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Sul protezionismo

di Maurizio Blondet - 06/11/2011

   
   
Molti lettori paiono credere che il protezionismo è un “dogma” contrapposto al liberismo. In realtà, solo il liberismo (nella forma dottrinaria in cui è stato imposto al mondo) è un insieme dogmatico-ideologico, risalente alle idee di Adam Smith. Il protezionismo invece non è altro che uno – fra tanti – strumenti che un’economia realistica tiene a propria disposizione per sviluppare in un dato paese un settore industriale che, allo stato iniziale, non potrebbe resistere alla competizione di industrie estere che operano da prima in quel settore.

Ma per qual motivo – diranno i liberisti – creare delle industrie nazionali che hanno bisogno di protezione, quando sul mercato mondiale si possono comprare quei prodotti industriali da paesi che li sanno già fare, e con più efficienza?

E’ la domanda che poneva già Adam Smith ai coloni americani dell’impero britannico: perchè volete costruire locomotive, quando l’Inghilterra già le fabbrica, migliori e a miglior prezzo? Sarebbe uno spreco di capitale. Vendete il vostro cotone e il vostro tabacco, merci in cui avete il vantaggio competitivo, e col ricavato comprate le locomotive inglesi, perchè in questo settore il Regno Unito ha il “vantaggio competitivo”. E’ il mercato, bellezza.

Se le colonie americane avessero obbedito ad Adam Smith, gli Stati Uniti sarebbero ancora un grande paese agricolo (e più simpatico, d’accordo). Invece Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro del presidente George Washington, dopo aver creato la Banca Nazionale per fare crediti di stato alle industrie, protesse con dazii le prime locomotive americane (e una quantità di altri prodotti e beni strumentali e di consumo) dalla concorrenza estera avendo ben chiaro – come disse nel suo Rapporto sulle Manifatture del 1791 – che la misura deve essere temporanea e la protezione va gradualmente sollevata, in modo che non produca letargia ma stimolo.

Si può dire che gli Stati Uniti sorsero, anzi insorsero, “contro” Adam Smith e la sua dottrina del libero mercato, che era in realtà la dottrina utile all’impero britannico: basti ricordare che ancora nel 1950, il governo inglese in India vietava di tessere, e perfino filare il cotone prodotto in loco (Gandhi andò ripetutamente in carcere per questo delitto: filava pubblicamente con l’arcolaio) perchè, se l’India aveva il vantaggio competitivo nella produzione del cotone grezzo, erano i filatoi di Manchester ad avere il vantaggio competitivo nella sua lavorazione, e a questo bisognava obbedire. Dal che si vede tra l’altro che la “spontaneità del mercato” va sostenuta con la polizia, e il “laissez faire, laissez passer”, va’ presidiato manu militari: il libero mercato armato (oggi presidiato dalla nota superpotenza bellica, l’unica rimasta) è in fondo un dirigismo di stato che non dice il suo nome, ed obbedisce ad altri scopi che la pretesa “miglior allocazione del capitale finanziario”.

Ma torniamo ad Hamilton e ai neonati Stati Uniti. Nel 1825 vi arrivò un tedesco di nome Friedrich List che, mentre faceva quattrini come amministratore di una ferrovia che sfruttava una miniera di carbone, fu conquistato dall’impetuoso sviluppo della nazione americana, che “cresceva letteralmente dalla natura selvaggia” all’industria, e l’energico ottimismo con cui il nuovo paese si dava un futuro di indipendenza, autosufficienza e modernità economica al riparo dei dazi di Hamilton; tornato nella sua Germania nel 1832, si prodigò per importarvi quel sistema di protezionismo-dirigismo che chiamò “il sistema americano di economia politica”: nome oggi ironico, se si vede come il vigente “sistema americano” è proprio quello imperiale di Adam Smith redivivo.

Tanto poco List era un protezionista dogmatico, che fu il promotore dello Zollverein, il mercato comune fra la miriade di staterelli tedeschi, che preparò l’unificazione della Germania sotto la Prussia. Ma, diceva, l’abolizione dei dazi ha senso fra paesi che hanno “un livello pressappoco uguale di industria, di civiltà politica e di potenza”, altrimenti, “nelle condizioni attuali (di disparità), un libero commercio globale non porterebbe ad una libera repubblica universale ma, al contrario, alla soggezione universale delle nazioni meno avanzate sotto la potenza predominante”.

Attenzione alla parola “civiltà”: per List, la creazione di industrie nazionali invece di comprare semplicemente i prodotti industriali dall’estero (ciò che per Adam Smith è una diseconomia) è essenziale perchè è nell’interesse dell’intera società elevare “la qualità della manodopera”. Scrive: “Smith ascrive una capacità produttiva al capitale, mentre solo il lavoro produce, con l’assistenza di capitale…..la maggior parte della capacità produttiva consiste nelle condizioni sociali e intellettuali degli individui, che io chiamo capitale mentale”. Qui si sottolinea il valore insostituibile di ciò che chiamiamo “risorse umane qualificate”, delle “competenze” che stiamo perdendo nella de-industrializzazione e de-localizzazione indotta dal mercato libero globale. Un tempo anche in Italia sapevamo fare tv, elettronica, farmaceutica, chimica fine, aerei: da quando “ci conviene” comprare questi prodotti a “prezzi concorrenziali” all’estero anzichè farceli in patria, la nostra società ha perso le competenze per fabbricarli, anzi per stare all’avanguardia in questi settori. Siamo al punto che da noi i neo- ingegneri faticano a trovar lavoro, perchè la nostra economia ormai non ne richiede. Con i posti di lavoro in Cina, Romania, Slovenia, emigrano anche le competenze. Una volta perse, non le recuperiamo. E il paese degrada, scende nei gradini della civiltà. Ed anche dell’economia.
Perchè, dice List, è nel capitale della mente “la maggior capacità produttiva”; e senza competenze e risorse umane qualificate, non c’è crescita. Egli chiama quella di Smith “l’economia del bottegaio”: Adam Smith si occupa “dello scambio dei beni, anzichè della forza produttiva”.

Detto in altro modo, Smith concepisce l’economia come una torta data; per List, l’economia è il pasticciere a cui richiedere una torta più grande. O ancora: Smith immagina un’economia statica, dove il destino di ogni paese è segnato una volta per tutte dal suo vantaggio competitivo. List elabora un metodo per far crescere, per sviluppare l’economia in modo che il lavoro non venga sprecato, e non restino inoperose qualità e risorse umane qualificate, anzi si mantengano vive le competenze, e si sviluppino sempre più. Naturalmente già da gran tempo il lettore sta chiedendo: ma chi è poi ‘sto List? Un economista vecchio, ottocentesco, chi lo conosce? Il lettore d’oggi, si sa, è ignorante, e e per di più disprezza quel che non conosce. Ma non è del tutto colpa sua: l’Economia Politica, che è il sistema di Friedrich List, da decenni non si studia più nelle università, cancellata, vilipesa come “modello renano”, quando non “statalismo”, “dirigismo, protezionismo e nazionalismo economico”. L’ha sostituita completamente la dottrina liberista-monetarista del mercato unico globale, imposta da oltre vent’anni come “pensiero unico economico”. Ma sarà bene sapere che grazie all’Economia Politica, applicata da statisti di valore, la Germania diventò da paese arretrato una potenza industriale, e l’Italia deve all’economia politica la sua posizione non ancora soppressa di forte manifatturiero, come del resto la Francia. Insomma, la teoria di List (1789-1846) era la dottrina vigente in Europa, e non ha funzionato troppo male per far crescere le economie. Le citazioni di cui sopra le ho tratte dai trattati capitali di F. List, “The National System of Political Economy”, e “Outlines of the American political Economy in twelve letters to Charles Ingersoll” (1).

Come ha funzionato invece il liberismo globale, questa “libertà” che ci circonda di divieti (non proteggere, non svalutare, non ripudiare il debito) e che ha affidato alla finanza l’allocazione del capitale, col presupposto dogmatico che è la finanza a sapere meglio, sulla traccia della mano invisibile del mercato, dove investire i suoi soldi o pseudo-soldi? Un susseguirsi di bolle speculative con giganteschi sprechi di capitale, la devastazione di industrie e di saperi e competenze, enormi e insostenibili indebitamenti, la più alta iniquità sociale della storia occidentale, e infine il crack, la Grande Depressione, il nuovo ’29 in corso. Alla faccia della “miglior allocazione del capitale”!

Urge una revision del pensiero unico globalista-monetarista, e in ciò la rilettura di List può essere di qualche utilità, se non altro come antidoto al dogmatismo vigente. E’ infatti come una religione dogmatica che il liberismo viene imposto, tant’è vero che è collegato a divieti: no ai dazii, no alla svalutazione, no al default sovrano, sono tutti sacrilegi contro il Verbo. Ma perchè? Vi sono circostanze in cui la svalutazione è opportuna, i dazi protettivi vengono utili, il ripudio del debito illegittimo un dovere nazionale per dare un futuro ad una società schiacciata dagli interessi che paga. Si tratta di non vedere l’economia come una dottrina ferrea perchè sacralizzata, ma come un bricolage, un ingegnoso fare con tutti i mezzi a disposizione per lo scopo: la crescita di una nazione nelle sue generazioni.

Quale scopo? Tocchiamo qui la fallacia principale del liberismo alla Adam Smith. La sua dottrina prescrive agli stati di limitarsi e specializzarsi nel settore (o nei pochi settori) dove hanno il “vantaggio competitivo”. In altre parole, tende a ridurre gli stati ad aziende, che si specializzano a produrre una sola merce, quella che possono esportare in modo competitivo sui mercati. Tutte le altre, devono importarle, nel quadro della interdipendenza globale.

Ma gli stati non sono, e non potranno mai essere, aziende. Le aziende non hanno bambini e ragazzi da istruire, non hanno vecchi da mantenere, malati e improduttivi da curare. Le aziende espellono i lavoratori superflui, ma gli stati non possono buttarli oltre-confine, se li devono tenere come disoccupati, da riqualificare.

Tutto questo dice che l’economia politica – degli stati – è essenzialmente diversa da quella delle imprese, e va’ studiata su basi diverse. Ogni stato va’ pensato non come un’azienda, ma come una grande famiglia allargata, come le famiglie contadine di un secolo fa: quaranta o cinquanta persone di varie generazioni, con varie capacità o nessuna, dove ci dev’essere posto anche per il nipote down e la nonna sdentata, la zia zitella e il ragazzo che vale la pena di mandare all’università. Quelle grandi famiglie puntavano non all’export, ma alla sopravvivenza. Si ingegnavano a produrre “in casa” (cioè a non importare, spendendo denaro) tutto ciò che potevano: il grano per autoconsumo e i prodotti agricoli da vendere sul mercato (il tabacco per esempio), allevavano maiali e galline, magari coltivavano il gelso per il baco da seta, finendo poi per filare la seta prodotta nei filatoi. Era una diversificazione benefica, perchè occupava tutti, nonostante le loro capacità diverse. Una famiglia contadina non aveva tutti degli Steve Jobs; ma il nipote mongoloide poteva rendersi utile in semplici lavori, la zia zitella guardare i bambini anzichè mandarli all’asilo nido. La nonna sdentata poteva cucire i calzoncini e le gonnelline per i bambini: d’accordo, quelli dei grandi magazzini erano prodotti più chic, ma i calzoncini della nonna avevano una dote notevole: non avevano un costo in denaro, denaro che la famiglia nel suo insieme avrebbe dovuto sborsare per vestire i mocciosi con gli abiti griffati. Nelle grandi famiglie il denaro contante era sudato (dalla vendita di uova, tabacco, lana grezza, filato di seta) e serviva per importare – comprare – prodotti che davvero la famiglia non sapeva fare: attrezzi agricoli, per esempio.

L’economia politica ha da essere più simile a questa che a quella là, l’inglese imperiale. L’applicazione oculata del sistema di List avrà avuto delle diseconomie per la dottrina bocconiana (il nipote mongoloide non è meglio mandarlo all’ospizio, invece di fargli tessere ceste?), eppure fu quella che consentì alla Germania sotto Hitler di assorbire la disoccupazione, non solo, ma di prosperare mentre il mondo gelava nella Grande Depressione del 1939-39. Essendo scarsa la moneta mondiale (il dollaro anche allora), prosciugato il credito, l’import-export languiva. Allora il regime passò al baratto internazionale: comprava la carne all’Argentina, e la pagava in marchi fittizi. Ossia marchi che potevano essere spesi solo in Germania; ma non era un male, perchè la Germania aveva un catalogo di prodotti industriali che copriva qualsiasi bisogno: che cosa volete in cambio: coloranti, esplosivi della IG Farben? Medicinali Bayer? Giocattoli? Orologi a cucù? Strumenti musicali? Cannoni? Macchine utensili? Aerei? Navi? L’Argentina poteva scegliere qualunque merce. Persino la Standard Oil dei Rockefeller, a quei tempi, dovette vendere il suo petrolio ad Hitler contentandosi, in cambio, di un carico navale di …armoniche a bocca. I tempi non consentivano affari migliori. La moneta internazionale non aveva più ruolo, e di conseguenza, nemmeno i mediatori della moneta, i cambiavalute del tempio della finanza… Odioso delitto contro la finanza, da punire con tutte le forze del libero mercato armato.

Il generale britannico John F. C. Fuller (il teorico della guerra di corazzati) scrisse nella sua “Strategical and tactical history of the second World War, 1948): “Quel che ci spinse in guerra contro Hitler non fu la sua dottrina politica; la causa, stavolta, fu il suo tentativo coronato da successo di stabilire una nuova economia. (…) La prosperità della finanza internazionale dipende dall’emissione di prestiti ad interesse a nazioni in difficoltà economica; l’economia di Hitler significava la sua rovina. Se gli fosse stato permesso di completarla con successo, altre nazioni avrebbero certo seguito il suo esempio, e sarebbe venuto un momento in cui tutti gli stati senza riserve auree si sarebbero scambiati beni contro beni; così che non solo la richiesta di prestiti sarebbe cessate e l’oro avrebbe perso valore, ma i prestatori finanziari avrebbero dovuto chiudere bottega. Questa pistola finanziaria era puntata alla tempia, in modo particolare, degli Stati Uniti…”.
Il generale Fuller, uno dei vincitori del Reich, è stato naturalmente accusato di simpatie per il nazismo. Basta descrivere il sistema, per essere contagiati dalla sua damnatio memoriae. Anche il sottoscritto, più modestamente di Fuller, sì’è meritato il “nazifascista del c.” dal solito sacerdote autonominato del politically correct.

Per fortuna, adesso è stata cancellata persino la memoria dell’economia politica (che in Italia presiedette alla nascita dell’IRI e dell’industria pubblica; il fascismo si preoccupò di non perdere le competenze rare degli ingegneri nelle industrie dell’acciaio, navali, aeree, abbandonate dai privati perché “non c’era mercato” ); adesso abbiamo la finanza, il libero commercio globale per cui dobbiamo guadagnare dollari se vogliamo avere i telefonini, i laptop, gli iPAds, i Boeing, le Lumberjack tutto il resto.

In questo resto c’è la perdita di competenze: il telefonino che ci costa poco ci costa il futuro dei nostri figli e nipoti. C’è la perdita di autosufficienza alimentare: oggi, il 70 per cento delle derrate che consumiamo lo compriamo all’estero, e solo il 30% lo produciamo in casa. Fame assicurata in caso di crisi mondiale (ma non mi parlate di “autarchia”, parola nazifascista). E intanto, centinaia di migliaia di ettari sono lasciati incolti dagli agricoltori, perchè i prezzi internazionali sono troppo bassi per i loro costi di produzione. La nostra agricoltura “non è competitiva”. Quando i nostri agricoltori stanno per fare il raccolto, i prezzi si abbassano ancor più, perchè proprio allora – guarda caso – arrivano navi cariche di granaglie, portate qui dall “Cartello del Grano” dal Canada, dall’Ucraina, dall’Australia… Le Sorelle del Grano si chiamano Cargill, Continental, Archer Daniel Midlands, le famiglie Dreyfus, Andrè, Fribourg.. Sono multinazionali molto segrete, non quotate in Borsa, che comprano le granaglie nel mondo quando sono ancora in erba, anticipando i soldi agli agricoltori alle corde con le banche (e ovviamente strappano prezzi bassi) e vendono i loro grani: facendo cartello, cioè concordando fra loro i prezzi. Ma all’occasione fanno anche dumping, ossia ribassano i prezzi per rovinare gli agricoltori granari concorrenti, come nel caso gli italiani. Comprare il loro grano “conviene”, al diavolo i coltivatori nostrani. E’ il mercato, bellezza.

Maurizio Blondet
Fonte: www.rischiocalcolato.it
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2.11.2011

Note

1) Una più approfondita disamina delle teorie di List è in Maurizio Blondet, “Schiavi delle banche”, Effedieffe edizioni, 2005.