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Il dramma dell’uomo moderno fra angoscia e speranza nella narrativa di Adalbert Stifter

di Francesco Lamendola - 16/11/2011



Quello di Adalbert Stifter è un caso singolare e, al tempo stesso, emblematico dell’attuale conformismo, dell’attuale ignoranza, dell’attuale sciatteria della cosiddetta critica letteraria: è il nome di un grande scrittore che, tuttavia, i più non conoscono, specialmente fuori della sua patria; e, poiché la sua patria più non esiste, e forse non è mai esistita, è un nome che non dice nulla a nessuno, fuori che agli specialisti di filologia germanica.
Partiamo da quest’ultimo dato e proviamo a ricavarne qualche utile riflessione.
Stifter nasce a Oberplan, nella Selva Boema, nel 1805 e muore a Linz, suicida, nel 1868: è di lingua e di cultura tedesche, perché allora la Boemia era un paese bilingue; mentre, dopo il 1945, i vincitori lo hanno reso esclusivamente slavo, mediante una sistematica e spietata pulizia etnica, stile Saddam Hussein “avant la lettre”; inoltre è di religione cattolica, anzi, profondamente e fervidamente cattolico: il che lo rende inviso sia alla cultura protestante, sia alla ebraica (le altre due  culture allora presenti in Boemia) e ancor più, nei decenni successivi alla sua morte, alla cultura materialista, atea e “progressista” della tarda modernità, tanto nella versione marxista dei regimi filosovietici, quanto in quella liberaldemocratica uscita vittoriosa dalla Guerra Fredda.
La sua cura per lo stile, per la precisione linguistica, per le immagine chiare e terse come cristallo di rocca (quest’ultimo è anche il titolo della sua novella più celebre), unita al suo vivo senso pittorico (e da giovane era stato un valentissimo pittore), ne hanno fatto, agli occhi di quella tale critica che ci vede con un occhio solo, il tipico rappresentante dello stile Biedermeier, per giunta con l’aggravante di un tenace attaccamento a valori religiosi e morali “superati”.
Di fatto, Stifter, figlio di un umile tessitore e rimasto orfano all’età di soli dodici anni, si era formato, ricevendone una solida cultura classica, oltre che una precisa impronta spirituale, nel famoso convento benedettino di Kremsmünster, nell’Austria Superiore (anche se poi non aveva condotto a termine gli studi di giurisprudenza all’Università di Vienna, per irrequietezza di carattere ma anche per insofferenza verso il mondo istituzionalizzato); e all’ideale cristiano rimase sempre fedele, pur assistendo con sconcerto e angoscia al dilagare della modernità e di quella che Verga chiamerà «la fiumana del progresso».
Il mondo della storia incombe minaccioso sul destino dell’uomo, calpestando e cancellando quei valori spirituali nei quali Stifter si riconosce, sia pure senza clamore e senza presunzione; scrittore apparentemente minimalista, si rifugia nel mondo delle piccole cose, delle situazioni “normali”, scomponendole con rara sagacia psicologica e con profonda, sofferta partecipazione umana, quasi alla ricerca di una dimensione d’innocenza originaria.
È per questo che buona parte della sua narrativa ha come sfondo e, più ancora, come protagonista, una natura primordiale e affascinante, remota e favolosa.
In questo senso dicevamo che la patria di Stifter, forse, non è mai esistita: perché è una patria ideale e sognante, rarefatta come lo sono le cime delle montagne perdute nella nebbia e simili a un miraggio; una patria, inoltre, doppiamente cancellata dalla storia: perché i Sudeti “nazisti” sono stati puniti, dopo la seconda guerra mondiale, con l’espulsione dalla loro paria secolare e perché quella Europa favolosa e suggestiva, con le foreste popolate di lupi e di cervi, con i villaggi e le case di tronchi d’albero e con gli alti campanili in cima alla collina, quella Europa ancora ricca di spiritualità e di tradizioni rurali, è stata spazzata via dalle autostrade e dai centri commerciali, dagli aeroporti e dal turismo di massa.
Un altro rifugio della narrativa di Stifter è l’infanzia: pochi scrittori hanno saputo trattare con maggiore candore e delicatezza questa età magica per eccellenza, con commozione priva di sdolcinatezza, con intima partecipazione lirica e quasi con un senso di stupefazione.
E così avviene in «Cristallo di rocca»: i due fratellini Konrad e Sanna si smarriscono nei boschi, la vigilia di Natale, nel ritorno dalla casa dei nonni a quella dei genitori; e si salvano dalla morte per assideramento, rifugiandosi in una stupenda grotta di ghiaccio dai riflessi azzurrini e scaldandosi con la bevanda preparata dalla loro nonna: il tutto in una atmosfera fiabesca e atemporale che non ha nulla di artificioso, ma che sembra quasi presagire lo smarrimento dell’uomo moderno davanti all’avanzare di forze disumane e incontrollabili.
Stifter è uno scrittore denso, pensoso, schivo - si direbbe - dei suoi stessi pensieri; non ama le effusioni sentimentali, cerca la parola nitida e chiara; ma è uno scrittore attanagliato dal dramma dell’uomo moderno, sempre più intimamente lacerato, sempre più incapace di scorgere un significato nel reale e nel suo stesso esserci.
E tuttavia è, a suo modo, anche uno scrittore di speranza, perché il suo vivo senso morale non gi consente di indugiare in alcuna forma di compiacimento davanti allo spettacolo del male, ma lo spinge, anzi, a cercare sempre le vie del bene, per quanto esse appaiano misteriose e, talvolta, difficilmente riconoscibili e ancor più difficilmente percorribili.
Tenuto conto di questa posizione particolare e minoritaria rispetto agli indirizzi del suo tempo, possiamo accostarlo allo svizzero tedesco Gottfried Keller nella tendenza del “realismo poetico”, che non va confuso con il realismo verista, a base positivista e pragmatica.
La scissione dell’io, l’abbandono e lo sconforto dell’uomo moderno davanti a un Dio ormai inattingibile e ad una natura bella, ma gelidamente lontana e indifferente, emergono, forse con qualche forzatura, dal pur penetrante profilo che dello scrittore austriaco ha tracciato Giorgio Cusatelli (in: «Enciclopedia Europea», Garzanti, Milano, 1980, vol. 10, p. 991):

«…La storia della vocazione letteraria di Stifter risulta […] complicata e ambigua, sia perché essa si sviluppò parallelamente a un precoce interesse per la pittura (in realtà, certi suoi quadri di paesaggio non restano troppo inferiori ai nevritici e insondabili prototipi di un C. D. Friedrich), sia perché incontrò a più riprese, e anche oggi, dure resistenze da parte della critica.  Ma l’autenticità del lavoro di Questo minuzioso cronista dell’anima della vecchia Austria non può, comunque, essere contestata, e di lui rimangono pagine altissime, non sol per il magistero stilistico, ma anche e specialmente per la generosa profusione di energia psichica e di slancio morale, Concentratosi, dopo svogliati tentativi poetici, nella narrativa, Stifter trovò il suo campo espressivo peculiare, più circoscritto e quindi assolutamente essenziale, della novella, d cui diede, almeno nell’abito austriaco, forse i maggiori risultati del secolo: la raccolta “Studi” [“Studien”, 1844-50] offre – dal “Condor” ad “Abdia”, da “Brigitta” allo “Scapolo” e Al “Sentiero nel bosco” – esempi d’introspezione nel vuoto esistenziale e di indagine naturalistica, che mettono a fuoco, nel modo più tipico, la crisi della generazione del Biedermeier e l’irreversibile frantumazione, sul piano individuale, do un io romantico ormai incapace di sostenere lo scontro con una realtà deviata dai remoti canoni religiosi e rituali; mentre le successive “Pietre policrome” [“Bunte Steine”, 1853] - come “Granito”, “Calcare”, “Tormalina” “Mica” e il celebre “Cristallo di rocca” – danno risalto ancora più sintomatico, per il fatto di rivolgersi all’apparentemente indenne e incontaminato mondo dell’infanzia, ai temi della frustrazione e della solitudine. Quanto ai romanzi - Stifter diede “L’estate d San Martino” [“Der Nachsommer, 1857] e “Witiko” 1865-67: episodio della storia boema), oltre all’incompiuto “La cartella del mio bisnonno” [“Die Mappe meiners Urgrossvaters”, da una novella del 1841] merita rilievo in essi una latente insofferenza verso l’organicità dell’intreccio, che viene sentita come necessità estranea rispetto all’urgenza della codificazione stilistica nei termini più concisi possibili, del dolore di vivere.
La discussione, anche recentemente riemersa, circa la portata storico-politica dell’opera di Stifter, perde rilievo a confronto con le volizioni utopiche e le parallele rassegnazioni che effettivamente la dominano. Stifter non tanto depreca l’involuzione dell’ethos giuseppino cui ideologicamente restava legato dalla formazione giovanile, quanto testimonia quella “perdita del centro” ripetutamente simboleggiata, nei suoi scritti, dall’eclissi solare (osservata l’8 luglio 1842), dal buio del bosco, dallo sfingeo candore delle montagne coperte di neve; “splendido” e “spaventoso” diventano per lui sinonimi, giacché, di fronte allo spettacolo naturale, egli è costretto a constatare come l’indifferenza del mondi inanimato e perenne, del cosmo, confuti qualsiasi progetto e modalità del convivere umano; e contemporaneamente deve prendere atto della fuga dell’idealità  etico-estetica dalla grigia dimora degli uomini, verso regioni ormai inattingibili. Infranto il valore religioso, il ciclo dalla vita alla morte e dalla morte alla vita, non gli appare più percorribile: l’atomo che porta il suo nome rimane “sospeso” su una soglia invisibile. Ecco la spiegazione, anche stiorico-letteraria, del suo stile: realismo come percezione tattile, esatta sino allo spasimo, della superficie di un involucro, il mondo, dal quale il contenuto essenziale, lo spirito, è irrevocabilmente esalato. Ecco perché si sono citare, per lui, Kierkegaard e Nietzsche: riferimento in certa misura legittimo, e anche utile, purché non si dimentichi che la storia di Stifter è, rispetto a quelle, ben più “privata”, aliena da formulazioni ideologiche; ben più “solitaria”, quasi senza senso o scopo, non adottabile né giudicabile su metri comunque concordati. Un esempio, drastico e sconcertante, di utenza personale del fatto letterario; un annuncio dei grandi “silenzi” che insceneranno, nello stesso paese, Kafka e Musil.»

Abbiamo parlato di qualche forzatura: perché, se il quadro d’insieme appare accettabile, ci sembra che il germanista Cusatelli abbia eccessivamente enfatizzato la dimensione angosciosa, straniante e pirandelliana della scrittura di Stifter, arruolandolo, addirittura, fra i precursori di Kafka e Musil, il che è un po’ troppo per uno scrittore così schiettamente religioso.
In realtà, la difficoltà del credere è, in Stifter, paragonabile a quella di Dostojevskij: egli sa, sente, che l’unica certezza cui l’uomo può ancora aggrapparsi è il cristianesimo; però misura lucidamente anche la difficoltà, se non l’impossibilità, di un ritorno al passato: e, in questo senso, appare anche lontano parente, un parente giunto in anticipo, dei nostri scapigliati.
Stifter avverte profondamente il disagio e lo spaesamento della modernità e ne è sgomento; non riesce però a ritrovare le salde certezze del mondo pre-moderno e inoltre, chiuso e introverso per temperamento, non cerca nemmeno di uscire dall’ambito della dimensione privata, anche se tratta quest’ultima con tutta la profondità e la delicatezza di un vero scrittore, cioè riuscendo sempre a sublimare e universalizzare la propria percezione del reale; un po’ come faranno, sia pure con altri presupposti e in una diversa prospettiva, Anton Cechov o Valentin Petrovic Kataev.
Non è giusto farne un precursore di Kafka, perché il suo silenzio appartiene a un altro ordine di temperie spirituale: non è il silenzio di un mondo incomprensibile o di una vita fattasi ormai impercorribile, ma quello di un viandante solitario che cerca la propria strada e che, sia pure con timore e tremore - giusto l’accostamento a  Kiekegaard, più che a Nietzsche - avanza in direzione della luce o, quanto meno, di quella che gli appare essere la luce.
C’è un episodio emblematico nella vita di Stifter, amante della natura e suo sensibilissimo interprete: l’eclissi di Sole dell’8 luglio 1842, sulla quale egli stesso scrisse e pubblicò un saggio didattico-scientifico e che è stata interpretata simbolicamente come l’eclissi del divino nel mondo moderno e desacralizzato.
Ma non è corretto fare di questo scrittore d’una patria lontana, in questo cantore della nostalgia dell’infinito, uno sconsolato testimone del tramonto della fede e quasi un araldo del pessimismo e del nichilismo contemporanei.
Certo, egli sente che un mondo sta arrivando alla fine: ma non è tanto quello della vecchia Austria e nemmeno il mondo della tradizione, che, nell’Europa centro-orientale, era sopravvissuto, in parte almeno, all’urto dell’industrializzazione e della società di massa, giungendo fino alle soglie del Novecento; bensì il mondo della patria interiore, del centro esistenziale, dell’unità del’io.
Non si può dire, tuttavia, che egli disperi di una possibile salvezza: proprio nel suo senso della trascendenza, nel suo non identificarsi pienamente con alcuna dimensione storica contingente, nel suo esigente riferimento al mondo dei valori, sta, forse, l’attesa di una nuova alba che nascerà..