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L’importante è finire?

di Francesco Lamendola - 06/11/2011





«L’importante è finire» (sottotitolo: «Quando mi svegliai») è una canzone di Mina, apparsa in quarantacinque giri su vinile nel 1975; il testo di Cristiano Malgioglio e soprattutto l’interpretazione della cantante la caratterizzarono per una carica di sensualità che indusse la Rai ad escluderla per un certo tempo dai suoi programmi.
Essa parla di una donna che accarezza l’idea di rompere la relazione con il suo amante, ma che, pienamente appagata da lui sul piano sessuale, non sa risolvesi a farlo e continua a rimandare la decisione, illudendosi di essere ancora padrona del gioco e di poterlo lasciare in qualunque momento.
Per intanto, ella assapora il sottile piacere di tenere in sospeso il suo uomo e, mentre gli si concede fisicamente, fantastica confusamente sul binomio amore-morte, che i gemiti di piacere di lui le suggeriscono; per conclude che l’importante è arrivare comunque alla fine: espressione volutamente ambigua, in quanto potrebbe alludere sia alla fine della loro storia d’amore, sia, semplicemente, alla fine del rapporto sessuale che stanno consumando.
Una situazione contraddittoria e confusa, dunque; una donna che vuole e non vuole, nello stesso tempo, una determinata cosa; che trae piacere dal godimento fisico, ma anche dal sottile senso di potere che esercita, o che crede di esercitare, sul suo amante; si inebria, così, all’idea di poterlo liquidare a suo talento, ma intanto non sa resistergli tutte le volte che lui, esperto conoscitore del gioco erotico, le si accosta nel buio, la accarezza e la bacia.
Il fatto che essi facciano l’amore a luce spenta, in una atmosfera di complicità che sdegna l’uso delle parole, fa pensare a una relazione in cui un ruolo notevolissimo è svolto dalla fantasia; si intuisce che la donna, insoddisfatta di lui sul piano umano, ma decisamente appagata su quello carnale, con la complicità del buio riesce a dare alimento ad una relazione che si va esaurendo e che sa ormai di chiuso, di ripetizione, di stanchezza.
La domanda che ci si pone istintivamente, di fronte a questo genere di situazioni affettive, in realtà assai più diffuse di quel che non si creda, è se la cosa più importante sia davvero quella di “finire”, ossia di arrivare al più presto ad una conclusione, quale che sia.
È evidente, infatti, che, se per “finire” si intende concedersi il piacere un’ultima volta, ciò non è che un modo di rimandare il problema; se, d’altra parte, si decide di troncare quella relazione, è altrettanto chiaro che l’importante non è decidere di farlo, ma essere convinti di fare la cosa giusta, perché l’agire non deve mai guidare il sentire e il volere, ma deve esserne la coerente conseguenza: è assurdo dare la precedenza al fare, in questo caso all’atto di concludere un rapporto, rispetto all’esame delle proprie autentiche motivazioni.
Eppure, basta guardarsi intorno per rendersi conto che moltissime persone agiscono proprio così, cioè lasciandosi portare a rimorchio dai propri impulsi istintivi, da spinte improvvise, da capricci momentanei (cosa di cui, sovente, si pentono amaramente); si prendono e si lasciano con inspiegabile leggerezza, «non si sa come» - direbbe il buon Pirandello - quasi che non la loro volontà coerente e consapevole, ma una oscura e imprevedibile fatalità le spingesse ora da una parte, ora dall’altra, come burattini o come foglie al vento.
Insomma, sembra che per molte persone “finire” sia quasi più importante che “cominciare”: perché si comportano - del tutto a torto - come se se cominciare fosse la cosa più facile del mondo, e infatti si gettano a corpo morto in qualunque tipo di situazione, di relazione, di avventura; salvo poi trovarsi prese nella rete delle proprie contraddizioni, delle proprie insufficienze, delle proprie vigliaccherie, e cercare invano in se stesse la forza e il coraggio per uscire da situazioni che hanno voluto solo a metà e rispetto alle quali, tuttavia, non sanno o non possono o non vogliono fare un minimo di chiarezza.
M c’è di più.
Vi sono parecchie persone che, quando intraprendono una relazione, stanno già pensando a come porvi fine: sono talmente abituate a relazionarsi con l’altro secondo lo schema dell’usa e getta, talmente spaventate all’idea di impegnarsi seriamente con qualcuno, che fin dal primo istante tengono lo sguardo fisso sul momento in cui porranno la parola “fine” a quella storia: un po’ come colui che, non appena entra in un ascensore, non fa che tenere lo sguardo fisso sul campanello d’allarme, pensando che certamente avrà bisogno di farlo suonare.
L’importante, per esse, è di non trovarsi dalla parte sbagliata della fine, vale a dire dalla parte di colui (o colei) che la subisce; l’importante è trovarsi sempre e comunque alla parte giusta, vale a dire quella di colui (o colei) che prende l’iniziativa di rompere il rapporto, dando all’altro (o all’altra) il benservito, magari senza neanche il preavviso minimo dovuto a qualunque lavoratore che venga licenziato in tronco.
Insomma, anche nella prospettiva di chiudere un rapporto con l’altro, queste persone vorrebbero sempre poter disporre di tutte le circostanze a proprio favore: vogliono sentirsi forti, pensando che potranno scaricare il partner o l’amico in qualsiasi momento; ma vogliono anche sentirsi forti tenendolo sul filo del rasoio, facendogli pendere sulla testa la minaccia della rottura, il che implica una vena di sadismo. Al tempo stesso, lo spettacolo del piacere che esse sono in grado di dare all’altro, e la consapevolezza di poterglielo negare a proprio piacimento, vellica al massimo il loro ego, il loro narcisismo, il loro senso di onnipotenza; per cui finiscono per prolungare all’infinito delle situazioni affettive mediocri, o anche decisamente deludenti, pur di non privarsi di tutto questo insieme di piacevoli sensazioni.
È quasi inutile dire che tale comportamento è tipico di chi possiede un basso livello di autostima, di chi non si vuole veramente bene: se si volesse bene davvero, infatti, romperebbe senza indugio una relazione insoddisfacente, anzi, in molti casi non la incomincerebbe nemmeno, perché i segnali premonitori che qualcosa non funziona vi sono sempre e, se uno non li vuole cogliere, è perché non ritiene di poter aspirare a qualcosa di meglio.
Poi, però, la frustrazione per il compromesso accettato, per le cose subite, per le speranze non realizzate, si trasforma sordamente in rancore e questo rancore, invece di dirigersi verso la propria mancanza di autostima e la propria incapacità di fare delle scelte limpide e lineari, si rivolge contro l’altro, contro il partner o l’amico, e finisce per imputargli anche colpe che non ha e difetti che non possiede, caricandolo di disprezzo e addossandogli la responsabilità di avere approfittato, chi sa come, della situazione, di aver sfruttato le circostanze in modo intollerabile.
Ecco, allora, che non si vede l’ora di rompere, di finire; se si rimanda, è solo per prolungare la sottile malignità di pensare che lo si potrà fare domani, magari dopo aver spremuto un altro momento di intenso piacere fisico, reso ancora più eccitante dal fatto di sapere quello che l’altro non sa ancora, e cioè che si tratta dell’ultimo amplesso.
Tutto questo è aberrante e, naturalmente, è fonte di infinite sofferenze: infatti, adottando una simile filosofia nelle relazioni umane, inevitabilmente, per quante astuzie e precauzioni si mettano in opera, prima o poi si finisce per subire lo stesso trattamento che si riserva agli altri; perché in un mondo di ladri, ad esempio, è evidente che nessuno potrà sempre e solo rubare al prossimo, ma verrà pure il momento in cui anche il più astuto verrà derubato a sua volta.
Come si esce da questo pantano, da questo labirinto, da questo vicolo cieco?
Innanzitutto, imparando a guardarsi dentro con maggiore onestà, a specchiarsi nella propria parte migliore, ad avere più stima, più rispetto e più amore per se stessi.
Quando ci si mette su questa strada, le altre cose vengono di conseguenza: prima fra tutte, il rifiuto delle situazioni false, dei rapporti ambigui, dei cattivi compromessi, nonché delle aspettative esagerate ed irrealistiche, dalle quali scaturiscono necessariamente delusione, amarezza e sofferenza, in un circolo vizioso che non trova sbocco e che non fa crescere l’anima, ma, al contrario, alimenta la spirale negativa per cui si incolpa sempre di più l’altro per la propria insoddisfazione, mentre si stima se stessi sempre di meno.
Bisogna imparare a fare delle scelte limpide, delle quali non ci si pentirà e sulle quali si eviterà ogni possibile recriminazione: perché quando una scelta è stata fatta con cognizione di causa e con onestà d’intenti, si potrà, certo, rimanere anche delusi o feriti, ma non già sentirsi traditi; e traditi da chi, poi?
No: né gli altri, né le circostanze hanno il potere di tradirci, se noi non abbiamo fatto in modo che ciò accadesse; se, per esempio, non abbiamo fatto di tutto per chiudere gli occhi davanti alla realtà, per ignorare i segnali di avvertimento, per buttarci allo sbaraglio in situazioni contorte e ingestibili, barando con noi stessi e auto-ingannandoci, per tener vive speranze assurde e aspettative totalmente al di fuori della realtà.
Ogni volta che veniamo ingannati, c’è, a monte, un inganno che noi stessi abbiamo tessuto contro di noi; ogni volta che restiamo beffati, c’è una beffa che abbiamo consumato contro noi stessi, contro la verità che era in noi e che sapevamo essere in noi, per dare ascolto alla nostra parte peggiore: la più superficiale, la più capricciosa, la più avida e la più stupida.
L’importante, dunque, non è finire, ma incominciare: l’importante è incominciare benne, iniziare ogni nuovo impegno e ogni nuovo rapporti umano, sia esso sentimentale o professionale o di qualsiasi altro genere, con retto sentire, retto giudicare, retto volere: ogni inizio bene impostato è il principio di un percorso di soddisfazioni e di rappacificazione con noi stessi e con il mondo; ogni cattivo inizio è il principio di una lunga serie di nodi sempre più aggrovigliati, sempre più difficili da sciogliere, che causeranno sofferenza e amarezza a noi e ad altri.
Dobbiamo imparare a cominciare bene; e certo non lo si può fare se il primo pensiero che si ha in mente è quello di tenersi pronta la via di fuga, quello di sorvegliare le mosse dell’altro per colpirlo prima che lui possa colpire noi, per ferirlo prima che lui abbia la possibilità di ferire noi: perché una tale attitudine tradisce la scarsa fiducia che abbiamo non soltanto nel prossimo, ma anche in noi stessi, come se fossimo consapevoli di non saperci confrontare serenamente e costruttivamente con le situazioni che la vita ci presenterà e con le persone e le cose che ci verranno incontro e verso le quali non ci sentiremo attratti.
Del resto, si finisce come si è incominciato: ciò che si è incominciato bene è destinato a finire, se non sempre bene, comunque senza amarezza e senza lasciare ferite: perché l’amarezza e le ferite sono il prodotto di ciò che si è incominciato male, che si è condotto senza nulla imparare dall’esperienza, e che si conclude nel modo peggiore possibile.
Non preoccupiamoci troppo, pertanto, di come andranno a finire le cose nelle quali siamo coinvolti; preoccupiamoci piuttosto di rimanere fedeli a noi stessi, di non alimentare aspettative folli e di non perseguire il male del alcuno; se ci atterremo a queste semplici norme di condotta, potremo anche rimanere delusi, non però amareggiati e neppure feriti.
E c’è ancora una cosa importante da dire, a questo riguardo.
La fine delle cose non dipende da noi, se non in parte; mentre da noi dipende gran parte del principio, dalla nostra libera scelta.
Lasciamo qualcosa da fare anche a Dio.
Non possiamo prevedere tutto, anticipare tutto, premunirci nei confronti di tutto: esiste e sempre esisterà un margine d’incertezza, d’imponderabilità, di dubbio.
Abbiamo una volontà, e tuttavia non siamo onnipotenti; e non siamo neppure onniscienti, benché possiamo spingere lo sguardo un po’ più in là del nostro naso.
Il buon esito delle cose è nelle mani di Qualcuno che indirizza tutto verso il bene, purché noi vi collaboriamo nel modo giusto e senza furbizie da quattro soldi.
Esiste una serietà del reale e la buona riuscita delle cose che intraprendiamo, ivi comprese le relazioni d’amicizia o di amore con il nostro prossimo, ha direttamente a che fare con tale serietà: riescono bene quelle che intraprendiamo seriamente, cioè con fedeltà alla nostra parte più vera e alla nostra chiamata d’ordine superiore; male, le altre.
Attenzione, però: non sempre possiamo avere il riscontro immediato di ciò che è bene e di ciò che è male; può accadere che solo a distanza di tempo ci rendiamo conto di quanto siamo stati fortunati a perdere l’amicizia o l’amore di quella tal persona, anche se, sul momento, ne avevamo sofferto…