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Nietzsche è un socialista che non sa di esserlo? Ma via, siamo seri…

di Francesco Lamendola - 22/11/2011




Povero Nietzsche, anche questa doveva capitargli.

Come se non fosse bastato l’uso e l’abuso che, delle sue dottrine, ha fatto l’ideologia nazista, complice la tendenziosa rivisitazione delle sue carte da parte della sorella Elisabeth, ci voleva pure l’arruolamento coatto “a posteriori” da parte degli intellettuali “progressisti” e “rivoluzionari” e, in particolare, del padre del “pensiero debole” nostrano, Gianni Vattimo.

Vattimo trovava scandaloso che nazismo e fascismo si fossero “impossessati” del pensiero del filosofo tedesco (e già la totale mancanza di distinzione tra nazismo e fascismo la dice lunga sul grado di obiettività storico-filosofica che da lui ci si può aspettare); ma, curiosamente, non era nemmeno sfiorato dal pensiero di compiere, egli stesso, una operazione altrettanto improponibile, altrettanto tendenziosa, altrettanto scorretta.

E non lo era perché, quando si accingeva a rivisitare la filosofia di Nietzsche in chiave di sinistra, correvano i “Settanta ruggenti” e pareva che il mondo intero dovesse correre, per una fatale necessità storica, verso il Sol dell’avvenire (e con la parola “avvenire”, riferita al problema della rivoluzione antiborghese, si chiudeva teatralmente il suo saggio «Il soggetto e la maschera», sul quale una generazione di studenti universitari, ivi compreso lo scrivente, ha avuto la ventura di doversi preparare agli esami di storia della filosofia moderna e contemporanea).

Sarebbe stato bello se, passata la sbornia ideologica di quegli anni, filosofi come Vattimo (convertitosi pienamente al marxismo nel 2004) avessero avuto l’onestà di riconoscere la cantonata e la futilità di voler legare l’interpretazione di un pensatore così orgogliosamente solitario e aristocratico, di un filosofo ”per tutti e per nessuno” come Nietzsche, con le categorie ermeneutiche e con le messianiche attese rivoluzionarie di una generazione di intellettuali impazienti e più o meno velleitari; se avessero fatto un minimo di autocritica per l’intollerabile forzatura ideologia perpetrata sull’ultimo grande profeta della rivolta, sì, ma della rivolta contro l’uomo-massa e contro la sua “morale del gregge”, e non certo della rivolta del proletariato contro la borghesia, che, comunque la si pensi, è solo “una” rivolta e non già “la“ rivolta.

Sarebbe stato bello se, a quasi quarant’anni di distanza, di tutti quegli intellettuali più o meno marxisti che, allora, pigolavano con saccenteria e petulanza nelle nostre università e che imperversavano nella stampa e nell’editoria (strana rivoluzione, la loro, visto che già detenevano il pieno controllo su quella cultura che dicevano di voler “liberare), almeno alcuni avessero francamente riconosciuto che mai tentativo più farneticante e più inverosimile fu condotto nei confronti di un filosofo del passato, come quello di voler fare di Nietzsche, lo spregiatore di ogni populismo, di ogni demagogia, di ogni accondiscendenza verso lo spirito “democratico” delle masse, niente di meno che il vessillifero inconsapevole, ma in fondo bene intenzionato, di una ribellione antiborghese che andava nella stessa direzione del movimento socialista internazionale.

Alla fine del saggio citato, infatti, Vattimo si doleva che né Nietzsche avesse saputo agganciare il proprio pensiero “libertario” al movimento storico del proletariato in rivolta, né quest’ultimo avesse saputo porsi in sintonia con l’avanguardia intellettuale borghese, anch’essa in rivolta (Nietzsche un esponente dell’avanguardia borghese?); che è come dire fare un doppio salto mortale nel vuoto, scomodando due volte la storia dei “se” per lamentare che le cose non siano andate come noi avremmo voluto che andassero…, il che mostra una totale mancanza di realismo e di metodo storico, per non parlare di quel che dovrebbe essere il distacco critico della filosofia nei confronti delle determinazioni del reale.

Così Gianni Vattimo tirava le somme della sua riflessione sul “socialismo” nietzschiano ne «Il soggetto e la maschera» (Bompiani, Milano, 1974, 2003, pp. 374-75):

 

«…Ciò che Nietzsche cerca, e non trova, in questa mitizzazione dell’aristocratico del passato [che, proprio in quanto metastorica, fornisce il modello alla figura del superuomo], è qualcuno totalmente esterno al mondo della razionalizzazione capitalistica, che realizzi insieme l’essenza dell’oltreuomo come “libero dalla malattia delle catene”, che sia “oltre i dominanti e i dominati” […] e che abbia la forza di rovesciare storicamente l’attuale generalizzazione della morale del gregge. Questa nuova specie d’uomini che lotta concretamente contro la società della “ratio” e insieme anticipa già i caratteri della libertà raggiunta dall’oltreuomo appare a Nietzsche come una specie di “nuovi barbari”, la cui barbarie consiste però essenzialmente nel “venire da fuori”, nell’essere sottratti alla logica del sistema […]

Il problema di stabilire “dove siano i barbari del ventesimo secolo”, che Nietzsche qui si pone, non trova presso di lui una soluzione, non si dice soddisfacente, ma nemmeno coerente.  Ancora una volta ci sembra non si possa leggere questa problematicità e inconcludenza del pensiero di Nietzsche come un difetto  logico-teorico del suo “sistema”. Essa è testimonianza emblematica degli erramenti a cui è condannata la ribellione dell’intellettuale borghese quando gli manca (e non solo per colpa sua, ovviamente) il preciso punto di riferimento del movimento rivoluzionario dei  veri “barbari”, cioè degli esclusi, degli sfruttati, di tutti quelli che proprio per la totale condizione di sub umanità a cui sono ridotti possono davvero essere quella razza d’uomini che viene di fuori e spazza via le strutture del mondo vecchio. Isolato dal reale movimento storico della liberazione, l’intellettuale borghese ribelle mantiene una opposizione di pensatore puramente profetico e allegorico, che non è vacua, inutile, puramente sintomatica, ma anticipa semplicemente realtà che non è in grado di attuare e nemmeno di comprendere a fondo.

Per questo, il problema, che in questo studio non è stato tematicamente affrontato se non nelle sue più radicali premesse,  del rapporto di Nietzsche col socialismo e delle sue aberranti interpretazioni naziste e fasciste, non è un problema marginale ma è IL problema centrale del senso della sua filosofia, anche se non nel modo in cui lo intende Lukács. Il problema che Nietzsche pine è quello della necessaria allegoricità e profeticità del pensiero , almeno nel’attuale fase dei rapporti tra intellettuale borghese in rivolta, potere della classe dominante, e movimento rivoluzionario del proletariato. L’uso nazista delle dottrine nietzscheane, che sono tutte incentrate intorno al problema della liberazione, attesta sia un limite del suo pensiero che non ha saputo trovare un esplicito collegamento col movimento politico del proletariato; sia una effettiva, e oggi sempre più evidente, insufficienza del movimento rivoluzionario del proletariato, che non ha quasi mai saputo recepire, come contenuti della propria azione di rinnovamento, le istanze etiche radicali fatte valere dall’avanguardia intellettuale borghese.

Anche e soprattutto in questo senso, l’incontro con il pensiero di Nietzsche è oggi ben più che lo sforzo di dare una fisionomia precisa a un momento della storia della filosofia;  esso ci mette di fronte - per il nesso che evidenzia tra l’ontologia ermeneutica (e cioè gli ultimi esiti dell’esistenzialismo come erede dell’avanguardia intellettuale borghese del primo Novecento), il problema della liberazione del simbolico e il problema della rivoluzione effettiva della nostra società - a un insieme di questioni aperte dalla cui decisione dipende l’avvenire.»

 

Nietzsche, dunque, socialista che “solo” non sa di esserlo? Nietzsche che, nel suo furore libertario, non si accorge di percorrere la stessa strada del proletariato in rivolta, di guardare nella stessa prospettiva di Marx ed Engels? Eh, via: quello che è troppo, è troppo.

Nietzsche non è un pensatore riconducibile ad alcuna etichetta ideologica, né di destra, né di sinistra; ma, se proprio volessimo tirarlo per la giacca e fargli dire, per forza, quel che piace ai nostri orecchi di figli del ventesimo secolo, di sicuro non potemmo attribuirgli la laurea postuma “honoris causa” della sinistra, tanto meno di quella socialista.

Al limite, qualche convergenza occasionale potremmo trovarla con il pensiero anarchico, ma non tutto, bensì quello individualista, specialmente di Max Stirner; convergenza occasionale, abbiamo detto, e non organica, perché non basta dire parole simili per essere simili; bisogna soprattutto che sia analoga la prospettiva e che il linguaggio presieda ad una comune visione del mondo.

Vattimo afferma, giustamente, che il problema centrale della filosofia di Nietzsche è quello della “liberazione”; benissimo: ma liberazione da cosa e per fare che cosa? Questo è il punto: il concetto di “liberazione”non è auto-evidente; e la liberazione politica cui tende il proletariato ottocentesco, almeno nella prospettiva (e nelle ambizioni totalitarie) degli intellettuali e degli agitatori marxisti, non ha assolutamente nulla in comune con la liberazione nietzscheana dai ceppi della metafisica, della dialettica del male e del bene, del disprezzo di questo mondo e della morale del gregge.

Il pensiero di Nietzsche è aristocratico: non vuol piacere a tutti, anzi, si direbbe che cerchi di spiacere al maggior numero possibile di lettori; e, se è vero che nelle sue opere si trovano numerosi riferimenti sprezzanti nei confronti del nazionalismo, dell’imperialismo, dello spirito borghese, e specialmente di quelli tedeschi - il che rende francamente insostenibile la “lettura” del suo pensiero in chiave nazista -, se ne trovano molti di più, e anche più duri, nei confronti delle masse, dei capipopolo, della pretesa di uguaglianza: il tutto culminante nel tremendo atto di accusa nei confronti del cristianesimo, imputato di essere il compendio di tutto ciò che è plebeo, informe, vilmente e subdolamente rancoroso e implacabilmente nemico della forza, della salute, della gioia di vivere e di tutto ciò che è puramente terreno.

È vero che il pensiero di Nietzsche non va esente da contraddizioni stridenti, come quando si profonde in lodi per l’illuminismo, senza rendersi conto che proprio l’illuminismo è la filosofia “democratica” e anti-aristocratica per eccellenza e che appunto da esso derivano quello spirito egualitario, quella irruzione delle masse, del quantitativo, del gregario nella vita moderna, che tanto lo angustiavano e contro cui ha condotto gran parte della propria battaglia ideale.

Ma questo è un problema interno al pensiero di Nietzsche e non è lecito servirsene per introdurre teste di ponte clandestine da parte di ideologie profondamente estranee, anzi francamente nemiche del suo modo di porsi di fronte alla società moderna; e, in ogni caso, ha a che fare con la dimensione contingente, e perciò caduca, di esso, che non è essenzialmente un pensiero politico: piaccia o non piaccia ai sostenitori del pensiero debole, i quali, in nome di una lotta al principio di verità assoluta, vorrebbero far dire a chiunque, sia tutto che il contrario di tutto.

Il nucleo essenziale del pensiero di Nietzsche, pur essendo antimetafisico nelle intenzioni, è, tuttavia, metafisico nell’impostazione generale; e lo si vede da mille aspetti: valga per tutti il suo modo di considerare l’autentico spirito aristocratico, che, come lo stesso Vattimo riconosce, non è storicamente fondato su nessun modello storico reale (neppure quello del burckhardtiano “uomo del Rinascimento”) e dunque è astorico e, perciò, metafisico - così come lo sono, per esempio, il “buon selvaggio” di Rousseau o il “partigiano” di Jünger.

Inoltre, prima di arruolare Nietzsche nella rivolta ideale contro la borghesia, sarebbe stato necessario distinguere opportunamente e definire un po’ meglio cosa si intenda per “borghesia”: e le vicende di questi ultimi tempi ce lo ricordano con scottante attualità. Che cosa è da intendersi per borghesia: quella del piccolo imprenditore che lotta per salvare la propria azienda, per difendere i posti di lavoro, per non scomparire dal mercato, fra mille sacrifici e con pochissimo o nessun aiuto da parte dello Stato; oppure il membro della élite finanziaria, delle grandi banche, delle multinazionali, che pensa esclusivamente a produrre sempre più valore, ma solo per se stesso?

Se proprio vogliamo attribuire a Nietzsche un pensiero politico e sociale - ma nulla è più lontano di ciò dal suo pensiero -, allora non facciamogli il torto da ritenerlo così poco intelligente, così poco osservatore della realtà, da non riconoscere la profonda differenza che esiste fra queste due tipologie umane; e non facciamogli il torto di farne un “antiborghese” tanto generico e velleitario, quanto lo erano i figli di papà che, nel Maggio del ‘68, scagliavano i cubetti di porfido contro le forze dell’ordine, in nome della “liberazione”: che non era certo quella vagheggiata da Nietzsche…