandando intorno con il proprio corpo; ma lo è ancora di più osservare come un certo grado crescente di trasandatezza e quasi di sciatteria si insinui nelle pieghe del loro comportamento e del loro abbigliamento, mescolandosi, magari, con pretese di raffinatezza e di erotismo “di classe”.
Anche questo è un aspetto della banalizzazione del corpo, cui siamo debitori verso i miti e i riti della società massificata, che la televisione ha trasformato in un gigantesco spettacolo del Grande Fratello, intriso di narcisismo e di esibizionismo cialtrone: la mescolanza di stili diversi, la Babele e la contraddittorietà dei linguaggi corporei.
Si vede così, per esempio, una donna che vorrebbe apparire originale e seduttiva, sfoggiando un abito di seta aderentissimo, che lascia poco o nulla all’immaginazione; ma che, al tempo stesso, per il modo in cui lo indossa e per la natura stessa di quel determinato capo, risulta, invece, terribilmente kitsch e irrimediabilmente volgare.
Un tal genere di persone non sa più riconoscere i preamboli; ignora, o finge di ignorare, che certe situazioni, certe complicità, certe intimità sono già, di per sé stesse, un concedersi all’altro e che mettono in gioco delle energie emozionali potenti, che non possono essere ritirate a comando, né riposte nella tasca della giacca, come si farebbe con un fazzoletto caduto a terra.
Indossare un certo vestito per vedere una certa persona ha un certo significato ben preciso, come lo ha guardarla in un certo modo, lasciarsi parlare in un certo modo: tutto, nel rapporto fra i due sessi, ha un significato preciso, perfino quando non è intenzionale; figuriamoci quando lo è, ma si finge con se stessi che così non sia, che sia solo “naturale”.
L’uomo è un animale culturale, non naturale: non c’è niente di più artefatto, di più studiato e di più ipocrita che il voler contrabbandare per naturali dei comportamenti che scaturiscono da una precisa strategia, ancorché solo parzialmente consapevole.
Torniamo sempre, pertanto, allo stesso punto fondamentale: la necessità di risvegliarsi, di diventare consapevoli, di sapere chi si è, cosa si vuole, quali sono i propri desideri, le proprie speranze, le proprie paure, le proprie angosce, i propri fantasmi; cosa ci si aspetta dall’altro, cosa si spera da lui, cosa si teme, cosa si vuole e cosa si rifiuta.
Ma come ci si dovrebbe, dunque, rapportare con il proprio corpo e come lo si dovrebbe amministrare nella relazione con gli altri?
Ecco una specie di decalogo con le istruzioni per l’uso.
Punto primo: il corpo è uno strumento prezioso al servizio del nostro progetto di vita: è per mezzo di esso che entriamo nel mondo meraviglioso delle sensazioni, delle emozioni, dei sentimenti; ed è esso stesso una fonte notevolissima di piacere estetico.
Punto secondo: il corpo non è una parte a sé stante, ma l’espressione visibile e tangibile della nostra personalità, del nostro essere; tutto il corpo, non solo lo sguardo o la voce: ogni centimetro, ogni millimetro di esso.
Punto terzo: sia quando lo mostriamo, sia quando lo copriamo, come abbiamo cercato di chiarire in un articolo precedente, noi comunque abbiamo una relazione con esso, una relazione che si riflette anche sugli altri; lo statuto ontologico dell’abito, infatti, è l’ambiguità: perfino quando esso copre, inevitabilmente lascia scoperto qualcosa e, quindi, allude.
Punto quarto: se noi abbiamo rispetto di noi stessi, se pensiamo di possedere una essenza spirituale simile ad un tesoro d’inestimabile valore, allora il nostro corpo è il palazzo di quella essenza; ne consegue che dobbiamo avere il massimo rispetto anche per esso e che non dovremmo mai banalizzarlo, ma rendergli sempre il dovuto riconoscimento.
Punto quinto: se noi permettiamo al nostro corpo di mandare agli altri dei messaggi ambigui; se gli consentiamo di fare delle promesse che non abbiamo alcuna intenzione di mantenere, allora vuol dire che siamo noi stessi in uno stato confusionale: che non sappiamo, letteralmente, quel che vogliamo, per cui lasciamo che dal nostro corpo partano dei messaggi che non corrispondono a ciò che vorremmo realmente dire.
Punto sesto: così come dobbiamo rispetto al nostro corpo, allo stesso modo ne dobbiamo al corpo dell’altro; pertanto non dobbiamo provocarlo come se fosse un oggetto a disposizione della nostra vanità; dobbiamo imparare a gratificarci senza bisogno di manipolare l’altro, cioè dobbiamo imparare a volerci più bene e ad avere maggiore autostima.
Punto settimo: il bisogno compulsivo di offrire visivamente il proprio corpo in maniera conturbante nasce da una scarsa stima di sé e da un insufficiente amore per sé: si vorrebbero ricevere dagli altri quel calore, quell’apprezzamento che non si sanno dare a se stessi; ma questo è impossibile, perché nessuno, proprio nessuno, può volerci più bene di quanto possiamo e dobbiamo imparare a volercene noi stessi.
Punto ottavo: quando si incomincia a lavorare su se stessi, quando si incomincia ad accettare se stessi e, quindi, ad accettare anche il proprio corpo, diminuisce e scompare, a poco a poco, quel bisogno spasmodico di esibire il corpo e di provocare l’altro.
Punto nono: la persona che ha trovato il proprio equilibrio interiore realizza anche un rapporto più armonioso con il proprio corpo: non cerca più di piacere a tutti nella maniera più facile e superficiale, provocandoli sessualmente, ma bada ad essere se stessa, a rimanere fedele a ciò che essa è; saranno gli altri, a quel punto - beninteso, quelli che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda - a notarla, a cercarla, a venirle incontro.
Punto decimo: il corpo della persona consapevole è un corpo ritrovato; può essere erotico oppure no, sarà sempre un corpo luminoso, affascinante, realizzato: anche senza l’abito firmato, anche con le rughe della vecchiaia e perfino con i segni della malattia.
In altre parole: una persona bella rende bello anche l’abito che indossa; ma la bellezza scaturisce dall’interno della persona, non dal corpo in se stesso.
Ricordiamolo ancora una volta: il corpo è uno strumento, non il fine; e, come per tutti gli strumenti, quello che conta è la musica che suona, non la sua bellezza intrinseca.
Chi ha poca stima di sé, chi ha poca personalità, cerca di valorizzare esclusivamente il corpo; ma, in genere, lo fa nella maniera sbagliata: perché solo chi ha raggiunto un certo grado di consapevolezza spirituale sa come vada valorizzato lo strumento del corpo.
E ciò vale non soltanto per il proprio corpo, ma anche per il corpo dall’altro: perché se non si conosce e non si ama nel modo giusto il proprio corpo, non si saprà mai capire, amare e valorizzare il corpo dell’altro; gli amanti peggiori, i più distratti, i più egoisti, i più immaturi, sono proprio gli analfabeti del proprio corpo.
L’erotismo, comunque, è una cosa seria, ed è una cosa per aristocratici, nel senso originario della parola, ossia i migliori. Non è e non potrà mai essere una pratica di massa, salvo scivolare nel proprio contrario, l’erotizzazione banale e pornografica.
Lo lascino perdere, dunque, coloro i quali non sono disposti a intraprendere un energico lavoro su di sé per avviarsi al risveglio spirituale, ma vogliono seguitare a vivere come pecore nel gregge; e si accontentino della banalità e della pornografia.
Anche questo, però, richiederebbe, e sia pure in negativo, un certo grado di consapevolezza: non è cosa da poco riconoscere il proprio limite e saperne trarre le debite conseguenze. È ben per questo che oggi dominano la confusione più totale circa le proprie motivazioni e la mescolanza più stridente degli stili.
Ma è proprio per questo che si notano subito, di primo acchito, quelle rare persone che, avendo iniziato il risveglio spirituale, si muovono disinvolte e naturali, loro sì prive di affettazione e d’ipocrisia; si notano perché sprigionano un fascino irresistibile, nel desolato grigiore della massa.