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Tel Aviv bussa a denari

di Mario Braconi - 21/11/2011

  


Come noto, al Governo israeliano non è andato giù il successo palestinese all’UNESCO, che ha riconosciuto la Palestina come suo stato membro. La punizione collettiva messa in atto da Netanyahu nei confronti dei riottosi palestinesi è stata quella di “congelare” i trasferimenti finanziari all’Autorità Palestinese (i dazi sulle merci destinate ai Territori sdoganate presso i porti isrealiani). Anche se la mancata revoca dell’iniquo provvedimento è un tentativo di dissuadere Abbas dal suo tentativo di ricucire con Hamas: o forse no?

Secondo una stima del Financial Times (FT), la somma che Israele si rifiuta di pagare ai Palestinesi è di circa 100 milioni di dollari americani (circa 73 milioni di euro) e rappresenta due terzi delle fonti di finanziamento dell’Autorità Palestinese ma quasi la metà delle sue uscite complessive.

Queste proporzioni spiegano in modo eloquente lo stato delle finanze dell’Autorità Palestinese che, anche anche in condizioni normali, per sopravvivere non può fare altro che ritardare i pagamenti e  ricorrere al credito bancario. Con un debito bancario di circa un miliardo di dollari (730 milioni di euro) ed uno scaduto commerciale di 500 milioni (365 milioni di euro), l’Autorità è prossima alla bancarotta.

Poiché circa il 60% del bilancio della ANP è rappresentato dagli stipendi dei suoi dipendenti, continuando a non pagare le somme dovute ai palestinesi Israele sta mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’Autorità, come ha dichiarato un suo portavoce Ghassan Khatib. Secondo alcuni diplomatici sentiti dal FT l’altro ieri, il governo israeliano sta scherzando con il fuoco: “E’ possibile che l’Autorità riesca a tirare avanti ancora un po’, ma c’è la prospettiva concreta che una parte o l’altra facciano un errore di valutazione che potrebbe condurre ad uno scenario ideale solo per gli estremisti”.

Una ANP azzoppata dall’incapacità di pagare gli stipendi e di erogare servizi ai cittadini è una mina innescata: la rabbia e la frustrazione della popolazione palestinese, oltre a mettere a rischio la tanto sbandierata sicurezza di Israele, potrebbe infatti condurre perfino ad una sommossa palestinese e al conseguente rovesciamento dell’attuale leadership.

Non è un mistero, del resto, che l’obiettivo finale di alcuni importanti ministri israeliani sia esattamente disarcionare Abu Mazen. Avigdor Lieberman lo ha anche dichiarato pubblicamente non più tardi di qualche settimana fa: “Qualsiasi rimpiazzo sarebbe meglio di Mahmoud Abbas”. Il FT ascrive anche il ministro delle Finanze israeliano Yuval Steinitz al gruppo di “strateghi” israeliani convinti che ficcare le mani nel portafoglio dei palestinesi sia un’iniziativa politicamente proficua, oltre che moralmente accettabile.

Sembra sia quella di Steinitz la firma sotto la precedente iniziativa dello stesso tipo, messa in atto a maggio. In quel caso il governo israeliano intendeva censurare l’abbozzo di accordo tra Al Fatah e Hamas, che prevedeva la formazione di un governo tecnico unitario su West Bank e Gaza, e nuove elezioni entro un anno.

Se l’obiettivo israeliano era quello di mettere in difficoltà la possibile riconciliazione tra i due gruppi palestinesi al potere a West Bank e Gaza, si può dire che anch’esso è fallito. Mercoledì, infatti, nel corso di una commemorazione di Arafat a Ramallah, il presidente Mahmoud Abbas ha annunciato che il 23 novembre incontrerà il leader di Hamas Khaled Meshaal, sei anni dopo la cacciata di Al Fatah da Gaza. L’incontro si svolgerà al Cairo: la negoziazione è stata infatti condotta, almeno nelle ultime settimane, da Nader al-Assar, ex console egiziano in Israele, nonché artefice dell’operazione Shalit.

E’ praticamente certo che il potenziale futuro governo di transizione vedrà la defenestrazione dell’attuale primo ministro di Al Fatah, Salam Fayyad, inviso ad Hamas. Abbas finora non si era piegato alle pressioni di Gaza, e aveva mantenuto Fayyad nel suo ufficio, dal momento che è figura ben vista dagli americani e in generale dalla comunità internazionale, ovvero da coloro che pagano il denaro necessario al funzionamento della macchina amministrativa di West Gaza.

Ora lo scenario è cambiato: con gli Stati Uniti che fanno il broncio a causa della corsa di Abbas all’ONU per il riconoscimento dello stato palestinese (pur se in forma diluita) e con i falchi israeliani intenzionati a non mollare nemmeno mezzo shekel ai suoi connazionali, Abbas ha compreso che silurare Fayyad non è più un vero problema. L’abbraccio (soffocante) con i rivali di Gaza è ovviamente una mossa rischiosa per la causa palestinese, se non altro perché non solo gli USA e Israele, ma anche l’Unione Europea la considerano Hamas un’organizzazione terrorista.

Che però si presenta obiettivamente con il vento in poppa: non solo perché politicamente rafforzata dal risultato inusitato dello scambio di prigionieri del caso Shalit. Hamas può beneficiare della revanche islamista, unico risultato certo delle ex primavere arabe, nonché dell’apparente decisione di Abu Mazen di ritirarsi a vita privata. L’unico candidato che potrebbe succedergli, Barghouti, è infatti in un carcere israeliano (e ci rimarrà, per una precisa scelta del governo, che ha escluso il suo nome dalla lista dei prigionieri da scambiare con Shalit). Dunque comincia a dare i suoi frutti il sistematico lavorio israeliano il cui obiettivo finale è delegittimare completamente la fazione palestinese potenzialmente più disponibile ad un dialogo, in modo tale da creare anche a West Bank uno scenario simile a quello inveratosi a Gaza.