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È lecito politicizzare Verga?

di Francesco Lamendola - 23/11/2011





È giusto politicizzare Verga?
È legittimo, è corretto leggere uno scrittore sulla base di una valutazione politica della sua opera, del suo percorso letterario?
Secondo un modo di vedere largamente diffuso tra i critici di impostazione marxista, l’arte, la cultura  e il pensiero, letteratura compresa, non essendo che “sovrastruttura” della società (mentre la “struttura” è data dai processi produttivi), possono e devono essere valutati politicamente, dato che essi, direttamente o indirettamente, offrono un sostegno e una giustificazione ideologica a questa o quella classe sociale.
In base a un tale approccio, l’opera di Verga e, in genere, degli scrittori veristi, non può non apparire “oggettivamente” (cioè anche a prescindere dalle intenzioni dell’autore) come un sostegno ideologico alle classi dominanti, ossia, nel caso specifico, all’aristocrazia rurale, classe cui del resto lo scrittore siciliano apparteneva per nascita.
Più precisamente, il suo conservatorismo e il suo anti-modernismo; la sua diffidenza verso i miti del progresso industriale; il suo conclamato “ideale dell’ostrica” (ciascuno rimanga al suo posto); il fatalismo e lo stoicismo dei suoi personaggi (l’eroismo dei “vinti”); la sua naturalizzazione dei fenomeni sociali (il proprio destino sociale va accettato così come il contadino accetta il sole e la pioggia, la siccità e la grandine), non possono non apparire, a chi legga la sua opera dal punto di vista di un’ideologia progressista, come altrettanti elementi di conservatorismo o, peggio, di una visione francamente reazionaria dei rapporti sociali.
Inoltre, a quei critici e a quei pensatori che sostengono l’assoluta indipendenza dell’arte, e dunque anche della letteratura, da ambiti che le sono estranei, come l’ideologia politica, quei tali signori ribattono che anche un’arte “libera” e cioè politicamente disimpegnata, è, comunque, portatrice di una visione politica, e sia pure inespressa e, forse, inconsapevole: l’ideologia della conservazione; perché, estraniandosi dai problemi sociali, è come se l’artista acconsentisse, tacitamente, allo stato di cose esistente, ivi compresi gli eventuali squilibri, gli eventuali privilegi, l’eventuale sfruttamento esercitato da una classe sull’altra (e a fine Ottocento, per non restare nel generico, si sa bene di quali classi stiamo parlando: la borghesia e il proletariato).
A questa impostazione della critica letteraria, che è specifica del marxismo, ma che si ritrova anche in altre ideologie e in altre posizioni culturali, si può e si deve ribattere che, pena cadere palesemente in contraddizione con se stessa, nessuna ideologia può ergersi a giudice di un’altra ideologia (e, dunque, neanche dell’assenza di ideologia), se non da un punto di vista parziale, limitato, “ideologico” appunto; e, dunque, la pretesa di valutare politicamente l’opera di uno scrittore che non voglia schierarsi ideologicamente è, appunto, una pretesa ideologica, cioè arbitraria.
L’ideologia, come spiegava lo stesso Marx, è il tentativo di far passare il punto di vista di una parte della società, come giudizio “vero” in se stesso, vale a dire oggettivo e “super partes”; ma l’ideologia, per definizione, non è, né può essere “super partes”, essendo l’espressione del punto di vista politico di una classe e non certo di tutta la società.
E dunque: se pure il fatto di non voler essere uno scrittore “impegnato” sul terreno sociale non basta a renderlo “neutrale” e, quindi, a sottrarre la sua opera ad una valenza ideologica, è almeno altrettanto vero che nessuna ideologia ha il diritto di giudicare uno scrittore da un punto di vista politico, perché, a maggior ragione, nessuna ideologia sfugge alle logiche di parte della politica, ragion per cui, sia che lo lodi, sia che lo critichi, una ideologia non sarà mai equa e imparziale nell’avanzare la propria valutazione del fatto letterario.
Ritorna perciò, e con forza, la domanda: che cosa c’entra la letteratura con la politica?
Scriveva Pietro Calandra in un saggio intitolato, appunto, «È lecito politicizzare Verga?» (in: «Educhiamo insieme», Palermo, n. 2, gennaio 1970; cit. in S. A. Costa e G. Mavaro, «Problemi di critica verghiana», Le Monnier, Firenze, 1971, pp. 161-64):

«… se volessimo indicare una componente comune alla critica verghiana  nell’ultimo ventennio circa, dovremmo identificarla, credo, con una progressiva politicizzazione del problema e del metodo critico con cui si è voluta studiare l’opera del catanese che senza dubbio si ripresentava, nel mutato cima politico e culturale del dopoguerra, ricca di nuove sollecitazioni per un esame letterario, ma con forte implicanze sociali e decise tendenze storicizzanti. E, a voler tentare un consuntivo dei risultati di questa critica, non si può non riconoscere che al suo attivo sono un maggior approfondimento del problema dei rapporti tra Verga e il Verismo, tra Verga e il Romanticismo, tra verga e il Decadentismo; una presa di coscienza più consapevole della problematica umana e sociale  del narratore, attraverso più attenti sondaggi condotti nei testi, “letti” con una nuova sensibilità(non più alla Momigliano o secondo i miti orfici del Flora, ma ispirata a istanze storicistiche più o meno integrali o addirittura a metodi marxisti-leninisti di classe. È chiaro allora che il problema più avvertito - ma non, a mio avviso, chiaramente individuato e risolto - è stato ed è quello del rapporto politica-critica, ideologia partitica (spesso frantumata , come nel caso della critica marxista, in correnti e sotto-correnti) e metodo critico di lettura.  Insomma anche ad un marxista, quale è lo scrivente, si pone ad un certo momento, ineludibile, la domanda: fino a che punto è lecito esaminare uno scrittore, poniamo Verga, in chiave liberale, nazionalista, cattolica, marxista ecc.? È vero che tutti i critici sopra ricordati sono evidentemente preoccupati - chi più chi meno - di ancorare il loro discorso critico a presupposti ideologici, salvo poi a riconoscere, un po’tutti, che bisogna che il critico non vanifichi , con le proprie ideologie, l’interpretazione di uno scrittore, e non cada in quel “fuorviante arbitrio” di cui Heidegger parlava […]
È questo i limite e il difetto che il Petronio rileva nelle indagini di Masiello, Asor Rosa e Luperini, ma da cui non sono immuni, a mio avviso, i critici stessi del quinquennio ’45-’50, Petronio compreso, ai quali si devono molte osservazioni felici e acute in ordine alla “lettura” di alcuni testi verghiani, ma la cui impostazione generale del problema critico verghiano, fortemente politicizzato, ha finito col far esigere loro  quel che il Verga non poteva essere e non poteva dire, , e di volta ij volta hanno potuto rilevare la scarsa sensibilità o l’assenza  di un’ideologia politica o il conservatorismo o il crispismo o il prefascismo di Verga; e i critici degli anni ’60 hanno lamentato, di pari passo, l’assenza di populismo in Verga (1) o hanno proposto un metodo di analisi e di valutazione secondo il principio materialistico-leninista della partiticità dell’opera d’arte…”o secondo rigorose prospettive di classe ecc., e all’uopo si affastellano riferimenti e citazioni di Marx, Engels, Trotzkij etc. […]. Col risultato che rilievi e limiti finiscono con l’essere rilevati dai critici stessi  tra di loro, in una specie di curioso - ma non certo divertente - gioco a scarica-barile […].(Masiello: “E devo dire apertamente che se io, nel mio saggio del ’64, ho PIÙ insistito sull’ideologia verghiana e MENO sul contenuto oggettivo della rappresentazione, gli amici Asor Rosa e Luperini hanno commesso, in modi diversi, l’errore simmetrico e opposto”). Ora, errori più o meno simmetrici e opposti a parte, io non credo che “il più storico” (tra Masiello, Asor Rosa, Luperini) sia Masiello […], ma Luperini e che e che le tendenze più scopertamente fuorvianti siano in Asor Rosa e in Masiello […].
Dunque l’affermazione [da parte di Luperini] che l’arte del Verga so svolga “nella ferma direzione di una conoscenza critica e del duro pessimismo” ci convince senz’altro;; ma in direzione  “della demistificazione e della negazione” che significa? Come lo scrittore non conia più ideologie così neppure le distrugge: narra una sua interpretazione del mondo, una sua visione della vita, sconsolata a qualsiasi livello o condizione sociale. E perciò la conoscenza del Verga progredisce nella misura in cui gli studiosi ne sappiano penetrare le idee e i sentimenti oltre che l’arte, senza cadere nel grosso equivoco di costringerlo nel letto di Procuste delle loro ideologie partitiche, leniniste o no.  E certo le pagine fini dedicate dal Luperini al “Mastro Don Gesualdo” sono di quelle capaci di illuminare di nuova luce testi  pur tanto analizzati dai critici. I quali soltanto a condizione che sappiano conciliare le loro scelte politiche  con il loro impegno di lettori - di là d’ogni prevaricazione ideologica - potranno contribuire alla fortuna ideologica del Verga (come di ogni altro scrittore) evitando le secche tanto del sensibilismo retorico quanto del politicismo a oltranza.»

È un riconoscimento significativo, venendo da un critico di formazione dichiaratamente marxista: ma quando è troppo, è troppo; e una persona intelligente e intellettualmente onesta non può che ribellarsi davanti a certe ridicole strumentalizzazioni.
Del resto, il problema non riguarda solo Verga, né solo gli scrittori che appartengono alla stessa area culturale, il naturalismo, e che muovono da una simile prospettiva sociale, diciamo pure conservatrice: come è il caso dei romeni Duiliu Zamfirescu («La vita in campagna») e Liviu Rebreanu («La rivolta»), entrambi, come Verga, esponenti del punto di vista dei possidenti agrari; ma il fatto letterario in quanto tale.
Specialmente nel corso dell’Ottocento e del Novecento, la grande stagione delle ideologie totalizzanti, si è assistito a un curioso spettacolo da parte della critica: la radicale, nichilistica  problematizzazione dell’ermeneutica; la pretesa, filologicamente fondata, ma solo su pagine e passi estrapolati qua e là dall’opera complessiva di un autore, di dare di quest’ultima sempre nuove interpretazioni: la pretesa, in sostanza, degna dei sofisti dell’antica Grecia - di un Gorgia, di un Polo -, di far dire a qualunque scritture qualunque cosa, e il contrario di essa.
E la stessa cosa si può dire che sia avvenuta nel campo della critica filosofica; sicché non si finisce di assistere al mutevole spettacolo di sempre nuove e inaspettate interpretazioni di questo o quel pensatore, magari per puro gusto del paradosso: come da parte di quel nugolo di critici di formazione marxista che pretendono di “rivisitare” Nietzsche in una dubbia sala di sinistra o che pretendono di “rileggere” Kierkegaard togliendogli ciò che è essenziale al suo pensiero, ossia il paradosso della fede, e riducendolo alla misura di un generico annunciatore della “crisi”, dell’”angoscia”, della “disperazione”.
Ma chi che meravigliarsi? Chi ha vissuto gli anni Settanta del Novecento nei licei e nelle università italiani, sa bene a qual punto di esasperazione e di ubriacatura ideologica fossero giunti un po’ tutti quanti, dagli studenti, ai professori, alla stampa, al cinema ed agli stessi libri di testo. E non è che nel resto del mondo le cose andassero meglio: in Cina, per esempio, le Guardie rosse scatenavano una sedicente Rivoluzione culturale, che in realtà produsse parecchi milioni di morti, all’insegna della contestazione non solo di uomini politici e filosofi viventi o, comunque, contemporanei, in quanto ritenuti reazionari, ma perfino di… Confucio!
Oggi le cose sono un po’ cambiate; ma, se la politicizzazione della cultura è meno sfacciata da parte dei critici, in compenso si è fatta più insidiosa, più scaltrita, più sofisticata. Quei signori non hanno la franchezza di dire che un certo autore non piace loro per ragioni ideologiche; piuttosto, si danno un gran da fare per scavare, sul terreno filologico, magari sino al centro della Terra, e riuscire infine a “dimostrare” che quell’autore, in realtà, intendeva dire tutto i contrario di ciò che comunemente si pensa. Come fanno loro a saperlo? Applicando i metodi della psicopolizia (e della stregoneria) freudiana; scavando, cioè, nelle intenzioni riposte del’autore e servendosi, all’uopo, delle loro cavillose ricerche filologiche sui manoscritti, sui diari inediti, sul significato inespresso delle frasi, che essi soli hanno la virtù di “leggere” fra le righe.
A questo cattivo andazzo degli studi critici bisogna reagire, nella ferma convinzione che il problema ermeneutico esiste, ma non può essere artificiosamente lambiccato e arzigogolato, allo scopo di forzare l’evidenza e il buon senso, allorché ci si pone davanti ad un testo; che, pur se sono lecite ed anzi auspicabili discussioni e diverse interpretazioni davanti a una certa pagina, a una certa opera, il senso complessivo di ciò che hanno detto uno scrittore o, a maggior ragione, un pensatore, non può essere capovolto e rimesso radicalmente in discussione ogni volta che un certo critico si sveglia al mattino con la smania di far vedere a tutti quanto sia sottile, originale e stupefacente (nel senso barocco della “meraviglia”) la sua capacità ermeneutica.
Politicizzare Verga, dunque? No, grazie; meglio, assai meglio leggere onestamente un autore e cercar di comprenderlo per ciò che è, senza forzature, ma piuttosto ascoltando quel che ha da dire.