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L’incanto del bosco in autunno celebra il perpetuo rinnovarsi della vita

di Francesco Lamendola - 15/11/2011



È possibile cogliere il momento preciso del cambio di stagione, ad esempio dall’estate all’autunno, passeggiando in un bosco e sentendo nell’aria qualcosa di nuovo e diverso, un profumo più intenso, un venticello più fresco, una sfumatura dorata nelle chiome degli alberi; e, più importante di tutto, un segnale interno, una sensazione non esprimibile in parole e concetti, e nondimeno più eloquente di qualunque segnale esterno proveniente dai sensi corporei?
È possibile non vedere o annusare o toccare, ma proprio SENTIRE, che la bella stagione è finita e che la natura si prepara ad accogliere un profondo cambiamento; è possibile sentirlo non da osservatori distaccati che si servono de logos razionale, ma come partecipi di quel presentimento e di quel cambiamento e perciò non dall’esterno, ma dall’interno della natura stessa, come parti viventi della natura, come molecole della grande vita universale?
Ed è possibile, analogamente, sentire quando una stagione della nostra vita è giunta alla fine, quando essa è arrivata ad una svolta e tutto il nostro essere si prepara ad accogliere in se stesso il cambiamento, a elaborarlo, a viverlo sino in fondo, irrevocabilmente: sia esso rappresentato da un amore che finisce, da una persona cara che se ne è andata, da un bambino che sta per nascere o da una consapevolezza nuova che è penetrata in noi e che non ci permette più di vedere il mondo come lo vedevamo prima, ma che ci ha donato un nuovo sguardo sulle cose?
La protagonista del romanzo di Barbara Kingsolver «Una magnifica estate» è una biologa quarantasettenne che da due anni vive praticamente da eremita, in qualità di guardia forestale, in una valle dei Monti Appalachi, dove è andata a seppellire un matrimonio fallito e una vita di rapporti sociali difficili e insoddisfacenti, per sprofondarsi nella vita del bosco, nell’osservazione delle specie da proteggere e nel mesto ricordo delle specie ormai estinte, come il lupo e il parrocchetto della Carolina.
Quando crede di aver raggiunto la perfetta indipendenza e la piena padronanza di sé, l’incontro con un cacciatore vagabondo, più giovane di lei di quasi vent’anni, e la breve ma intensa storia d’amore che vive con lui, l’aiutano a scoprire il senso di vuoto che aveva cercato di occultare a se stessa e le rivelano la gioia di una imminente maternità, che affronterà da sola, avendo deciso di non dire nulla al suo compagno occasionale che le ha ridato la gioia di vivere.
Così descrive lo splendore del primo annuncio di autunno, nel bosco, Barbara Kingsolver, nel suo romanzo (titolo originale: «Prodigal Summer», 2000; traduzione italiana di L. Colosio e S. Fornasiero, Milano, Sperling & Kupfer, 2001, pp. 386-87):

«Deanna avrebbe ricordato quel giorno per il resto della vita, e forse per quella successiva. Un’ondata di freddo  aveva riempito l’aria di un improvviso presagio d’autunno, un tocco pungente che percepiva con la pelle e con gli altri sensi  di recente tanto acuiti. Annusava e gustava  quel cambiamento, lo udiva persino. Gli uccelli si erano acquietati, la loro chiassosa celebrazione  del’estate era stata bruisca ente zittita dall’impeto  di un fronte freddo e dall’istinto che li spingeva  a restare immobili, raccolti., in attesa del momento ormai prossimo di trovare la rotta su una mappa di stelle  e unirsi al vasto popolo della migrazione. Deanna sui  aggrappò alla roccia sulla quale sedeva, sentendo nel petto la stessa agitazione, un senso di fine imminente  e il desiderio di volare,. S era rampicata  su un masso incrostato di licheni, una ventina di metri sopra il punto ne quale la strada terminava nel belvedere. Da quel luogo  abbracciava tutto con lo sguardo, la vallata della sua infanzia e, al di là, le montagne. Le sembrava che se si fosse alzata e avesse spalancato le braccia  si sarebbe potuta levare in volo, lasciando tutto quello che conosceva per entrare in un territorio nuovo.
Dai rami dietro di lei sentì un allegro gruppo di amiche  salutari con il richiamo universale: “ci ci ci”! Le cince, la sua famiglia. Deanna non sarebbe volata via; quel fremito era un’eredità dell’infanzia, quando l’arrivo dei primi freddi significava la stagione delle mele, il momento di andare a raccogliere le asinine nel bosco di Nannie. Nel giro di ventiquattro ore l’aria si era trasformata da umida in pungente.  La vite del Canada sulla parete della baita aveva cominciato a cambiare colore durante la notte; quella mattina aveva scoperto qualche fogli rosso vivo, che l’aveva spinta a fermarsi e registrare l’evento. Quello era, sarebbe sempre stato, il giorno nel quale per la prima volta aveva capito. In qualche modo sarebbe uscita dal regno spettrale dove aveva sempre abituato per dedicarsi in modo irrevocabile alla vita. Risalendo lo sterrato fino al belvedere,  non aveva quasi pensato alla tristezza delle cose perdute che si muovevano tra e foglie alle estremità del suo campo visivo, ai piccoli lupi e ai parrocchetti variopinti che saltellavano golosi tra le lappole intatte. Si erra lasciata per sempre alle spalle quelle creature estinte, e solo quel giorno, invece, aveva notato un’unica bacca scarlatta fra i grappoli ancora acerbi che ricoprivano gli arbusti di benzoino. Quel segno le era parso significativo e prodigioso, il confine fra due età della sua vita. Se a un certo punto l’estate doveva finire, perché non poteva farlo in quella bacca matura a lato della strada?
Estrasse dalla tasca posteriore uno specchietto che non le apparteneva - era quello che usava lui per radersi -  e si studiò il viso da vicino. Con la punta delle dita  della mano sinistr si toccò la pelle sotto gli occhi, appena segnata e più scura del solito. Sembrava la maschera di un procione ma meno evidente,  si estendeva dalla radice del naso all’estremità degli zigomi. Il resto del volto era come lo ricordava, immutato, se non intatto. I seni si erano ape sentiti; sentiva quel cambiamento dall’interno. Rivolse la faccia al sole e si sbottonò lentamente la camicia, posando le dita fantasma di lui al posto delle sue. Quel tocco sulla pelle sarebbe stato una mano che avrebbe potuto dispiegare  e indossare di nuovo con il potere della memoria. Su quella roccia al sole, lo lasciò entrare in lei come acqua; il ricordo del mattino appena trascorso, di quegli occhi nei suoi, i movimenti come la marea che sospinge le onde contro la sabbia del loro unico approdo. La gioia del suo corpo era ormai incupita dalla consapevolezza che ogni conversazione, ogni bacio, ogni piacevole avventura pelle contro pelle poteva essere l’ultima.  Tutte le immagini erano cristallizzate accanto alla loro ombra.  Anche il tepore di Eddie che dormiva al suo fianco, dopo, era un calore bruno scuro che accarezzava con le dita, memorizzandolo per i giorni in cui quel posto sarebbe stato freddo.»

Anche se le la critica letteraria, specialmente da noi, è generalmente molto severa con questo genere di letteratura “per signore”, il libro ha un suo fascino e anche una sua dignità, pur non sfuggendo a cliché che sconfinano nel kitsch e a facili stilemi di tipo giornalistico (per non parlare di un certo sottofondo culturale veterofemminista); nell’insieme, però, riesce a trasmettere con efficacia il sentimento centrale da cui è pervaso: il senso affascinante della continuità della vita, della perennità delle generazioni, del mistero della natura di cui l’uomo è parte e che dovrebbe tornare ad ascoltare con muta ammirazione.
Nel brano che abbiamo riportato le sensazioni di una giornata di fine estate che preannuncia bruscamente l’autunno, con quelle prime foglie rosse e quel brivido freddo che viene dal Nord, mentre gli uccelli si preparano alla loro migrazione stagionale, si fonde con le sensazioni interne della protagonista, che sente il mistero della nuova vita destarsi in fondo al proprio corpo e alla propria anima e si accinge ad accoglierlo con stupefatta riconoscenza; il tutto in un dolce abbandono e in una ebbrezza trepidante, che la fanno sentire in armoniosa sintonia con la grande vita del bosco di montagna.
Quella bacca rossa su bordo della strada che, rivelando il sopraggiungere della nuova stagione, sembra porsi al confine tra due fasi della vita della protagonista, la giovinezza “sterile” e la maturità inaspettatamente feconda, è un piccolo gioiello di sensibilità al femminile e possiede una evidenza plastica notevole, degna di una scrittura dalla vivace forza espressiva.
Se questo romanzo è un invito ai lettori affinché imparino a sentirsi parte della grande vita cosmica, ci sembra che esso meriti di essere mediato a fondo e che contenga una lezione non banale sul senso del nostro esserci.
Noi siamo veramente, quando siamo, sì, desti e consapevoli, ma anche, o meglio, appunto perché, ci rendiamo conto di non essere degli atomi solitari e gettati a caso nel mondo, ma scintille di un’unica luce, frammenti di una sola partitura musicale, la cui armonia e la cui perfezione non sarebbero tali senza di noi e senza ogni altra piccola nota che risuona nell’universo.
Perciò la risposta alla domanda che ci ponevamo all’inizio è affermativa: è possibile percepire il cambiamento, anzi, è possibile percepire che il cambiamento è l’essenza stessa della vita, che la vita è cambiamento continuo, sia pure rimescolando continuamente gli elementi base che sono presenti in noi fin dall’inizio; perché la natura aborre gli sprechi e tutto riutilizza, comprese le foglie che cadono in autunno e che vanno a fertilizzare il terreno del bosco.
Le piante e gli animali sentono l’avvicinarsi del cambiamento e vi si preparano, o spostandosi verso altri climi, oppure acconciandosi a un adattamento radicale, come la perdita delle foglie o come la caduta in letargo.
Solo gli uomini, straniati a se stessi da secoli e millenni di vita artificiale, hanno disimparato la semplice arte di percepire il cambiamento, anzi, pretendono di modificare i ritmi della natura mediante l’illuminazione artificiale che annulla il buio della notte,  l’introduzione dell’ora legale che vorrebbe alterare la distribuzione delle ore di luce, e così via. Ma la natura nulla sa di queste cose e continua tranquilla per la sua strada: a soffrirne è solo il nostro orologio interno, che disimpara perfino a indicarci l’ora in cui dormire e quella in cui mangiare.
E così come abbiamo disimparato a riconoscere i segni del cambiamento climatico e atmosferico, che i nostri nonni, invece, leggevano benissimo, analogamente stiamo disimparando a riconoscere i segni del cambiamento interno, sia esso di tipo fisiologico, come l’avvicinarsi di una malattia, oppure spirituale, come la fine di una fase della nostra vita e l’inizio di una nuova.
Molti di noi vagano nella terra di nessuno e non si rendono conto che stanno inutilmente indugiando e rimestando fra le ceneri di qualcosa che è finito, senza saper vedere i segni del nuovo che sarebbe lì, a portata di mano, ma che rimane, per essi, ostinatamente elusivo.
Dovremmo imparare ad ascoltarci meglio ed a recuperare la facoltà quasi dimenticata del nostro senso interno; dovremmo rimetterci in sintonia con la grande vita universale e ritrovare la capacità di sentire l’approssimarsi di una nuova fase della nostra vita, così come l’arrossarsi delle foglie di edera selvatica ci avvisa che l’autunno batte ormai alle porte.
Anche la nostra vita, come la vita della natura intorno a noi, è fatta di stagioni che si succedono l’una all’altra: noi, però, siamo gli unici abitanti della Terra che riescono perfino a non accorgersene e che si lasciano sorprendere dal cambiamento, senza aver preso le misure necessarie per affrontarlo in maniera adeguata.
È così, ad esempio, che noi incominciamo a percorrere nuove strade con gli strumenti vecchi, a misurarci con nuove situazioni servendoci di un modo di pensare superato; siamo sovente indietro rispetto a noi stessi, siamo in ritardo sui nostri stessi passi; crediamo di sapere tante cose, mentre sappiamo così poco di quello che avviene in noi.
Essere consapevoli delle stagioni interiori, essere desti e pronti ad accogliere il cambiamento che la vita incessantemente ci propone, significa maturare la nostra evoluzione spirituale e arricchirci delle esperienze passate, mano a mano che esse si depositano sul fondo della nostra anima, anziché rinnovare sempre le stesse dinamiche, gli stessi errori, le stesse illusioni.
Non è troppo tardi, neppure in età avanzata: l’importante è cominciare.
Scopriremo così che ogni stagione ha il suo fascino, il suo profumo, la sua sottile seduzione; e apprenderemo l’arte di invecchiare con animo sereno e con rispetto di noi stessi.
Nemmeno l’ultima stagione ci farà paura: impareremo a vederla non già come uno spettro spaventoso, ma come una porta amica, socchiusa sul mistero luminoso dell’Essere.