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Quali nodi irrisolti si agitano dietro la sindrome dell’Eterna Infermiera?

di Francesco Lamendola - 10/11/2011





Un consistente numero di donne e un certo numero di uomini sono letteralmente afflitti dalla sindrome dell’Eterna Infermiera: ossia dal bisogno esasperato, compulsivo, più forte di un riflesso condizionato, di prodigarsi in soccorso del prossimo bisognoso.
Che cosa c’è di male nel volersi rendere utili alle persone in difficoltà, nel volersi mettere a disposizione di chi è meno fortunato di noi?
Assolutamente niente, ci mancherebbe altro: ce ne fossero di più, di persone sensibili e altruiste, capaci di spingersi un poco al di fuori della propria dura corazza, per portare qualche conforto e per offrire consolazione a coloro che soffrono, che non ce la fanno, che disperano.
E dunque?
Il punto è che esistono due tipi di persone altruiste, assolutamente diversi e quasi antitetici: quelle che desiderano aiutare gli altri per sovrabbondanza del cuore, per generosità autentica, per trasparente spirito di servizio; e quelle che non sanno vivere la propria vita, non sanno affrontare e neppure guardare in faccia i propri problemi, e tuttavia pretendono, anzi, appunto per questo pretendono, di farsi carico di quelli altrui.
Un terzo gruppo, che potremmo considerare come un sottogruppo del secondo genere, è formato da quelle persone che, sovente dietro la maschera della sensibilità e della dolcezza, nutrono in sé un feroce bisogno di dominare il prossimo, di manipolarlo, di cambiarlo, insomma di esercitare un pieno e indiscusso controllo su di esso: e cosa c’è di meglio, per farlo, che volare al suo soccorso e acquisire così il diritto di consigliare, guidare, instradare l’altro, fino a ridurlo come un semplice burattino nelle proprie mani “amorevoli”?
Che il Cielo ci scampi e ci protegga da simili forme di sollecitudine: esse equivalgono a un genere larvato di schiavitù, a una transazione poco pulita, in cui si riceve aiuto e conforto in cambio di una totale e definitiva sottomissione.
Infine dobbiamo segnalare un quarto gruppo, anch’esso classificabile come un sottogruppo del secondo tipo: quello di coloro che sono perseguitati da un oscuro senso di colpa e che, perciò, si sentono responsabili di qualunque disgrazia, di qualunque sofferenza, di qualunque ingiustizia avvengano sulla faccia della Terra  e che, a causa di ciò, si sentono in dovere di fare il possibile e l’impossibile affinché tali situazioni vengano sanate.
Si osservi che la differenza fra il terzo e il quarto gruppo di persone non è affatto così grande, così abissale come potrebbe sembrare a prima vista; al contrario, esse hanno molti punti in comune e, in certi casi, si possono considerare semplicemente come due facce di una stessa medaglia: perché il sentirsi in colpa per tutto, e quindi responsabili di tutto, è qualcosa che ha a che fare, sì, con il senso di colpa, ma anche con il delirio di onnipotenza.
Se tutto dipende da me, infatti, ciò significa che io sono una persona importantissima, anzi, indispensabile al mantenimento dell’ordine dell’universo; una persona addirittura sovrumana, una specie di piccolo (e forse neanche tanto piccolo) Dio.
Le donne affette dalla sindrome dell’Eterna Infermiera, vi abbiamo accennato all’inizio, sono più numerose degli uomini, anzi, si può dire che, percentualmente, forse lo è una donna su due; questo non significa che non vi siano anche diversi rappresentanti del sesso maschile nella caritatevole confraternita di cui stiamo discorrendo.
C’è un ragazzo, per esempio, che beve, che si droga, che frequenta pessime compagnie, insomma che sta buttando via la sua vita? Ecco che l’amica o l’amante affette dalla sindrome dell’Eterna Infermiera volano letteralmente al suo soccorso, bramose di redimerlo sopra ogni altra cosa. E si martoriano, si esauriscono, si massacrano nell’improba fatica, non di rado fino ai limiti, e magari oltre i limiti, dell’autodistruzione.
Gli amici e i parenti osservano la scena, costernati, ma anche commossi, e non possono fare a meno di pensare: «Guarda fino a che punto lo ama, fino a che punto si sta sacrificando per lui!»; poveri sciocchi, non hanno capito niente: l’Eterna Infermiera non ama le persone a dispetto della loro sofferenza, del loro disadattamento, della loro abiezione, ma proprio a motivo di essi; e, se non li trovasse già belli e pronti sul proprio cammino, andrebbe a cercarli con la lanterna, come Diogene faceva per le vie di Atene, sebbene fosse pieno giorno.
Ora, quando si ha bisogno di aiutare gli altri perché, diversamente, non ci si potrebbe godere in santa pace la propria vita, vuol dire che c’è qualcosa che non va; vuol dire che si sta manifestando un malessere, che si sta lanciando, in codice, un segnale di estremo pericolo.
E c’è ancora dell’altro.
Si direbbe che più una situazione umana sia compromessa, quasi disperata, e più l’Eterna Infermiera sia propensa a gettarvisi a capofitto, quasi che l’estrema difficoltà dell’impresa stimolasse e lusingasse il suo istinto di onnipotenza: e, di fatto, si tratta proprio di questo.
Se io riesco in un’impresa disperata; se riesco a redimere, a salvare un essere umano che, ormai, tutti davano per irrecuperabile, per spacciato, allora ciò vuol dire che sono veramente una persona eccezionale, una persona che merita ammirazione sconfinata da parte dei suoi simili; il che mi esime dalla dura necessità di lavorare su me stesso.
Mi esime solo in apparenza, però: tutto ciò che non facciamo di bene a noi stessi, di bene nel senso spirituale della parola e non nel senso edonistico, prima o poi ci chiederà conto del nostro comportamento, sotto forma di disturbi, di malesseri, di angoscia, di depressione: non ci servirà a nulla dire: «Ma io ho fatto del bene ad altri!»; una parte profonda di noi, che non si lascia incantare dalle nostre stesse chiacchiere, ci risponderà con durezza: «Ipocrita! Il bene che facevi agli altri, lo facevi perché non avevi il coraggio di farlo a te stesso».
Infatti, è più facile prendersi cura degli altri che di se stessi, perché gli altri si può sempre fingere di amarli, anche se non li si ama per davvero, mentre è quasi impossibile fingere con se stessi di amarsi, quando non ci si ama; in ogni caso, è molto più difficile che farlo credere al prossimo.
Ma che cosa vuol dire, alla fine, prendersi cura dell’altro, quando codesto “altro” è in una grave situazione di bisogno, di smarrimento, di abbandono? Se la sua situazione è veramente grave, allora bisogna impegnarsi per “salvarlo” fino allo stremo delle forze; e, così facendo, si viene dispensati dal dovere di rimanere sempre umani.
Avete mai notato quanto poca umanità ci sia nelle situazioni ospedaliere più difficili, dove si lotta letteralmente per strappare alla morte il paziente? Tutti, medici e infermieri, sono spasmodicamente impegnati a fare quello che deve essere fatto per salvare quella vita; e lo fanno come macchine, non come esseri umani. Questa non è una critica, è la realtà. Le macchine agiscono più in fretta, con più freddezza e con maggiore efficienza di un essere umano, per quanto quest’ultimo sia un bravo medico o un bravo infermiere.
E adesso proviamo a trasportare questa situazione nel contesto della relazione tra l’Eterna Infermiera e l’essere umano che ella ha deciso di salvare, di riscattare, di strappare agli artigli del Male, per donargli quasi una seconda vita. Quale obiettivo ammirevole! È chiaro che, se ci riesce, tutto le verrà perdonato: anche la mancanza di umanità con cui avrà agito; anche l’atteggiamento puramente meccanico; anche l’aver tenuto dentro di sé, ben chiuso a doppia mandata, il segreto del proprio cuore, delle proprie emozioni, dei propri sentimenti.
Non si chiede di mostrare emozioni e sentimenti a colui che sta lottando strenuamente per salvare una vita! E questo può anche far passare inosservato il fatto che, forse, non ci sono più emozioni e sentimenti da mostrare, perché il cuore è divenuto di pietra e la vita dell’anima si è rattrappita, anchilosata, completamente inaridita…
Ha scritto Olivier Cotinaud nel suo libro «Elementi di psicologia per l’infermiera» (titolo originale: «Elements de psychiologie pur l’infirmiere»; traduzione italiana di Marialusisa Cairssoni, Milano, Editrice Ancora, 1972, pp. 208, 209-10):

«Non abbiamo più tempo sufficiente per occuparci veramente dell’ammalato (contatto personale, conforto). Sovraccariche di lavoro, preoccupate soprattutto di effettuare le cure, non troviamo più i momenti necessari per parlare con lui. L’ammalato talvolta si rende conto di non essere considerato come persona umana, e tuttavia egli aspetta simpatia, conforto e non vuole essre curato da un robot (macchina che distribuisce le comprese). Da parte nostra, ci troviamo a disagio perché noi abbiamo scelto di curare l’uomo nella sua totalità.
Si ha talvolta l’imptre4ssionme che l’uomo sia messo a servizio della scienza  e della tecnica e ciò è per noi un motivo di conflitto interiore. […]
In questi reparti si verifica un processori disumanizzazione dei rapporti umani; la lotta per mantenere in vita questi malati richiede l’impegno di un grande numero di persone; le équipes sono numerose, i loro compiti spesso si intersecano. In un groviglio di fili elettrici, aiutanti e infermiere si incaricano ogni quarto d’ora di misurare il polso, la pressione arteriosa, le temperature, un drenaggio ogni mezz’ora;  mentre anestesisti e rianimatori cambiano continuamente il contenuto delle fleboclisi, gli specialisti  dell’E. E .G. aspettano il turno per le loro registrazioni Per evitare disagi e per assicurare un efficace lavoro  d’équipe è assolutamente necessario delimitare  i compiti di ciascuno;: ma non è molto semplice.
Il lavoro impone un ritmo di vita troppo rapido, troppo estenuante, perché ci si possa dedicare ad una altra attività  all’infuori di qualche svago più o meno passivo. L’amministrazione non ha seguito lo sviluppo della nostra professione e  non conosce per es. le nuove qualifiche professionali (aiuto anestesista, rianimatrice).
La tecnica e l’organizzazione dell’ospedale ignorano assai spesso la vita umana dell’infermiera, mentre desidereremmo che si tenesse conto  della vita personale di ognuno. Il lavoro è divenuto faticoso, esige una tensione psicologica più grande…»

Ebbene, le stesse identiche osservazioni che qui vengono fatte per le vere infermiere che lavorano in un vero complesso ospedaliero, si possono estendere alle persone, maschi e femmine, affette dalla sindrome dell’Eterna Infermiera;
Con una aggravante, però: che quest’ultima non solo ha poco tempo per ascoltare VERAMENTE  il suo protetto, dal momento che è troppo impegnata a cercare di salvarlo; ma ha anche pochissimo tempo, o forse non ne ha affatto, per parlare di se stessa, per aprirsi, per mostrarsi come realmente è e non come a tutti i costi vuole apparire agli altri.
Comodo, vero?
Con tutto quel daffare, con tutta quella responsabilità sulle spalle, con tutta quella fatica che si sta sobbarcando, l’Eterna Infermiera viene ad essere dispensata da ciò che, normalmente, costituisce la premessa di qualunque relazione umana che non voglia restare su un livello meramente superficiale: il fatto di mostrarsi, di confidarsi, di rivelare i propri pensieri intimi, le proprie speranze e anche le proprie debolezze ed i propri timori.
E, se è dispensata dal farlo con l’altro, a maggior ragione si sente dispensata dal farlo con il giudice più temuto ed esigente: se stessa.
Perciò possiamo dire che la sindrome dell’Eterna Infermiera è, fondamentalmente, una strategia per non doversi confrontare con se stessi, ciò che metterebbe in pericolo i propri deboli equilibri, la propria vacillante autostima, le proprie traballanti certezze; insomma è una strategia contro la fatica di adattarsi al cambiamento.
Ora, si dà il caso che la vita sia continuo cambiamento; per cui l’Eterna Infermiera è una persona che non vuole cambiare né adattarsi, che non vuole mettersi in discussione, che non vuole crescere; e non vuole farlo perché è piena di paura.
Da ciò deriva la priorità numero uno: vincere la paura, lasciarsi andare, essere finalmente se stessi...