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Il manifesto contro l'uguaglianza

di Marcello Frigeri - 03/11/2011

Fonte: liberacritica


IL RELATIVISMO CULTURALE

Una scienza esatta come la fisica ha ammesso recentemente che non esistono certezze assolute, ne’ verità oggettive. La conoscenza dei fenomeni, qualsiasi sia il fenomeno, dipende dal punto di vista dell’osservatore. Fu poi Nietzsche, per la prima volta, a trasferire questa concezione fisica sul campo sociale e politico: tutti i valori hanno “un significato solo nell’ambito e per la durata della civiltà che li ha elaborati e professati”. In sostanza per il relativista culturale, com’io mi intendo, non esistono religioni, sistemi o principi universali. Tutto è rapportato ad una verità relativa, che è la nostra, che si interfaccia o si scontra con tutte le altre verità. Infatti sostenere l’esistenza di una verità assoluta equivale ad assurgere come dogma il proprio pensiero, o quello della propria setta. E i dogmi, si sa, conducono l’uomo al dispotismo: tutto ciò che è al di fuori della mia idea è errato e va cambiato. La domanda che l’individuo preso singolarmente dovrà porsi è la seguente: sono forse un Dio? Se la risposta è negativa, allora tutto ciò che può scaturire dalle sue idee non è oggettivo ma soggettivo.

L’argomento di questo saggio, il rapporto tra noi e “l’altro” e il diritto a conservare la propria (nostra) diversità, è dunque da interpretare sotto l’etica del relativismo culturale. Il relativista, benché vi siano realtà totalmente differenti dalla propria e così ripugnanti da sembrare disumane (ma cosa, poi, è disumano?), accetta comunque la sfida che quelle date realtà siano in diritto di essere vissute. Sempre restando entro i confini del tema del nostro saggio, la massima sarà: io vivo in una società – quella Occidentale -, “l’altro” vive in una società che per usi e costumi è agli antipodi della mia, chi tra noi avrà il diritto di cambiare le regole della civiltà avversa? Semplificando la domanda: chi possiede tra i due la verità assoluta? La risposta è nessuno dei due. D’altra parte anche Montaigne, all’epoca delle grandi esplorazioni transoceaniche e della scoperta dei selvaggi, scriveva:

Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del Paese in cui siamo”.

A mio modo di vedere, non esistono culture inferiori o culture superiori – fatto salvo del concetto tecnologico della superiorità -. Come infatti scrive Massimo Fini nel suo Il ribelle:

“ci vuole una bella dose di egocentrismo e di ingenuità per credere che il proprio modo di vivere e di pensare sia il solo “umano” e che tutto ciò che ne sta al di fuori sia barbarie.

Aggiunge Levis Strauss:

Il barbaro è innanzitutto l’uomo che crede nella barbarie”.

CAPITOLO I

GLOBALIZZAZIONE, MONDIALISMO, OMOLOGAZIONE: I MALI DEL FUTURO

Il diritto all’uguaglianza, come il diritto alla libertà, sono una conquista dell’uomo occidentale da due secoli a questa parte. Quando nel ‘600 John Locke scriveva il fondamentale volume “Due trattati sul Governo”, in Europa si stava piano, piano affermando il pensiero, seppur ancora in termini primordiali e nebulosi, che l’individuo non era più una creazione della società, ma che anzi veniva prima di essa, e che la società era una creazione di più individui: il famoso contrattualismo seicentesco, ovvero il passaggio dallo Stato di Natura allo Stato civile. L’idea, dunque, era che l’individuo aveva sì doveri nei confronti della società, ma allo stesso tempo poteva godere di una sfera privata e individuale, libera, nella quale il dispotismo degli altri individui non potevano entrare: la libertà da, o più propriamente chiamata libertà negativa. Ma la libertà negativa, in se’, è quasi un niente, perché priva di ogni contenuto, e si esaurisce nel’affermazione di un’arbitraria indifferenza, e di fronte a qualunque determinazione. E’ il liberalismo monco del ‘700. Intorno all’Ottocento il concetto di libertà assume altri connotati, questa volta positivi: la libertà non è indeterminazione e arbitrio, ma capacità dell’uomo a determinarsi da se’. La libertà negativa consisteva nel negare ogni autorità ed ogni legge; la nuova e positiva libertà consiste nel trasferire l’intimità del proprio spirito la fonte dell’autorità e della legge  (libertà di associazione, di religione, di parola, di pensiero, eccetera). Sono i nuovi diritti liberali. Diritti che, presi singolarmente, forgiano la libertà liberale. È solo nel secolo scorso (alla fine della Seconda Guerra) che ai diritti liberali si affiancano i diritti sociali, o di uguaglianza. Diritto alla salute o all’istruzione, per fare alcuni esempi: sono l’insieme delle pretese o esigenze da cui derivano legittime aspettative che i cittadini hanno, non come individui singoli, ma come individui sociali.

Ma che succede quando l’uguaglianza e la libertà finiscono con il diventare dispotismi da esportare? Che succede quando l’uguaglianza, soprattutto questa, sconfina oltre il campo dei diritti sociali e finisce la corsa collimando con la diversità, che è pure anch’essa, se vogliamo, un diritto?Oggi l’universo occidentale sta correndo all’impazzata verso una direzione pericolosa: anziché preservare il tutto mantenendo le parti, tende a trasformare le parti in un tutto. Mi spiego meglio: il movimento della globalizzazione, che nasce nel lontano ‘500 ma si è enormemente sviluppato dopo la Rivoluzione Industriale, sta portando l’uomo alla mondializzazione, la cui tendenza è quella di arrivare ad un unico Stato mondiale, ad un unico governo mondiale e, di conseguenza, ad un unico tipo di individuo: il Grande Consumatore. La diversità, la particolarità, l’individualismo del primo mondo liberale – e non liberista – non esiste più. Se vogliamo, questo meccanismo dell’uomo unico, possiamo dire che nasce proprio dal liberalismo, ovvero dalla sua degenerazione economica, il liberismo. Ma in un mondo siffatto come si potrà dire che al centro di tutto vi è l’individuo? Nelle democrazie liberali, che per questo si distinguono dagli altri regimi, prima della società viene l’individuo. Ma se il futuro della democrazia, o dell’umanità, è quella del dispotismo dell’uguaglianza, della globalizzazione estrema, dove tutti sono un unico individuo,  e dove il mercato mondiale è uno solo, che fine farà, e dove sarà disperso, l’individuo singolo? A ben guardare una realtà come questa, dove il Dio unico si chiama denaro, al centro del tutto non ci sarà più l’uomo, ma l’economia, e l’uomo gli girerà attorno. D’altra parte è sotto gli occhi di tutti, la concezione occidentale della globalizzazione è proprio questa: libera circolazione dei capitali e merci ma non degli uomini. Cioè il capitale può andare a cercare la propria collocazione geografica là dove è meglio remunerato, gli uomini, che spesso proprio da quel capitale sono stati resi dei miserabili, no, non avrebbero questo diritto.

L’omologazione, il dispotismo nevrotico dell’uguaglianza, è un processo che parte da quel diavolo invisibile che è l’economia (la Coca Cola, simbolo della globalizzazione, oggi la si trova anche negli angoli remoti del Congo dove, guarda caso, si muore di fame: le lattine d’acqua zuccherata arrivano, mail cibo neanche a parlarne) , ma si manifesta in altri ambiti: è la diversità, oggi, il nemico numero uno. L’Occidente non accetta la diversità, “l’altro” da sé, oppure la accetta ma nella misura in cui si occidentalizza.

Quali le grandi crociate dell’uguaglianza dispotica oggi? Parlo di quelle battaglie che, all’apparenza, mostrano l’animo buono e la buona coscienza del fine, ma che sotto, sotto altro non sono se non il grigiore anonimo dell’omologazione forzata.

Elenco le principali, e saranno gli argomenti di cui parlerò nei prossimi capitoli:

- l’esportazione della democrazia
- l’integrazione
- la tolleranza

CAPITOLO II

SUL DISPOTISMO DELL’UGUAGLIANZA E DELLA LIBERTA’

Deve il mondo intero occidentalizzarsi, assumere gli schemi mentali, la cultura, le tradizioni, le istituzioni, la prassi dell’Occidente? A questo aveva già trovato risposta Stuart Mill, che nel volume On Liberty scrisse:

Non ritengo che una comunità qualsiasi abbia il diritto di civilizzare le altre con la forza. A meno che le vittime di cattive leggi non invochino la protezione delle altre comunità, io non posso accettare che persone del tutto estranee intervengano perché si metta fine a uno stato di cose ritenuto soddisfacente da tutti gli interessati, solo perché tale stato di cose suscita scandalo in persone che distano migliaia di miglia e che non hanno nessuna parte e nessun interesse nella vicenda”.

Nel pensiero utilitarista di Mill troviamo la formula elementare della verità relativa. Che sta a significare: non per forza il nostro “mondo”, termine con il quale intendo la parte di esso con cui l’individuo entra in contatto – il suo partito, la sua setta ecc. – ha oggettivamente in tasca la verità assoluta delle questioni. Essendo il mondo un luogo popolato da numerose verità relative l’una all’altra, nessuno può arrogarsi il diritto di imporre la propria e i propri ideali soltanto perché ritenuti dal suo stesso partito i migliori. Locke diceva:

Supponiamo che a Costantinopoli ci siano due Chiese, una di Cristiani e l’altra di Anticristiani. Si potrà dire che a una delle due Chiese spetti il diritto di privare i dissenzienti dell’altra Chiesa delle libertà o dei beni o di punirli con l’esilio o con la pena capitale perché hanno credenze e riti diversi? Ma se una di queste Chiese ha il potere di perseguitare l’altra, chiedo quale delle due ha questo potere e in base a quale diritto. Si risponderà senza dubbio che la Chiesa ortodossa ha questo diritto nei confronti di quella che erra, o che è eretica. Ma questo è non dir nulla con parole grandi e appariscenti. Ogni Chiesa è ortodossa per se stessa ed erronea ed eretica per gli altri: ogni Chiesa crede che sia vero tutto ciò che è difforme da quello che crede”.

L’esportazione della democrazia, che oggi si manifesta con la potenza militare occidentale e la sua economia globalizzante, può essere analizzata su due livelli: è un male o un bene? Secondo: è un diritto?

Sul primo punto abbiamo già avuto modo di discutere: soltanto perché riteniamo la democrazia “il migliore dei mondi possibili” non vuol dire che la sia anche per gli altri. Sarebbe come esportare la verità occidentale al prezzo di distruggere quella degli altri, che per quanto turpe e lontana dall’Occidente possa essere, ha comunque lo stesso diritto di esistere. Non è dunque l’Occidente, come un professore di verità, a dover dire al “diverso” cosa è giusto e cosa non lo è.

Ma poi, anche ammesso che l’esportazione della democrazia si dimostrasse un bene per la società mondiale; anche ammesso che i governi mondiali smettessero di farsi la guerra perché, come di fatto è nella realtà, e fino a prova contraria, tra democrazie non si guerreggia, esportare la democrazia con le cattive non è forse equiparabile al diritto del più forte sul più debole? In 10 anni (10 anni!) di guerra in Afghanistan la perdita più grave che i guerriglieri talebani hanno causato all’alleanza atlantica è stato l’abbattimento di un elicottero; 38 i morti, il nulla confronto alle perdite nemiche e ai più di 60 mila civili uccisi dalla Nato.

Se la forza è una potenza fisica, allora cedere al più forte diventa un atto di necessità, non di volontà. Se poi è la forza a determinare il diritto, e il diritto del più forte a determinare la verità, allora l’effetto cambia sempre insieme alla causa: ogni forza che superi quella occidentale la sostituisce nel suo diritto.

E inoltre, anche ammesso che esportare la cultura occidentale in un mondo popolato da tiranni imprimi alle altre società il concetto di libertà individuale e di democrazia, con quale diritto possiamo noi imporre per mezzo della forza la libertà Occidentale alle culture tiranniche, lontane per storia e tradizione? Anzitutto non è detto che una società non democratica sia comunque dispotica, ma anche ammesso che l’obiettivo sia quello di neutralizzare i dispotismi mondiali rimpiazzandoli con governi liberaldemocratici, l’azione compiuta sarà quella di supplire un dispotismo con un altro, quello della libertà. Infatti un liberale che impone a tutti di esserlo, non è un liberale: è un fascista. L’esempio più lampante lo ritroviamo negli anni successivi la Rivoluzione francese, quando la Convenzione, pur di esportare i sacrosanti principi liberali dell’uguaglianza e della libertà, uccise i suoi dissidenti, e dichiarò guerra a mezza Europa. Ma una libertà che si definisce tale deve poter dare libera cittadinanza anche all’opposizione più illiberale.

Infine l’omologazione. Trasformare il diverso nell’uguale, significa pretendere che il Mondo abbia un’unica storia e tiri diritto verso un’unica direzione. A ben guardare noteremmo che non esiste individualità nell’uguaglianza; la libertà non sarà più quella dell’essere diverso dagli altri, ma è quella che si genera in un meccanismo tutto interno all’omologazione stessa: si è liberi finché si è uguali, e la libertà non finirebbe più dove inizia quella altrui, ma dove comincia la diversità. Mentre prima la discriminazione passava per il concetto di inferiorità di razza, dunque la diversità non era combattuta ma anzi si tendeva a preservarla, oggi il diverso è discriminato proprio perché non è uguale. È una sorta di razzismo al contrario. Ed è questo che è inaccettabile. Combattere l’omologazione equivale a preservare la propria identità. Se penso ad un mondo di tutti uguali, infatti, mi viene da pensare ad un mondo di schiavi.

CAPITOLO III

SUL DIRITTO ALL’INTEGRAZIONE

Precedentemente abbiamo analizzato i motiviper cui omologare una cultura ad un’altra può portarci in errore: pensando di agire per il bene di una realtà a noi differente, provochiamo invece un male. Prima di trattare l’integrazione, elenchiamo sinteticamente i motivi che ci hanno spinto a concludere questa ipotesi.

Ciò che è un bene per la società Occidentale, come la democrazia, non è detto che lo sia per culture con storia e tradizioni agli antipodi.

Anche fosse un bene, non spetta comunque all’Occidente prendere decisioni che comportino un cambiamento nella realtà di popolazioni lontane da noi migliaia di chilometri. Ogni Stato ha il diritto di rifilarsi la storia da se’, senza cappelli da parte di altri stati.

-Il diritto di occidentalizzare culture a noi differenti, equivale al diritto di chi si sente superiore, e dunque del più forte. Alla forza, però, non ci si piega per volontà ma per necessità. Ciò vuol dire che ogni forza che superi quella occidentale la sostituisce nel suo diritto.

-    L’omologazione condanna gli uomini ad una uguaglianza forzata. Eppure gli uomini devono essere uguali soltanto per diritti e per leggi. Ma ogni Stato ha leggi e diritti propri: omologare tutto ad un unico diritto e ad un’unica legge porterà inesorabilmente ad un unico uomo. Barattare la libertà con l’uguaglianza non è forse un delitto a cui ci si può sottrarre?

Che succede, però, se un individuo entra in contatto con una realtà totalmente differente da quella di origine? Poniamo che un immigrato pakistano, con tutto il bagaglio culturale e tradizionale che ne consegue, sfugga dalla miseria del suo Paese e si insedi in Italia, deve quest’uomo integrarsi con la nuova realtà? A mio parere no. Non vedo necessità, in questo caso, di integrazione. Proprio perché l’omologazione è l’annullamento di ogni diversità, ognuno, per questo, dovrebbe avere il diritto di decidere se integrarsi o meno. Qualsiasi immigrato, purché rispetti le leggi del Paese in cui vive – e su questo non si deve transigere, neanche per questioni di poco conto -, ha piena facoltà di decidere se conservare le tradizioni della sua storia, i costumi e le usanze, senza l’obbligo morale e politico di occidentalizzarsi perché “questo non è il tuo Paese”. Gli “omologatori” di professione, per rafforzare la propria tesi, usano spesso due argomentazioni:

-      Chi viene nel nostro Paese deve saperlo rispettare, altrimenti se ne torna da dove è venuto.

-      Nel suo Paese se girassi con un crocifisso al collo mi ucciderebbero (o vagheggiamenti simili).

Si noti come nella prima argomentazione si confonde il rispetto con l’omologazione. Il non occidentalizzarsi diventa una forma di ostilità nei confronti dell’occidentale, per cui mantenere i propri costumi equivale a rendersi astioso. Troppo facile pensarla così. Il “diverso” va accettato nella sua diversità. L’Occidente, invece, accetta il diverso solo nella misura in cui si omologa al proprio essere.

Nella seconda argomentazione, invece, non si tiene conto della realtà storica. L’Occidente è laico, l’Islam è religioso. Il nostro passato è il loro presente. Voglio dire: soltanto nel ‘600 la Respublica cristiana si è laicizzata, seppur gradualmente. L’Islam no. Siamo stati laicizzati dalle nostre ferocissime guerre di religione. Quel bagno di sangue fu terribile, l’Europa ne uscì stremata e chiese la tolleranza. L’Islam, invece, non ha mai avuto guerre di religione. Insomma: per tornare alla teoria delle verità relative, quello che è per noi non è per loro. Ma noi, la cultura superiore, vogliamo essere laici e al tempo stesso cristiani devoti quando e nella misura in cui ci fa comodo.

Ma l’integrazione, come tutte le libertà, ha anch’ella dei limiti. E il suo limite, a mio modo di vedere le cose, è la sicurezza. Sia chiaro, non la faccio una questione di usanze: il burqa è un indumento che copre interamente il volto, ma estrapolando dall’argomentazione ogni concetto che riguardi le usanze e la religione, e ogni propaganda per la donna schiavizzata  – che reputo non esserla -, ritengo che il volto coperto di una donna possa gravare sulla sicurezza collettiva. Solo in questo caso, seppur in Italia, al momento, non vi è legge che lo vieti, bandirei l’uso del burqa. Non parlo di una campagna violenta contro chi lo indossa, ma appoggerei una proposta di legge che lo rifiuti. Infatti dietro al burqa, con la scusa della tradizione, potrebbe celarsi qualsiasi criminale braccato dalla legge. Alle poste, ma comunque in qualsiasi luogo pubblico, il volto deve essere scoperto – rientrano nella casistica caschi integrali e quant’altro -.

A questo punto si dirà: chi intende delinquere (per esempio compiere una rapina) avrà modi molto meno ridicoli che infilarsi in un Burqa/Niqab. Vero. Insicurezza e criminalità vi sono e vi saranno sempre anche senza tale indumento. Tuttavia son belle parole che non spostano di un centimetro l’argomento, perché se è valida l’equazione sartoriana per cui se la libertà non dà pane, è ancor più vero che non lo dà la mancanza di libertà, allora è altrettanto vero che se la sicurezza non vi è senza burqa, è ancor più vero che l’aggiunta del burqa non aiuta la sicurezza.

Mi rendo conto che è una sorta di coercizione dell’individuo, ma in un mondo in cui sull’uomo non è possibile contare, preferisco, talune volte, la sicurezza alla libertà. Benjamin Franklin parlava bene quando diceva, chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza. Sono d’accordo, ma ovviamente bisogna analizzare di quale sicurezza e di quale libertà si parla.

CAPITOLO IV

SULLA TOLLERANZA

Fiumi di inchiostro sono stati scritti sul tema della tolleranza. La moderna rivendicazione del suo concetto nasce intorno al XVI e al XVII in un contesto definito e racchiuso nel rapporto tra Stato e Chiesa. Deve lo Stato decidere per l’uomo quale sia la religione della verità, e quali siano quelle eretiche? Come già detto furono le guerre di religione a sancire il definitivo pluralismo degli ordini sacri, dapprima, e da sempre, uniformati sotto l’insegna crociata del cristianesimo. Forse il più grande teorico della tolleranza, in quel periodo, fu John Locke, che vedeva nella tolleranza la capacità di scelta e di determinazione propria del singolo. Ognuno, insomma, purché non sia ateo, è libero di decidere a quale Dio prostrarsi.

Ma l’odierna idea di tolleranza, invece, supera i confini della religiosità, ma non li esclude, e spazia fino agli estremi sociali: diritto di cittadinanza, problema del pluralismo culturale e sociale e riconoscimento di identità da parte di nuovi soggetti politici. In poche parole la tolleranza di cui oggi si discute ben si amalgama con la cultura della globalizzazione, e aiuta a definire cos’è il razzismo contemporaneo. Scrive il professor Marco Tarchi:

per parlare sensatamente di razzismo nel contesto dell’odierno clima politico-culturale delle società occidentali occorre riferirsi ai fenomeni di diffidenza, rifiuto e intolleranza connessi all’incontro/scontro tra popoli di diversa estrazione etnica (…), la vitalità di questo fenomeno nella dinamica politica e sociale contemporanea non fa pernio su pretese di superiorità di un gruppo razziale sugli altri, fondate su teorie biologiche o tradizioni religiosi, ma su meccanismi di rifiuto della condivisione dell’uso di porzioni del territorio abitato, di servizi sociali, di opportunità di lavoro

In estrema sintesi il razzismo non è più la cultura della razza superiore, ma la cultura della diffidenza, che porta inesorabilmente al problema dell’omologazione: per accettare il diverso è necessario renderlo uguale. La domanda che infatti ci si pone oggi è la seguente: si deve tollerare il diverso? Ebbene, taluni risponderanno che gli uomini sono tutti uguali, tal’altri che chi abita in un Paese diverso da quello di origine dovrà obbligatoriamente integrarsi, cioè dimenticare le proprie, lontane usanze – senza però spiegarne il motivo -.

Ma a parer mio non sono le risposte alla domanda ad essere errate, ma lo è la domanda stessa. Infatti il quesito dovrà essere così posto: è proprio necessario tollerare?
A ben guardare, la tolleranza non è il contrario dell’intolleranza, come si vorrebbe far credere, ma una sua degenerazione. Perché chi è tollerante, per forza di cose, è anche intollerante. Se tollero lo straniero perché lo ritengo degno di rispetto, di conseguenza non tollero il razzista. Se in una società tollero l’esperienza democratica e la faccio mia, non tollero l’antidemocratico. E così via. Che fare dunque? Non penso che l’individuo, per come è fatto, possa smettere di essere intollerante, essendo una sua principale prerogativa. Può però tentare di sostituire la tolleranza, che altro non è se non una ramificazione dell’intolleranza, con il rispetto: sarebbe meglio infatti che valesse sempre il principio voltairiano, io combatto la tua idea, che è diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimerla liberamente, anziché infarcirsi le idee con libertà e uguaglianza per poi, puntualmente, essere democratici con chi ci pare a noi. Il prezzo che la democrazia paga a se stessa è che tutte le idee devono essere accettate, anche quelle che si ritengono ideologicamente più ripugnanti. Come possiamo, infatti, essere democratici con chi ci pare a noi e a tutti gli altri imporre il silenzio? Se si sceglie la via della democrazia, deve essere utilizzata con tutti, nessuno escluso.

Tornando al principio della tolleranza e dell’intolleranza, chiudo il pensiero: ovviamente le nostre argomentazioni si arrestano entro i confini del rapporto tra noi e “l’altro”, tra l’essere e l’essere diverso. Non tutto, infatti, è degno di rispetto. E il rispetto preso da solo non è una caratteristica sufficiente per poter forgiare una società, che per sopravvivere ha bisogno della legge ed una grande morale in cui è possibile racchiudere la morale di ogni individuo. L’uomo, infatti, è un atomo a se’, con tanto di leggi e filosofie proprie. La società deve saper custodire, meglio che può, questo atomo, ma non limitarlo.