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Il piacere di tiranneggiare l’altro nasce dalla insufficiente comprensione di se stessi

di Francesco Lamendola - 14/11/2011



Nelle relazioni sentimentali si nota, frequentemente, che uno dei due soggetti ama tiranneggiare l’altro; che ama, cioè, fargli pesare la propria superiorità, sia essa dell’intelligenza, della volontà o della sfera sessuale.
Vi è una indubbia componente di sadismo nell’esercizio di una tale tirannia, che consiste nel godimento prodotto dal vedere l’atro alla propria mercé, disposto a subire maltrattamenti e umiliazioni, pur di non perdere l’amato bene; anche se ad essa concorrono, o possono concorrere, anche altri fattori.
Naturalmente, perché qualcuno eserciti una qualche forma di sadismo sull’altro, bisogna che quest’ultimo sia disposto a calarsi nella parte del masochista; che è quanto dire che una dinamica basata sulle polarità della vittima e del carnefice è presente in molti rapporti di coppia - ed usiamo qui l’espressione “coppia” nel senso più ampio possibile, per indicare la relazione comunque esistente fra due individui che, in un modo o nell’altro, si cercano, sia pure in maniera inconsapevole o contraddittoria, o fra due individui nei quali uno cerca l’altro ed il secondo, pur non corrispondendo, è però lusingato quanto basta da non lasciarsi sfuggire l’occasione per esercitare una forma di dominio sul primo.
Quel che non è sempre così evidente come si potrebbe pensare, è chi tiranneggi chi: perché esistono varie maniere per esercitare sull’altro una tirannia e non sempre chi lo fa in modo palese è realmente l’elemento dominatore e tendenzialmente sadico della coppia, anche se tale può apparire ad uno sguardo superficiale; mentre non sempre chi sembra subire è la vera vittima.
Limitiamoci comunque, per adesso, al caso più semplice: quello in cui si vede bene chi svolga il ruolo del tiranno e chi quello della vittima; e proviamo a domandarci quale sia la motivazione profonda che spinge un essere umano, nel rapporto affettivo con i suoi simili, a cercare la propria soddisfazione nel far pesare il fatto essere più forte, di non temere l’abbandono, di mostrarsi sprezzante o indifferente o, comunque, di essere capace di prendere e di lasciare chi vuole, quando e come vuole, secondo il suo dispotico capriccio.
A nostro avviso, all’origine di un simile bisogno, se di un bisogno si tratta e non di un gioco (ma quando si gioca pesantemente e insistentemente sempre allo stesso modo, quello che viene messo in atto è ben più di un semplice gioco), è, in ultima analisi, una insufficiente comprensione di se stessi, perché dalla conoscenza e dalla comprensione di se stessi scaturisce anche un rapporto sano ed equilibrato con l’altro.
Ciò non significa che non vi saranno più malintesi, difficoltà e conflitti con l’altro (senza contare che il conflitto, giova ricordarlo, non è affatto una modalità di relazione intrinsecamente negativa); essi vi saranno ancora, molto probabilmente; ma la prospettiva sarà diversa: costruttiva e non più distruttiva; aperta e non più chiusa ed asfittica; elastica e non più rigida; disponibile alla discussione e all’autocritica e non più ferocemente autocentrata ed egoica.
Inoltre, le incomprensioni ed i conflitti non nasceranno più da una nostra contraddizione  interna, da un bisogno non riconosciuto, da una richiesta non consapevole, bensì dalla manifestazione di siffatte dinamiche da parte dell’altro; e, poiché la persona consapevole tende a scegliere con oculatezza le amicizie e le relazioni affettive, riconoscendo le persone che hanno sviluppato un analogo grado di consapevolezza, anche la probabilità di incorrere in gravi malintesi o in conflitti distruttivi e frustranti, verrà ridotta drasticamente.
Abbiamo detto che importante non è solo imparare a conoscersi, ma anche a comprendersi, perché la comprensione è una forma di consapevolezza superiore alla semplice conoscenza: conoscere (e conoscersi) è una forma di consapevolezza puramente teorica, mentre comprendere è il risultato di una consapevolezza più alta e più globale, che comprende la precedente, ma la supera, perché perviene ad una saggezza equanime e non giudicante.
Una persona, ad esempio, può arrivare a conoscere certe sue tendenze, certi impulsi, certi bisogni, che sono costituitivi della propria parte essenziale; ma, pur conoscendole, può non accettarle, oppure rifiutarsi di lavorare su di esse per armonizzarle con la propria vocazione profonda e con il senso della propria chiamata; mentre comprendere è arrivare fino alla radice della propria anima, e rendersi conto dei legami intimi e necessari che legano fra di loro le varie componenti della personalità, comprese quelle in apparenza più diverse contraddittorie.
Comprendersi, dunque, significa vedere la totalità della propria anima e, al tempo stesso, riconoscere i fili innumerevoli che ci legano al mondo esterno, sia nella dimensione visibile, sia in quella invisibile (per esempio, che ci legano ai nostri cari defunti, oppure ai ricordi ed ai luoghi amati dell’infanzia).
Conoscere è proprio dello scienziato; comprendere è proprio del filosofo, secondo la vecchia formula platonica: «Chi vede l’intero è filosofo e chi no, no»; perciò, per arrivare a una discreta comprensione di se stessi, bisognerebbe che tutti gli esseri umani si sforzassero di diventare almeno un po’ filosofi, uscendo dai limiti angusti del soggettivismo e del limitato punto di vista dell’ego, con il quale troppo spesso tendono a identificarsi.
Dunque: colui che, nel contesto di una relazione affettiva - sia essa esplicitata oppure no, sia durevole oppure effimera - prova il bisogno costante di tiranneggiare l’altro, di imporgli il proprio capriccio, di farlo soffrire con la propria voluta incostanza, alternando indifferenza e persino disprezzo a slanci improvvisi e atti o parole di dolcezza, soffre, sostanzialmente, di un conflitto irrisolto, o addirittura inconsapevole, con se stesso.
Detto in parole semplici: non sa chi egli stesso sia; non riesce né a conoscersi né, tanto meno, a comprendersi, e scarica sull’altro la propria frustrazione, la propria rabbia, la propria infelicità: ma, in fondo, chi vorrebbe maltrattare è se stesso, quella parte di sé che non conosce, che non comprende, che non accetta e che lo turba, lo inquieta, lo mette in crisi.
Dietro quanti comportamenti tirannici, e perfino sadici, nelle relazioni sentimentali, vi è, in realtà, una incapacità di affrontare se stessi, di chiarirsi con se stessi, di accettarsi, di perdonarsi, di volersi bene?
Un caso piuttosto tipico, anche se non certo unico, è quello dell’omosessuale latente, o anche conclamato, che, tuttavia, esita a fare chiarezza in se stesso e sfoga sull’altro, sia questi del sesso opposto oppure del proprio, quella carica di esasperazione che gli deriva dalla difficoltà, o piuttosto dall’impossibilità, di fare una scelta, di decidere cosa voglia essere e come voglia indirizzarsi sulle strade della vita.
Per fare un esempio concreto, riportiamo alcuni passaggi significativi dal diario di Vita Sackville-West pubblicati, dopo la sua morte, dal figlio di lei e di suo marito Harold (da: Nigel Nicolson, «Ritratto di un matrimonio»; titolo originale: «Portrait of a Marriage», 197; traduzione italiana di Pier Francesco Paolini, Rizzoli, Milano,  1974, pp. 32-44):

«Io avevo tredici anni, lei due di meno; ma, sul piano degli istinti, ne dimostrava sei di più. Mi sembra significativo, adesso, che conservi un ricordo sì distinto della prima volta che la vidi: ci incontrammo a un tea-party al capezzale d'un'amica comune che s'era rotta una gamba ; a un certo punto lei mi disse qualcosa a proposito dei fiori ch'erano in quella stanza; io non stavo a sentire; e così non le risposi. Lei se ne piccò: era già una bambina viziata. Da sua madre fece chiedere alla mia di mandarmi a merenda da lei. Ci andai. In una stanza in penombra ci mettemmo a parlare... dei nostri antenati, nientemeno... Composi una canzoncina quella sera: "Ho un'amica!". me ne ricordo benissimo. La cantai facendo il bagno.
Vorrei indugiare ancora su Violet - per dire quanto la ammirassi, in segreto, quanto andassi orgogliosa dell'amicizia d'una creatura così brillante, così straordinaria, quasi eterea, e quanto tuttavia la trattassi con costante disdegno, e fu l'unica mia astuzia, ché quel sagace comportamento la legò a me più di quanto non l'avrebbero conquistata atti e profferte di devozione - ma bisogna che prima racconti altre cose perché, se il presente è dominato da lei, Violet ricompare di continuo anche in quel tempo è passato. Indugerò solo a dire che, fin dal principio, mi sentii completamente sicura di lei: sarà stata elusiva, sarà stata sconcertante, sarà stata anche infedele ma nonostante tutto avevo, in fondo, la certezza insolente (però giustificata) del suo attaccamento per me. Ascoltavo certe storie sul suo conto con un sorriso di superiorità, come chi la sa più lunga. Avrei potuto restare dieci anni senza avere neanche sue notizie, ma al termine di quei dieci anni avrei serbata intatta la fiducia che noi due ci saremmo, ineluttabilmente, ritrovate. Non v'è ombra di esagerazione in queste mie parole... [...]
Prima di partire per Firenze, Violet mi disse che mi amava, e io - sentendomi in dovere di mostrarmi all'altezza della situazione - bofonchiai un impacciato "darling". Oh Dio, che buffo ricordo, quella prima dichiarazione, quel primo vezzeggiativo! Poi ci siamo riviste solo a Firenze. Qui lei mi donò un anello... Ce l'ho ancora, s'intende che ce l'ho, come ho LEI... E dovrei seppellire la faccia nelle mani per la vergogna, al ricordo della nostra reciproca passione infantile(troppo ardente, fin d'allora, per essere sentimentale) se non tornasse a giustificazione del presente. [...] legame che unisce me a Violet,e stringe Violet a me. E allora ci legava come adesso. Ma di che vincolo si tratti, Dio solo sa. Talvolta ho l'impressione che sia qualcosa di leggendario. Violet è MIA, mia è sempre stata, di qui non si scappa. Lo sapevo fin da allora, sia pure oscuramente, per tramite d'un tenace istinto di proprietà su di lei. Anche lei lo sapeva, in modo meno oscuro: e compì tutti gli atti più acconci a farmene rendere conto. Ch'io non assecondassi le sue mene - pure senza il timore di perderla, per vivace e orgogliosa che fosse - serve solo a dimostrare quanto ero sicura del mio potere su di lei. Ella era MIA: non v'è modo più enfatico né più esatto per esprimerlo, né intendo agghindare un fatto tanto elementare con giri e rigiri di parole. [...]
Andai a stare per un paio di giorni da Violet, fiera alquanto del mio lutto [per la morte del nonno materno]; e temo proprio che dimenticai, presso di lei, di essere dolente. Ho presenti parecchi particolari di quella visita: come Violet riempì di tuberose la mia stanza, come ci facemmo belle, com'essa m'inseguì brandendo uno spadino pei lunghi corridoi di quel vecchio castello scozzese [Duntreath]... E, dopo l'intensa giornata, trascorse tutta la notte nella mia camera da letto. Era la prima volta i vita mia che passai la notte con qualcuno, ma la cosa fu abbastanza decorosa, lo sa il cielo. Non dormimmo per niente, stemmo tutta la notte a parlare, mentre fuori stridevano le civette. Oggi, non posso udire una civetta senza che mi torni alla mente la soave presenza turbatrice di lei nella mia stanza, nel buio. [...]
Mi attraevano le donne. Mi attraeva Rosamund.  Ho già accennato a Rosamund: la ragazza linda e pinta che venne a giocare  con me quando Dada partì pel Sud Africa. Ebbene, era venuta a stare presso di noi a Montecarlo, invitata dalla mamma non da me; io non mi sarei mai sognata di invitare chicchessia a stare con me; neanche Violet aveva trascorso più d'una settimana a Knole; detestavo ogni invasione. Tuttavia, dal momento che Rosamund abitava presso di noi, era naturale che passassi con lei la più gran parte del tempo; e anche dopo il rientro a Londra, mi pare, seguitammo a frequentarci.  Non ricordo con molta chiarezza, qui, ma sta di fatto che, quell'estate [1911], eravamo inseparabili, e inoltre vivevamo nella maggior intimità possibile.  Ma voglio ripetere che la cosa cominciò in maniera più o meno innocente. Oh, mi rendevo vagamente conto che non era conveniente ch'io dormissi con Rosamund, fatto sta che mi davo premura di non farlo scoprire da nessuno, ma il mio senso di colpa non andava più oltre di là.
Comunque sia, ero molto innamorata di Rosamund. [...]
Odio scrivere questo ma devo, devo. All'inizio ho giurato di non sottacere nulla, e nulla eluderò. Ecco dunque la verità:  non sono mai stata tanto innamorata di Rosamund quanto durante quelle settimane in Italia  e nei mesi che seguirono [1912]. Avrei dovuto sentir più acutamente la mancanza di Harold, direte [cioè di Harold Nicolson, suo fidanzato, che avrebbe sposato poco dopo, nel 1913]. Ebbene sì, lo ammetto, a mio disdoro. Ma infine non ho mai asserito di essere men che vile, né di avere un carattere men che spregevole. Sembra ch’io sia incapace di fedeltà, tanto allora quanto adesso.  Ma, come sola giustificazione, separo i miei amori in due metà: da una parte il mio amore per Harold, ch’è perenne e inalterabile,  è la cosa migliore, e non v’è mai stato altro che purezza in questo mio sentimento, come non v’è mai stato altro che assoluta candidissima purezza nel suo spirito; e, dall’altra parte, v’è la mia natura perversa, che amò e tiranneggiò Rosamund, finendo per abbandonarla senza un palpito di rimorso, e che adesso è irrimediabilmente legata a Violet. Ho qui un foglietto su cui Violet, psicologa d’intuito, ha scritto una volta: la parete superiore del tuo volto è purissima e solenne - quasi infantile. E la parte inferiore è imperiosa, sensuale, quasi brutale. E ciò forma il più assurdo dei contrasti, e è straordinariamente emblematico della tua duplice personalità, alla dottor Jekyll e Mister Hyde”. Questo è il nocciolo della questione, e ben vedo adesso che la mia maledizione è in questo dualismo, contro cui per debolezza e intemperanza non ho saputo lottare.»

Innanzitutto bisogna osservare che, per quanto si tratti di un diario privato non destinato alla pubblicazione e nonostante in esso l’Autrice dica sovente di voler essere sincera con se stessa fino in fondo, a un lettore spassionato appare sin troppo evidente come ella, in realtà, sia rimasta parecchio al di qua della vera comprensione di sé, come appare evidente dal modo in cui racconta alcuni passaggi cruciali della sua “educazione sentimentale”.
Bisogna infatti osservare che anche il marito, Harold Nicolson, era un omosessuale convinto e che entrambi si sposarono unicamente per dare una facciata di rispettabilità alla propria condizione di “diversi”: lui come diplomatico del Regno Unito e lei come intellettuale e ambiziosa scrittrice; e il loro ménage era così libero e spregiudicato, beninteso con la discrezione delle classi alte inglesi, che non di rado la coppia conduceva vita in comune con gli amanti di lui e con le amanti di lei, in perfetta complicità e comprensione. E la stessa cosa farà la sua amante, Violet Keppel: si sposerà per convenienza con un certo Denys Trefusis e poi fuggirà con Vita; fino a quando i due mariti non verranno a riprendersi le rispettive consorti.
Questa chiarezza non traspare mai, perrò, dal diario, nel quale, al contrario, l’Autrice si profonde in continue dichiarazioni di amore per il marito, pur ammettendo di averlo amato più come una sorella e di aver preferito, da sempre, l’amore per le donne. Inoltre, anche quando parla di quest’ultimo aspetto, e specialmente della sua relazione con la donna della sua vita (almeno prima di Virginia Woolf), Violet Keppel, benché platealmente accusi se stessa di essere egoista, spregevole e perversa, non scende mai alla radice del suo comportamento: istintivamente si mette sempre in posa, come se volesse apparire grande anche nell’abiezione, ingigantendo, forse, i suoi stessi difetti, pur di rendersi interessante e sfuggendo sistematicamente davanti ai momenti della verità.
Per esempio, il lettore avrà notato quella espressione, «Dio solo sa», chiedendosi di che genere sia il vincolo che la univa a Violet; quasi si fosse trattato di un arcano umanamente incomprensibile, mentre lei lo sapeva benissimo, già per il semplice fatto di sapere che era attratta dalle donne e non solo in senso platonico, ma anche in senso fisico ed esplicitamente sessuale.
Così pure, il lettore avrà notato l’espressione «abbastanza decorosa», ipocritamente vittoriana, per indicare la prima notte passata insieme a letto con l’amante; o, ancora, come ella amasse Rosamund e passasse i giorni e le notti con lei, e questo proprio mentre si stava fidanzando con Harold (e scriveva alla madre di sentire disperatamente la mancanza dell’uno, salvo poi confidare al suo diario l’amore carnale per l’amica), usando tuttavia caute perifrasi, come «vivevamo nella maggiore intimità possibile», e premurandosi di aggiungere ch’ella, comunque, vagamente si rendeva conto della sconvenienza di dormire con l’amica (di dormire, non di fare all’amore: ma allora, a che scopo promettere a se stessa la massima sincerità?).
Al tempo stesso, si noti con quanto compiacimento, con quanta autentica voluttà, l’Autrice dica e scriva, con lo stampatello maiuscolo, di aver sempre saputo che Violet era SUA: vi è un senso di possesso inebriante in quel modo di esprimersi, come vi è nel mordere la carne della persona amata, per marchiarla selvaggiamente con un segno di proprietà.
E qui ci si avvicina al cuore del problema: perché in questa ebbrezza di dominio, coniugata con una sapientissima strategia a ciò finalizzata (fingere indifferenza quando, invece, si tiene moltissimo a quella certa persona, ma si intuisce che tale è la strada migliore per tenerla eternamente legata), traspare l’insicurezza di fondo dell’Autrice, la sua insufficiente comprensione di sé e delle proprie motivazioni.
Una persona che si accetta, che si vuole bene, che riesce a guardarsi dentro con lealtà e trasparenza, non ha bisogno di esercitare subdole strategie di dominio; non possiede, ancora adolescente, una così raffinata malizia; oppure, se anche è in grado di esercitarla, se ne astiene, perché gioca a carte scoperte, si mostra a sé e agli altri per quello che è, e non per quello che vorrebbe sembrare pur di essere amata, pur di essere sempre al centro di tutto.
Queste osservazioni non hanno lo scopo di giudicare, ma solo di mostrare quanto sia difficile la sincerità con se stessi, perfino quando si scrive ad anni di distanza dai fatti e perfino quando si scrive un diario privato, non immaginando che un giorno qualcuno lo leggerà, né che lo farà pubblicare (ma in Inghilterra c’è sempre qualcuno pronto a vendere a un editore le pagine più segrete dei propri amanti o dei propri parenti più stretti, come si è visto abbondantemente anche nel caso della principessa Diana), magari vantando il servizio reso alla verità e alla memoria del caro estinto.
Altro discorso, poi, è quel che va fatto allorché si ha il coraggio di guardarsi dentro con occhio limpido e non solo di conoscersi, ma anche di comprendersi.
Nel caso dell’omosessuale, ad esempio, accettarsi e volersi bene non significa, automaticamente, assecondare le proprie tendenze. Questa è cosa che spetta decidere ad una istanza più alta, la volontà, sorretta, a sua volta, dalla sfera dei principi e del rispetto dovuto a se stessi (che, come è noto, può essere interpretato secondo modalità contrastanti e perfino opposte).
In altre parole: quel che decidiamo di fare, allorché ci siamo visti, riconosciuti e compresi, dipende da ciò che consideriamo vero e falso, buono e cattivo, giusto e sbagliato, ossia dal nostro codice etico ed esistenziale; un codice, peraltro, che non possiamo forgiarci a nostro uso e consumo, secondo il nostro capriccio e la nostra convenienza, per scusare e giustificare tutte le nostre pigrizie, le nostre slealtà e le nostre vigliaccherie, ma che deve trovare riscontro in un mondo di valori oggettivi, nei quali siamo capaci di riconoscerci.
Una cosa è certa: chi sente l’impulso incoercibile di impostare le proprie relazioni affettive esercitando una qualche forma di tirannia sistematica sull’altro, è un soggetto che non ha mai saputo o voluto fare un po’ di chiarezza in se stesso; che non ha mai saputo comprendersi; che non è mai stato capace di ascoltarsi, di accettarsi e di amarsi.