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Passeggiando in riva al fiume, nella luce fastosa d’un pomeriggio novembrino

di Francesco Lamendola - 21/11/2011







Nonostante la stagione già molto inoltrata, la maggior parte degli alberi ha conservato ancora gran parte delle chiome che, nel pomeriggio soleggiato di novembre, si accendono dei colori incantevoli dell’autunno.
Predominano i gialli e gli aranci, ma non mancano i bruni e i rossi; e, accanto ad essi, non solo nelle piante a foglie perenni, ma anche in molte latifoglie, numerose sfumature di verde: come se l’estate, quest’anno, non sapesse decidersi alla partenza.
A terra, comunque, giace una quantità imponente di fogliame caduto: parte da poco, ancora crocchiante sotto le suole delle scarpe, parte da diversi giorni o settimane, e allora produce un suono sordo e ovattato, come se si camminasse su un terreno spugnoso.
È un colpo d’occhio magnifico: l’ampio sentiero si apre, come le quinte di un teatro sontuoso, in un trionfo di colori caldi, affascinanti, dolcissimi; il cielo è tutto azzurro, appena solcato da qualche nuvoletta bianca; la temperatura, fredda al mattino, è ora insolitamente mite, quasi calda; e, sopra la testa, la volta delle chiome ancora ricche, ma screziate di tonalità luminose e diversificate: tutto questo infonde nell’anima un sentimento di armonia, di bellezza, di pace.
Non manca neppure la musica: la musica dell’acqua, la musica del fiume che scorre incassato negli argini, pochi giorni fa ancora livido e rabbioso, ora nuovamente terso e coloro verde-azzurro, ma pur sempre gonfio d’acqua, possente, veloce.
Ad ogni cascatella, ad ogni salto, la sua voce si fa più solenne: milioni di metri cubi d’acqua scorrono senza fermarsi notte e giorno, dalla sorgente ai piedi delle montagne vicine, diretti verso il fiume principale che si snoda più a valle, nel quale si getteranno e insieme al quale defluiranno, più lenti e maestosi, fino al mare.
Piccole formazioni di anatre nuotano presso la riva, descrivendo scie delicate sulla superficie e cerchi perfetti che scompaiono mano a mano che si allargano, e intanto si lanciano il loro richiamo; in alto, ogni tanto, si leva uno stormo fitto di uccelli migratori, che si apprestano alla partenza e rigano il cielo con le loro sagome scure, vividamente stagliate nell’aria.
Scendendo verso la sponda del fiume, in mezzo alla macchia degli ornielli, dei salici bianchi, dei pioppi tremoli, delle robinie e dei noccioli, il sole si vela e si nasconde fra i rami, per poi riapparire e sparire di nuovo, in un gioco fantasmagorico di luci ed ombre, simile ad una fanciulla scherzosa che si mostra e poi si occulta, per invitare ad inseguirla, a cercarla.
L’edera selvatica si arrampica e si avvolge intorno ai tronchi fin quasi a celare la corteccia e ciò conferisce alla vegetazione una nota strana e un po’ malinconica, che addensa e raddoppia le ombre, celando alla vista i recessi più umidi e scuri, gli anfratti più ripidi sul bordo dell’argine; se non fosse per il silenzio degli uccelli, si stenterebbe a credere, in tutta questo rigoglio di verde, che è arrivata ormai la fine di novembre.
L’acqua corre sui sassi come un vetro sfaccettato e terso, urtando gli argini con un mormorio vivace, con uno sciacquio poderoso, pieno di forza giovanile: è un piccolo fiume, ma grande abbastanza da incutere una certa soggezione, come è giusto che avvenga nel rapporto fra uomo e natura: non si può prenderlo sotto gamba, tentare di attraversarlo ora sarebbe molto pericoloso, anche non tenendo conto della temperatura gelida dell’acqua; potrebbe rovesciare e trascinar via, come un fuscello, anche un esperto nuotatore.
I filari dei vigneti ormai spogli, sulla sponda opposta, luccicano al sole nelle loro foglie grandi, nei tralci non ancora potati, nel ricordo della vendemmia che solo poche settimane prima li riempiva di colori e di animazione.

*   *   *
È uno spettacolo sempre nuovo e affascinante osservare la corsa dell’acqua fra le due alte sponde e il gioco incessante delle linee e delle scaglie di luce che si formano, s’intrecciano e si rincorrono, sempre uguali e sempre diverse, in un movimento così uniforme che suggerisce, a un certo punto, la sensazione della più completa immobilità.
Ed è sempre una musica commovente quella dell’acqua che fluisce, sovrastando ogni cosa e creando una atmosfera tutta particolare, che regna incontrastata a pochi passi dalla riva, per poi dissiparsi quando ci si allontana anche solo di qualche metro: è come se qui, in riva al fiume, la maestà della natura si rivelasse in tutta la sua forza; anche sulle rive di un piccolo fiume come questo, che, per la maggior parte dell’anno, non fa paura a nessuno.
Qui, se si vuol parlare, bisogna alzare la voce, oppure comunicare a gesti; ma meglio di tutto è tacere ed accogliere una piccola lezione di umiltà: è giusto lasciare che sia lei a parlare, la natura, e ricordarsi, una volta tanto, che è lei la sovrana del regno di cui noi, invece, siamo soltanto degli ospiti provvisori.
I piccoli frangenti e i mulinelli formati dall’acqua, allorché essa incontra, nella sua corsa, qualche roccia più grande o qualche avvallamento del greto, offrono all’udito un concerto particolare e sono, per la vista, uno spettacolo straordinario, che non ci si stancherebbe mai di contemplare e che, dopo un poco, ipnotizza letteralmente l’osservatore.
Dopo qualche minuto che ci si concentra su di essi, sembra che l’acqua, misteriosamente, incominci a scorrere all’incontrario; sembra che le particelle di spuma si mettano a danzare come se fossero proiettate fuori dallo spazio e dal tempo: una danza cosmica, irrefrenabile, eterna, attorno alla quale ogni altra cosa appare come afferrata e sospesa in un incantesimo.
L’insieme delle forti sensazioni visive e uditive, il mulinare sempre uguale dell’acqua e lo scrosciare ininterrotto di essa, che sovrasta ogni alto suono, hanno l’effetto di rapire chi guarda in una dimensione insolita e remota, alla quale non ci si può sottrarre, se non con uno sforzo brusco della volontà, quasi si dovesse rompere un malioso sortilegio.
Eppure in quei momenti, che potrebbero essere istanti oppure ore - impossibile dirlo con certezza -, ci si sente stranamente liberati dalle catene della contingenza, ci si sente risucchiati fuori dalla sfera del contingente, in un altrove misterioso e remoto: come quando si varca per caso una soglia che, ordinariamente, è chiusa e dietro la quale vige un diverso ordine di cose, proprio come nel mondo dietro lo specchio in cui entra ignara, un bel giorno, Alice.
Intanto il sole ha incominciato a scendere e in pochi minuti le prime ombre del tramonto si allungano sulla campagna, mentre le scaglie di luce si spengono una dopo l’altra, come le stelle all’alba, sulla superficie fluente dell’acqua.
Ora l’umidità della sera si leva dal fiume e tinge di una sfumatura più cupa gli argini e le chiome degli alberi; fra poco una leggera nebbiolina salirà dalla superficie dell’acqua e questo piccolo mondo a parte sfuggirà alla vista degli uomini, raccogliendosi su se stesso come in preghiera, assorto nel mistero della notte che s’avvicina.

*   *   *
Tuttavia basta lasciare la sponda, risalire l’argine e ritornare sul sentiero per ritrovare ancora la luce e il cielo azzurro; ma ancora per poco.
Il sole, che prima brillava alto sopra le chiome degli alberi, adesso scivola sotto le loro cime e talvolta si eclissa dietro la palizzata dei tronchi, incendiandone il profilo con le rosse tonalità del crepuscolo.
È un cammino fastoso, quello che accompagna il sentiero sull’argine fitto di vegetazione, con il sole che sembra accompagnare i passi del viandante e che scende sempre più in basso, come se fosse impaziente di coricarsi.
Sembra di procedere fra la terra e il cielo, in una sorta di zona di nessuno, dove la linea degli argini che corrono paralleli offre una via sospesa nell’aria azzurra che gradualmente s’incupisce, e porta con sé la nostalgia dell’infinito, del silenzio, della pace.
A un certo punto il disco grande, bianco del sole - bianco, non giallo - sfiora i pampini del vigneto e, dopo aver accompagnato per un altro poco i passi del viandante, vi s’immerge in tutta la sua maestà, indugiando visibilmente prima di scomparire.
Eccolo, è lì: immerso per metà, ma ancora luminoso; e un momento dopo non c’è più, benché il sentiero sia ancora chiaro come non se ne fosse andato, per un fenomeno di rifrazione della luce che prolunga l’illusione del giorno, mentre la notte sta già per avanzare.
Le chiome degli alberi, da giallo-arancio, si fanno brune; i rami del salice piangente sembrano di colpo più malinconici e par che porgano l’ultimo saluto alla luce che svanisce, mente un cane abbaia in lontananza.
Il cielo a occidente, adesso, è tutto una profusione di porpora, di arancio e di giallo, con delle sfumature verde-azzurre; le montagne e le colline sembrano inchinarsi e quasi trattenere il fiato davanti allo spettacolo di tanta bellezza, mentre il pianeta Venere si accende lassù in alto, come la più luminosa delle stelle.
È l’ora dei pensieri, dei ricordi, della nostalgia.
Lampi di luce si riflettono sui vetri delle finestre, mentre il muro bianco del cimitero, in cima alla collina, si staglia nell’ombra silente della sera.
La chiesa solitaria, che sorge ai piedi dell’antica torre, è come un’isola di pietra che s’immerge lentamente nel crepuscolo, la porta socchiusa.
All’interno, gli ultimi riflessi del tramonto si posano sui finestroni della controfacciata e diffondono una debole luminosità nella navata, scandita dal ritmo delle agili colonne.
In questa oasi di pace, di silenzio, di penombra, non si ode il più piccolo rumore, tranne il palpitare della fiamma su due candele ormai quasi consumate, davanti all’altare.
San Giorgio, sul suo cavallo scalpitante, brandisce la lancia negli ultimi guizzi della luce morente, verso un nemico non umano che già non si distingue più, inghiottito dall’ombra che ha invaso, di colpo, il presbiterio.
I banchi vuoti, le pitture mute, le due fiammelle crepitanti nell’edificio vuoto: ogni cosa sembra in attesa di un evento misterioso e pure in qualche modo atteso, annunciato.
Fuori, il cielo è tutto giallo e porpora e in basso, nella valle, brillano decine di piccole luci, sparse nella vasta campagna.
L’aria si è fatta fresca e frizzante; tra meno di un’ora sarà buio del tutto e comincerà a far freddo: stanotte, certamente, ghiaccerà.
È bello respirare a pieni polmoni, sotto questo cielo immenso, davanti a queste colline che scivolano tranquillamente nell’ombra della notte.
La strada ormai si distingue a malapena, incassata come una galleria che corre fra due fantastiche muraglie di vegetazione; festoni di piante rampicanti scendono dai rami degli alberi, simili alle barbe solenni di antichissimi seniori.
Una quiete profonda scende sulla campagna, avvolgendola delicatamente.
L’ultimo debolissimo chiarore si è spento laggiù, in direzione del fiume, mentre nel cielo sereno cominciano a brillare centinaia di stelle.
Da una siepe di lavanda si spande un profumo intenso, familiare.
Il vento si leva dalle pieghe della sera e sfiora il viso con mano vigorosa.
Una bella giornata di novembre è giunta al termine, lasciandosi dietro quasi un aroma di cose buone e dimenticate.
Domani sarà un altro giorno.
L’anima si raccoglie in se stessa, medita e sorride.