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La diffusione dei libri nell’Illuminismo è stata un bene per la società?

di Francesco Lamendola - 30/11/2011




Il XVIII secolo, il secolo del Lumi, si vanta, fra le altre cose, di avere impresso un impulso straordinario, mai visto prima, alla diffusione dei libri e della lettura; specialmente dei libri di argomento scientifico e filosofico.
Uomini e donne che, prima, non leggevano nulla o quasi, adesso se ne vanno in giro con il loro Voltaire o con il loro Rousseau sotto il braccio, cui la censura conferisce un ulteriore elemento di fascino; le teorie fisiche di Newton circolano nei salotti, fioriscono sulle belle labbra delle dame, accendono animate discussioni nei palazzi dell’aristocrazia, nelle botteghe del caffè; rappresentano, per così dire, l’ultimo grido della moda.
Anche il “giovin signore” di Parini tiene Voltaire e Rousseau sullo scaffale della propria biblioteca; li legge stando a letto, per conciliarsi il sonno, poi li presta alla sua dama; essere aggiornati sulle teorie dei “philosophes”, disputare di morale e di diritto, di economia e di ottica, di medicina e di agricoltura, è divenuto obbligatorio, come essere informati delle ultime novità della moda parigina o dei più recenti progressi della scienza e della tecnica.
Si legge molto; vi sono dei librai che vendono delle tessere, mediante le quali si può consultare sul posto, oppure portare via in prestito, tutti i volumi che si vuole; i caffè offrono ai propri clienti una vasta scelta di riviste e di giornali; il mercato librario è in fortissima espansione, si moltiplicano le traduzioni di opere straniere; e si conversa sempre più non di fatti e di persone, ma di libri e di idee, che vengono più o meno da lontano.
Si vogliono portare i popoli verso la felicità; si vogliono diffondere i benefici della salute, della ragione, della buona cittadinanza; si vuol costruire un mondo nuovo, fatto di curiosità, spirito d’iniziativa, fiducia nel progresso; non si vuol più ascoltare le voci della tradizione, le voci del passato, giudicate improvvisamente noiose, inutili e soffocanti; e il libro, la lettura, la condivisione della nuova filosofia, sembrano a ciò gli strumenti migliori.
Si legge in salotto, come in giardino; si legge al mattino, si legge alla sera; si comprano occhiali da lettura, per aiutare la vista affaticata; si inventano pantografi per scrivere lettere o documenti in duplice copia; si fabbricano “ruote di lettura”, per leggere più libri contemporaneamente; si legge presso il fuoco del caminetto, nelle lunghe serate d’inverno, oppure seduti all’ombra fresca delle siepi, lungo i vialetti erbosi, nelle calde e soleggiate mattine d’estate.
Una volta si leggeva poco: poco e intensamente; ora si legge molto, in fretta, sempre inseguendo le ultime novità del mercato editoriale; una volta c’erano, nelle case delle persone di media cultura, pochi libri, ma consolidati dalla tradizione - la Bibbia, i classici, qualche libro devozionale: ora di libri se ne comprano parecchi e se ne prestano e scambiano anche di più, li si sfoglia in fretta, si cerca di catturare un’idea, una concetto, per poterne poi fare mostra nel corso della conversazione con gli amici, fare colpo su una colta e raffinata dama.
Ha scritto Roger Chartier in «Libri e lettori» (in: «L’Illuminismo. Dizionario storico», a cura di V. Ferrone e D. Roche, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 292 sgg.):

«Possiamo definire l’età dei Lumi come l’epoca di una “rivoluzione della lettura”? A tale quesito i contemporanei avrebbero senza dubbio risposto in modo affermativo, essendo fortemente consapevoli delle trasformazioni che avevano modificato la produzione a stampa e le pratiche di lettura. Soprattutto, a partire dalla metà del secolo si moltiplicano i riferimenti alla lettura che esprimono l’acuta percezione di un tale sconvolgimento.
I racconti di viaggio come i quadri di costume insistono sull’universalità nuova della lettura, presente in tutti gli ambienti sociali, in tutte le circostanze  e i  tutti i luoghi del vivere quotidiano. A sentir loro una vera e propria “mania della lettura”, degenerata in “febbre di lettura” o in “furore di leggere” (i testi tedeschi parlano infatti di Lesesuscht, Lesefieber e Lesewut) si è impadronita delle popolazioni. Nel discorso medico la constatazione assume la forma di una diagnosi inquieta, che sottolinea gli effetti distruttivi del’eccesso di lettura, avvertito come una sregolatezza individuale e un’epidemia collettiva. Essa provoca l’indebolimento  fisico, il rifiuto della realtà, l’inclinazione all’illusione poiché unisce l’immobilità del corpo e l’eccitazione della fantasia. Da qui l’accostamento ad altre pratiche solitarie  di natura sessuale e la corrispondenza tra la lettura e l’onanismo di cui parlano i trattati di medicina e i romanzi erotici, dove la lettura delle opere licenziose è spesso descritta come il preludio a dei piaceri molto astratti. Dopo tutto, l’una e l’altra pratica accusano gli stessi sintomi: il pallore, l’inquietudine, l’indifferenza, la prostrazione. Il pericolo si fa estremo laddove la lettura di un romanzo e chi legge è una lettrice nella solitudine del suo ritiro, lontana dagli sguardi altrui. Ma l’eccesso minaccia tutti i lettori, in particolare i più avidi, poiché le ragioni che la rendono pericolosa (la congestione dello stomaco e dell’intestino associata a disturbi nervosi) sono le stesse che causano l’ipocondria, malattia dei letterati per eccellenza.»

Del resto, dobbiamo ricordare che il primo pazzo della letteratura moderna, Don Chisciotte della Mancia, è divenuto tale per aver concesso troppo spazio alla lettura dei romanzi cavallereschi; per essersi sprofondato, con insaziabile voracità, nei gorghi insondabili di quel mondo virtuale, misterioso e inafferrabile, che si cela fra le righe dei caratteri stampati, che aleggia dietro le pagine del libro e che può risucchiare tutta l’attenzione, tutto l’interesse del lettore, fino a spegnere in lui ogni altro interesse rivolto alla vita “vera”?
Il libro come una droga, dunque, fino a quella “malattia della letteratura” che divamperà in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, con la fulminea velocità di una pandemia, e che erige come un diaframma fra gli uomini (e le donne) e la loro vita di tutti i giorni? Si pensi a Madame Bovary, malata di letture romantiche; si pensi a Svevo, i cui personaggi si sorprendono a pensare e a parlare come se stessero scrivendo un romanzo; si pensi a Pirandello, che riassume tale malattia dicendo amaramente: «La vita, o la si vive o la si scrive».
E quanto all’accostamento al piacere sessuale solitario, fatto dai medici che primi, nel XVIII secolo, registrano l’epidemia della lettura e i suoi effetti negativi sull’organismo e sullo stato d’animo dei loro pazienti, accentuandone l’umor nero e la malinconia: è proprio così sbagliato, così assurdo, così scandaloso, come può sembrare a noi, cittadini del ventunesimo secolo?
Non è forse vero che lasciarsi prendere dalla smania della lettura è come cadere sotto la malia di una dipendenza, di uno stupefacente; e che la vita sedentaria e cerebrale del lettore (o della lettrice) accanito, significa un abbandono delle sane abitudini, del moto, del lavoro manuale, dell’esercizio fisico, delle salutari passeggiate all’aria aperta, del conversare con gli amici, del lasciare in riposo la sensibilità nervosa e l’immaginazione?
Se, poi, si tratta di romanzi libertini; se si tratta di saggi filosofici che diffondono idee radicalmente contrarie alla tradizione, irriverenti del passato, beffarde verso tutto ciò che, fino a ieri, era ritenuto sacro; se si tratta di libri che scaldano il cervello senza alimentare la prudenza, il senso del limite, la ponderatezza, che eccitano la febbre del nuovo senza fornire gli strumenti per amministrarlo con saggezza e con bontà, ma solo predicando una sorta di crociata contro quel valore della stabilità, che ha tenuto insieme la società per secoli e secoli: come non vederne i possibili pericoli, le possibili aberrazioni?
Le memorie degli avventurieri, le imprese spericolate dei libertini, gli amori disinvolti di Casanova, le perversioni innominabili e compiaciute di Sade, le farneticazioni pseudomassoniche di Cagliostro, le satire violente di Voltaire, le beffe anticlericali di Diderot, il materialismo ateo di d’Holbach: come stupirsi se una miscela del genere dà la febbre a più d’un cervello?
Ma è soprattutto il romanzo che penetra in tutte le case, che rende malinconici e sentimentali, che si apre una breccia nel cuore dei giovani e delle fanciulle, che semina inquietudine e senso di straniamento dalla realtà: non è forse vero che, alla pubblicazione dell’«Ortis» di Foscolo, una vera epidemia di suicidi si diffonde tra i giovani lettori?
Il lettore (o la lettrice) di romanzi si immerge nella storia di fantasia, si immedesima con il protagonista, vive come proprie le sue avventure, le sue speranze, le sue delusioni; e questa identificazione, che continua ad essere fortissima anche nel pubblico smaliziato della tarda modernità, quando il libro trova una seria concorrenza nel cinema, nella televisione e nei giochi di ruolo elettronici, doveva essere addirittura schiacciante nel XVIII secolo e all’inizio del successivo, quando esso offriva quasi l’unica alternativa d’evasione alla vita reale.
Per quello che riguarda la saggistica e, più in generale, il mondo delle idee, ci si può legittimamente domandare se l’aumento quantitativo delle letture sia stato un bene in se stesso, sia per i singoli individui, sia per la società nel suo complesso. Noi, figli di una società totalmente alfabetizzata e scolarizzata, nonché profondamente permeata di ideali democratici, siamo portati a rispondere comunque in modo affermativo; ma questo non è un buon metodo storico: dovremmo chiederci, piuttosto, se fu un fatto positivo in quel contesto sociale e culturale, non per noi uomini d’oggi, ma per gli uomini (e le donne) di allora.
La domanda potrebbe anche essere posta in questi termini: è proprio vero che la filosofia, la scienza, siano alla portata di tutti; che possano essere comprese da chiunque, pur sprovvisto di alcuna preparazione specifica, senza che ciò possa generare malintesi, fraintendimenti, errori concettuali che si riflettono, poi, in errori del giudicare e dell’agire?
Già il pedagogista Comenio aveva sostenuto che si può insegnare tutto a tutti, purché gradualmente; e, dunque, che anche ai bambini si possono trasmettere contenuti difficili, se spiegati nella maniera opportuna: ma è proprio vero? Siamo sicuri che tutte le intelligenze, che tutte le sensibilità, siano ugualmente capaci di accogliere qualunque verità, e che la diffusione del sapere in senso orizzontale sia un bene in se stessa, indipendentemente dagli effetti che produce?
Non è forse verro che una persona di intelligenza limitata, o di cultura limitata, o inesperta della vita (come lo sono i giovani e i bambini), non può assimilare nel modo giusto cose troppo difficili per lei; e che, nello sforzo di renderle accessibili a tutti, certe sublimi verità finiscono per corrompersi, per distorcersi, per capovolgersi nel loro esatto contrario?
Era davvero così abietta, così meschina, così stupidamente repressiva, la Chiesa cattolica, quando difendeva il principio che non chiunque può pretendere di leggere e interpretare a modo suo le Sacre Scritture; che non tutte le letture fanno bene all’anima e alla mente; che certe verità scientifiche e filosofiche devono essere presentate con cautela e con prudenza, e non gettate in pasto al volgo, indiscriminatamente, come degli ossi buttati in pasto ai cani?
Siamo proprio certi che la lettura, la cultura, le idee, se si traducono in letture disordinate, in una mezza cultura presuntuosa, in concezioni superbe che ubriacano l’orgoglio umano, siano un bene per il lettore semplice e sprovveduto, il quale, senza di esse, avrebbe continuato a condurre un’esistenza forse più monotona e passiva, ma nel complesso più felice, perché più vicina alle cose vere, ai sentimenti veri, agli affetti, alle realtà immediate della vita d’ogni giorno; una vita, nel complesso, più soddisfacente, più ordinata, più serena, più benefica per gli altri?
Non stiamo facendo l’apologia dell’ignoranza; il discorso è molto più sottile: ci stiamo chiedendo se il sapere pratico dell’artigiano, della massaia, se la fede semplice della vecchietta, siano davvero una disgrazia e se la conoscenza, magari banale e superficiale, di qualche filosofema da strapazzo, oppure di qualche verità anche profonda, ma compresa solo per metà e mal digerita, sia davvero un bene, un fattore positivo in se stesso.
E non ci si venga a dire, magari citando Don Milani, che questa è la solita strategia delle persone colte per tenere sottomesse e per sfruttare le persone incolte. No, la domanda è un’altra; posto che ci sono libri che fanno bene e libri che fanno male, e posto che non tutte le persone possiedono gli strumenti per rendersene conto: è stato un bene che l’Illuminismo abbia messo un libro in mano a tutti, così come ora la tecnica mette un computer davanti a ogni bambino?