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Quando la realtà supera la fantasia: la storia del vero Robinson, naufrago dimenticato

di Francesco Lamendola - 24/11/2011







È noto che il famoso romanzo di Daniel Defoe «Robinson Crusoe», del quale ci siano recentemente occupati (cfr. «Robinson Crusoe è l’uomo in fuga da se stesso approdato sull’isola della modernità», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 16/08/2011), trae spunto da un fatto di cronaca vera: il soggiorno involontario di un marinaio scozzese su un’isola disabitata del Sud Pacifico, protrattosi per quattro anni e quattro mesi, alcuni anni prima che il libro venisse pubblicato a Londra, nel 1719.
Il suo nome era Alexander Selkirk (secondo un’altra versione, Selcraig), imbarcato come secondo ufficiale sulla nave corsara “Cinque Ports” del capitano Thomas Stradling, la quale, in coppia con la «St. George» di William Dampier, era salpata dall’Inghilterra per dare la caccia ai galeoni spagnoli, al largo delle coste occidentali del Centro e del Sud America.
La spedizione, però, aveva avuto poca fortuna, sia per le cattive condizioni del tempo, sia per la mancanza di prede, e le due navi si erano alfine separate; nel viaggio di ritorno, malridotta nel fasciame e con l’equipaggio stremato, la “Cinque Porti” aveva gettato l’ancora davanti all’isola di Mas a Tierra, nel gruppo delle Juan Fernandez.
Tutte le isole dell’arcipelago erano non solo sprovviste di presidî spagnoli, ma addirittura disabitate; e la maggiore specialmente, dotata di un buon approdo naturale, ricca di sorgenti d’acqua dolce  e ammantata di boschi meravigliosi (vi cresceva anche, caso unico nella flora dell’America Meridionale, l’albero profumato del sandalo, originario dell’Asia sud-orientale e dell’Australia, poi estinto), che potevano fornire il legname per i lavori di carpenteria, era un base temporanea ideale per i pirati che scorrazzavano al largo del Perù.
Mas a Tierra (oggi ribattezzata isola Robinson Crusoe), infatti, si trova a circa 600 chilometri da Valparaiso, sul cui parallelo si trova, a 33° di latitudine Sud, in ottima posizione strategica; gode di un clima ideale, con una temperatura media dell’aria e dell’acqua di circa ventidue gradi; per il rifornimento di carne e di latte, si poteva contare sulle capre che, introdotte dagli Spagnoli un secolo e mezzo prima, quando avevano tentato di fondare una colonia, si erano moltiplicate e diffuse ovunque e costituivano una riserva cui attingere da parte delle navi che facevano scalo (anche se quelle brave bestie, arrampicandosi ovunque e brucando dappertutto, hanno perpetrato un vero disastro ai danni della preziosissima flora dell’isola, che non sarà mai deprecato abbastanza dagli studiosi e dagli amanti della botanica; ma questo è un altro discorso).
Durante la sosta a Mas a Tierra, Selkirk venne seriamente a diverbio con il suo capitano: egli infatti sosteneva che la nave imbarcava acqua e che, in quelle condizioni, non sarebbe stata in grado di intraprendere il viaggio di ritorno in patria, tanto meno per la pericolosissima rotta di Capo Horn; Stradling, invece, che era un uomo duro e intransigente, manifestò il parere opposto.
Può darsi che, in quella circostanza, siano venuti al pettine i nodi di una antica, reciproca insofferenza, che la lunga navigazione, la vita di bordo a stretto contatto di gomito e gli insuccessi della spedizione corsara avevano, forse, esasperato; può anche darsi che Selkirk abbia creduto di parlare a nome dell’equipaggio, interpretando i timori e le preoccupazioni di molti uomini della ciurma, se non proprio di tutti.
Sta di fatto che la discussione assunse dei toni ed un significato che andavano oltre il problema specifico, relativo alle condizioni di efficienza del vascello e dell’opportunità di ripartire subito, senza condurre dei lavori di riparazione molto più radicali; e Stradling, pensando che fossero in gioco la sua autorità ed il suo prestigio, volle dare un drastico esempio, tale da far passare a tutti la voglia di mostrarsi insubordinati.
Selkirk, a un certo punto, si era lasciato sfuggire, nel calore della discussione, che avrebbe preferito sbarcare e rimanere sull’isola, piuttosto che andare incontro a un naufragio, con la nave ridotta in quelle condizioni; il capitano lo prese tosto in parola e ordinò di farlo scendere a terra, insieme alla cassa contenente i suoi effetti personali.
Pare che il secondo, sul momento, avesse accettato la sfida e non se lo fosse fatto ripetere; ma poi, quando la “Cinque Ports” mollò gli ormeggi e fece manovra per uscire dalla baia, alzando le vele al vento, si rese conto tutt’a un tratto di ciò che quella partenza significava e supplicò Stradling di riprenderlo a bordo: ma quest’ultimo non ne volle sapere e prese il largo, abbandonandolo senza rimorsi al suo incerto destino.
Non entreremo qui nei particolari di quel solitario soggiorno sull’isola, che, drammatico nelle prime settimane, prese poi un andamento via via più sereno, grazie alla forza d’animo di quel robusto marinaio di ventotto anni, alla sua ingegnosità, alla sua intraprendenza e, non da ultimo, alla sua ritrovata fede religiosa: la sua cassetta di legno conteneva, oltre ad alcuni strumenti nautici, un po’ di vestiti e del tabacco, anche una Bibbia, la cui lettura divenne per lui un rito quotidiano di fondamentale importanza.
Non lo faremo, perché chi ha letto il romanzo di Daniel Defoe, può facilmente immaginarselo: basta solo dire che il “vero” Robinson dovette affrontare difficoltà pratiche assai maggiori (non aveva, come il suo emulo letterario, un vascello naufragato sulla riva, cui attingere per rifornirsi di ogni ben di Dio), ma, in compenso, pericoli meno drammatici.
La sua isola non era meta di cannibali che venissero a consumarvi i loro macabri banchetti; in compenso, Selkirk non ebbe mai la compagnia di un Venerdì o di alcun altro essere umano: poteva parlare solo con i boschi fittissimi, con il cielo immenso sopra di lui, con il mare che si perdeva all’orizzonte e, sopra tutto, con Dio.
Due soli episodi veramente drammatici si verificarono in quei quattro anni: il primo, quando cadde in un precipizio, mentre inseguiva una capra, e rimase gravemente infortunato, quasi tra la vita e la morte, per parecchi giorni; il secondo, quando una nave spagnola approdò all’isola ed egli fu visto, inseguito, braccato come una bestia feroce.
Gli Spagnoli odiavano i corsari e ne avevano mille ragioni; se lo avessero preso, difficilmente Selkirk avrebbe potuto sfuggire al capestro: perciò, dopo essersi internato nella foresta, si arrampicò su di un albero e poté scorgere, sotto di sé, gli inseguitori che lo cercavano dappertutto, si fermavano a discutere, ed infine si allontanavano, rinunciando a trovarlo.
Se si fosse trattato di Francesi, egli aveva deciso di tentare la sorte e di consegnarsi nelle loro mani (si era durante la Guerra di successione spagnola e la Francia e la Spagna erano alleate contro l’Inghilterra e altre potenze); per questo si era mostrato loro e aveva lanciato dei richiami; ma, resosi conto della loro vera nazionalità, non aveva potuto fare altro che fuggire a rotta di collo, sfuggendo per miracolo alle loro fucilate.
La vita sana, ricca di esercizio fisico, in un clima mite e salubre; la capacità di apprezzare la bellezza della natura tropicale e il sentimento religioso che, dopo anni di intiepidimento, gli si era riacceso nel momento della prova, tutto questo aveva conferito a Selkirk una condizione fisica eccellente e uno stato d’animo che, dalla disperazione iniziale, passando attraverso le varie fasi dell’accettazione, era giunto infine molto vicino alla beatitudine.
La sua salute era così buona e il suo vigore così grande che, quando venne ritrovato dagli uomini del capitano Rogers, nessuno di questi seppe mostrarsi in grado di competere con lui nella corsa e in altri esercizi fisici; in compenso aveva quasi disimparato a parlare, tanto che pronunciava le parole smozzicate; inoltre, per molto tempo non poté calzare le scarpe, perché, abituatosi ad andare scalzo, i suoi piedi erano divenuti così callosi, che non potevano tollerarne l’uso.
Così riassume la vicenda del “vero Robinson” lo scrittore Stanislao Nievo, curatore di una pregevole traduzione italiana dell’opera di Daniel Defoe (Giunti, Firenze, 1991, pp.  347-356):

«Le avventure di Crusoe sull’isola, la parte saliente del libro di De Foe, si ispirarono all’evento principale della vita di uno scozzese, Alexander Selkirk, ovvero Selcraig (1676-1721), un marinaio scavezzacollo, alto, forte e ingegnoso, originario di Largo, nel Fife. Le vicende preliminari, che narrano di Crusoe alle prese con i Mori, c’entrano solo marginalmente con la storia dell’isola; e il libro finisce un po’ fiaccamente, con il resoconto alquanto debole del viaggio di ritorno in Inghilterra. È possibile, anzi probabile, che  De Foe incontrasse Selkirk prima di scrivere il libro ma, dalla turbolenta storia del marinaio, egli prese solo l’episodio dell’isola.  Vu ravvisò il tipo di morale riscontratovi anche da molti lettori, perché i resoconti della gesta di Selkirk erano noti e piacevano molto durante il secolo scorso, prova ne è il poema di Cowper “Sono il re di tutto ciò che vedo”. Chiaramente, De Foe racconta la storia a modo suo, infondendole il proprio peculiare vigore espressivo. Allo scopo di offrire l’occasione di fare paragoni fra le diverse versioni della stessa vicenda - non per mettere in luce in modo particolare lo “spunto” che diede vita al romanzo – includiamo qui due resoconti che riguardano Selkirk. Se non avesse conosciuto la vicenda di Selkirk e non vi avesse attinto ispirazione, senza dubbio De Foe avrebbe trovato qualche altra idea analoga. Sono noti almeno altri due altri casi di uomini sopravvissuti da soli sul’isola di Juan Fernandez. Un indiano Mosquite (Guyana), un certo Will, vi fu abbandonato nel gennaio 1681, quando una flotta di bucanieri fuggì dopo aver avvistato tre velieri sconosciuti. Will venne ritrovato vivo e in buona salute nell’aprile 1684 da un’altra nave pirata, “La delizia dello scapolo”.Il timoniere spagnolo della nave che abbandonò quell’indiano dichiarò poi che molti anni prima un uomo scampato ad un naufragio era sopravvissuto da solo dolo sull’isola, per cinque anni prima di essere salvato dai filibustieri. William Dampier, che aveva partecipato ad ambedue le spedizioni piratesche, lasciò un resoconto dei fatti. Nel settembre 1703 lo stesso William Dampier si imbarcò in veste di comandante  di un’altra spedizione privata (cioè finanziata da privati, ma con il benestare del governo), allo scopo di scacciare le imbarcazioni spagnole e portoghesi dall’estuario del Mar del Plata. Fallito il tentativo decisero di doppiare il Capo Horn per cercar fortuna lungo le coste del Perù e anche per giungere tanto a nord da riuscire a intercettare un antico galeone  da Acapulco carico del prodotto di certe miniere messicane. La spedizione era formata da due navi, di cui la “San Giorgio” - la maggiore - portava ventisei cannoni e stazzava 120 tonnellate; Alexander Selkirk fungeva da maestro di vela (o comandante in seconda) sulla “Cinque Porti”, la quale aveva un equipaggio di sessantatre persone. Durante una traversata travagliata, Dampier non seppe sedare i malcontenti e finì’ per sbarcare il proprio comandante in seconda, assieme ad un altro marinaio, sull’isola di Capo Verde. I comandanti delle due navi non erano d’accordo fra loro e quando nel febbraio 1704 raggiunsero le isole di Juan Fernandez, a 350 miglia da Valparaiso, in Cile, ogni loro progetto in comune era sfumato. La maggiore delle tre isole (oggi chiamata Mas a Tierra), la più vicina alla costa, serviva da scalo agli equipaggi privati che dovevano rimettersi in sesto dopo l’arduo periplo attorno a Capo Horn, per evitare di fari notare dagli Spagnoli. Le due navi avevano gettato l’ancora, quando Dampier ingaggiò la “San Giorgio” in un incerto conflitto contro un vascello francese, abbandonando, nella sua fretta di partire, cinque uomini sull’isola; questi furono poco dopo raccolti da imbarcazioni francesi. Infine, dopo qualche operazione fallimentare nei pressi di Panama, la “San Giorgio” e la “Cinque Porti” si separarono e l’impresa da Dampier finì in una bolla di sapone. In settembre la “Cinque Porti” toccò di nuovo l’isola di Juan Fernandez  per lavori di manutenzione. All’inizio dell’ottobre 1704, il capitano Stradling diede ordine di ripartire. Selkirk protestò violentemente, sostenendo che l’imbarcazione non teneva bene il mare. Andò a finire che il capitano ordinò che egli venisse lasciato a riva con la sua roba; forse Selkirk sperava che il suo esempio sarebbe stato seguito da altri marinai dissidenti e che la nave non sarebbe più potuta salpare, e questo anche perché Stradling non era affatto benvoluto. Ma invece nessuno si unì a Selkirk e, quando la “Cinque Porti” si allontanò dall’isola, egli perse la testa e urlò affinché lo riprendessero a bordo, ma invano. Senza dubbio Stradling sperava che l’incidente sarebbe servito da ammonimento.  Quattro anni e quattro mesi più tardi, il 2 febbraio 1709, Selkirk fece ritorno fra gli uomini. Lo salvarono due vascelli di un’altra spedizione privata, “Il Duca” e “La Duchessa”, comandanti dal capitano Woodes Rogers; a bordo c’era anche l’irriducibile Dampier in qualità di pilota…»

Il famoso giornalista e scrittore Richard Steele (1672-1729), fondatore della rivista «Tatler» e cofondatore dello «Spectator», nel 1711 ebbe l’occasione di intervistare Alexander Selkirk e ne diede il resoconto sulle pagine del giornale «The Englishman».
Selkirk gli era apparso come un uomo sensato e riflessivo, cui la lunghissima solitudine sofferta sull’isola non aveva in alcun modo indebolito né il carattere, né la lucidità; cosa tanto più notevole  - osservava Steele - se si tiene presente come la vita del marinaio sia una vita essenzialmente sociale, caratterizzata, anzi, dalla convivenza con molte altre persone in uno spazio ristretto, per mesi e mesi, praticamente senza ombra di intimità.
La solitudine, tanto temuta ed evitata dalla maggior parte degli esseri umani, a Selkirk non aveva fatto male; ciò che gli altri notavano in lui, dopo il ritorno in patria, era soprattutto la serenità, sia pure accompagnata da un certo distacco, come se fosse ormai perfettamente abituato a non condividere con alcuno i propri pensieri.
Il soggiorno di Selkirk sull’isola di Mas a Tierra (allora chiamata anche Juan Fernandez, sebbene questo sia, in realtà, il nome dell’intero arcipelago) era durato dall’ottobre del 1704 all’inizio di febbraio del 1709.
Di fatto, egli non dimenticò mai più la sua vita sull’isola e la rimpianse finché visse, guardando ad essa come al periodo più felice della sua intera esistenza.
È notevole anche il fatto che, nei dieci giorni in cui la nave di Rogers era rimasta ancorata davanti all’isola per completare le scorte, egli non aveva mostrato alcun segno d’impazienza; o meglio, per dirla tutta, si era mostrato del tutto indifferente all’idea del ritorno, mentre - semmai - aveva dato segni di viva partecipazione ai problemi pratici dei suoi soccorritori.
Va anche notato che Selkirk, nella prima fase del suo isolamento, aveva conosciuto una gravissima crisi di sconforto che lo aveva condotto alle soglie dell’abulia; se ne era ripreso facendo appello sia al ragionamento, sia alla fede, mediante la lettura quotidiana della Bibbia. A partire da quel momento, la sua vita sull’isola, grazie anche al clima mite e salubre e al cielo costantemente azzurro e sereno, era stata una gioia continua, che lo aveva entusiasmato in una maniera quale mai aveva sperimentato prima, sia in patria, sia navigando sui mari di mezzo mondo.
In un certo senso, egli aveva conosciuto qualcosa di simile a quel potenziamento delle energie vitali, a quel’accrescimento della sensibilità, a quella intensificazione della consapevolezza sensoriale ed emotiva, le quali, di solito, vengono associata all’esperienza mistica; con la notevole differenza che l’espansione coscienziale del mistico, per quanto intensa e inebriante, solitamente è di breve durata, mentre quella di Selkirk durò per circa quattro anni, pressoché ininterrottamente.
Il giornalista americano Leland Stowe (1899-1894), vincitore del Premio Pulitzer, ha così riassunto il tenore degli ultimi anni di vita del marinaio scozzese, dopo il ritorno in patria (L. Stowe, «Il vero Robinson Crusoe», in: «Selezione dal Reader’s Digest», gennaio 1969, pp. 16-17):

«La “Duke” e la “Dutchess” fecero quindi vela verso nord, predando, Selkirk fu fatto comandante del secondo vascello spagnolo che catturarono. Per altri 11 mesi i bucanieri di Rogers depredarono le navi nel tratt9o del Pacifico che va dal Cile al Messico, ammassando un bottino valutato in seguito 800.000 sterline. Poi fecero vela verso ovest e, circumnavigando il globo, si diressero verso l’Inghilterra. Infine, alla metà di ottobre del 1711, Selkirk sbarcò presso Londra non come un nomade squattrinato ma provvisto di un’inconsueta ricchezza, essendosi guadagnato come premio delle sue fatiche una piccola fortuna.
Arrivato alla sua città natale, Largo, una domenica mattina, Selkirk andò diritto in chiesa. L’apparire di un forestiero elegantemente vestito con pizzi e ori attirò gli sguardi di tutti. Per parecchi minuti neppure i suoi genitori e i suoi fratelli lo riconobbero. Poi d’un tratto sua madre balzò in piedi, lo chiamò per nome e si precipitò tra le braccia del figlio che aveva ormai pianto per morto.
Ma il bisogno di solitudine si era ormai radicato in Selkirk. Andava da solo a pesca lungo le coste del fiordo oppure vagava per boschi, esclamando talvolta come in un lamento: “Oh, mia amata isola, come vorrei non averti mai lasciata!”.
Un giorno fuggì a Londra con Sophia Bruce, una ragazza del luogo. Ma neppure lei fu in grado di calmare per molto il suo spirito irrequieto. Due anni dopo Selkirk si arruolò in Marina. Morì pochi anni più tardi al largo delle coste africane mentre prestava servizio come ufficiale a bordo della “Weymouth”…»

Da qualche anno è stata battezzata con il nome di Alejandro Selkirk la seconda isola dell’arcipelago di Juan Fernandez, che prima era nota con il nome di Mas a Fuera (o Mas Afuera, che significa “più al largo”); anche se, a dire il vero, non c’entra nulla con Selkirk, il quale nemmeno la vide; ma la sua “vera” isola, come si è detto, ha ricevuto il nome di Robinson Crusoe, il personaggio creato dalla penna di Defoe.
A Largo, in Scozia, è possibile ammirare una statua di bronzo che riproduce il naufrago, vestito di pelli di capra, con la mano levata all’altezza della fronte, come per schermarsi la vista protesa sull’oceano, certo nella speranza di scorgere qualche vela sul lontano orizzonte.
La lapide posta al disotto della statua recita così:

«In memoria di Alexander Selkirk, marinaio, che ispirò il personaggio di Robinson Crusoe e che visse sull’isola di Juan Fernandez in completa solitudine per quattro anni e quattro mesi e morì nel 1728, tenente di vascello della nave “Weymouth”, all’età di 47 anni. Questa statua è stata eretta da David Gillies, fabbricante di reti, nel luogo in cui sorgeva  la casa natale di Selkirk.»

Guardandola, par di sentire il silenzio perfetto della natura primigenia in quella lontanissima isola tropicale, rotto solo dal fragore dei cavalloni che si frangono sulla scogliera; e d’intravedere le scaglie di luce che si riverberano e danzano incessanti sulla superficie delle onde, quando il Sole emerge dall’oceano in tutta la sua gloria.